Tunisia - La società civile in difesa dell’occupazione di Jemna

27 / 9 / 2016

Jemna è un villaggio situato nella regione di Kebili, nel sud della Tunisia. Da oltre cinque anni, gli abitanti hanno occupato un’oasi di palme da datteri situata in terre demaniali e costituito un’associazione per la gestione comunitaria dei terreni. Nonostante il successo sociale ed economico del progetto, lo stato ha rifiutato di riconoscergli uno statuto legale e il nuovo governo di unità nazionale ne ha vietato la vendita del raccolto. Gruppi della società civile tunisina si stanno mobilitando per la difesa di un’esperienza nata con la rivoluzione del 2011 e che è stata in grado di esprimerne le istanze di dignità e giustizia sociale in una delle forme più radicali.

**video tratto da Nawat.org

Al tempo del protettorato, l’oasi di Jemna era di proprietà di una compagnia francese al pari della gran parte delle terre di buona qualità del paese. Dopo la liberazione nazionale, le terre dei coloni furono confiscate dallo stato, che affidò in seguito l’oasi di Jemna alla compagnia statale Société Tunisienne d’Industrie Latiére (STIL). 

Secondo gli occupanti, la transazione tra governo e STIL fu illegale poiché non approvata dall’amministrazione locale. In corrispondenza del fallimento della STIL, nel 2002 lo stato ha affittato le terre a prezzo ribassato a due investitori privati, di cui uno era il fratello di un alto ufficiale del Ministero dell’Interno sotto Ben Ali. Non sorprenderà il fatto che i profitti provenienti dalla coltivazione dei datteri non beneficiavano affatto una popolazione locale pauperizzata e affetta da alti tassi di disoccupazione. Solo sette salariati lavoravano nell’oasi prima del 2011.

Il 12 gennaio 2011, nel pieno della rivoluzione e due giorni prima della fuga di Ben Ali, gli abitanti di Jemna occuparono 185 ettari di terra chiedendo che fossero assegnati a una gestione comunitaria. Gli abitanti accusavano entrambi i proprietari di far parte del sistema corrotto e clientelare del vecchio regime e fecero dunque valere contro la legalità dei contratti d’affitto la legittimità della rivoluzione. Il presidio di occupazione durò 99 giorni, durante i quali furono raccolti 34.000 dinari tunisini (circa 14.000 euro) tra gli abitanti al fine di rilanciare la produzione. L’esercito preferì non intervenire. I leader della mobilitazione costituirono poi l’Associazione per la protezione delle oasi di Jemna, chiedendo allo stato di procedere a un’assegnazione legale.

Dato il rapporto di forza creato dalla rivoluzione, le autorità non negarono l’assegnazione in principio ma si limitarono a posticiparla sine die. Nel frattempo, l’oasi di Jemna è passata da 20 a 130 lavoratori, il salario è cresciuto del 50% circa e i rendimenti sarebbero drasticamente aumentati da 450.000 dinari all’anno prima della rivoluzione a 1.800.000 dinari all’anno nel 2014 per poi crescere ulteriormente. Un handicap è senza dubbio il fatto che, essendo l’occupazione illegale, l’associazione non può versare i contributi sociali ai dipendenti. In compenso, dato che i membri dell’associazione tutti volontari, i proventi in eccesso sono stati utilizzati per la rinnovazione o costruzione delle strutture pubbliche della zona (scuole, ospedale, parco giochi, mercato, moschea, cimitero) e donate ad associazioni sia locali che di altre regioni.

Nonostante il successo e la popolarità del progetto presso la popolazione di Jemna, il nuovo governo di unità nazionale ha comunicato la sua intenzione di impedire la vendita del raccolto dell’annata e dichiarato che i contratti d’acquisto saranno considerati come invalidi. La stagione della raccolta è cominciata a settembre e se i frutti non verranno raccolti entro metà novembre circa il raccolto andrà perduto. Sarebbe un colpo durissimo per l’occupazione e rischierebbe di compromettere l’esistenza stessa del progetto di gestione comunitaria. Per questo, su appello dell’associazione di Jemna, un gruppo di sostegno si è formato a Tunisi con lo scopo di promuovere la solidarietà al livello nazionale ma anche internazionale. Sono previste una campagna comunicativa e una serie di azioni dirette. È già possibile firmare una petizione di sostegno al link riportato in basso.

La decisione delle autorità si inscrive nella linea di austerity dichiarata dal nuovo governo, che risponde a sua volta a un indurimento da parte di FMI e Banca Mondiale. Tale offensiva in nome della legalità avviene proprio mentre il governo ha tentato nuovamente di far passare le “legge di riconciliazione”, mirante a riabilitare gli uomini d’affari corrotti della cricca di Ben Ali che si erano resi protagonisti di atti illegali ben diversi per natura e ricadute sociali. Si tratta di un attacco frontale a un’esperienza che ha saputo durevolmente associare alla conquista dei diritti civili e politici della rivoluzione la pratica diretta di quelli socioeconomici, andando a intaccare la stessa struttura della proprietà delle risorse.

È opportuno ricordare il protagonismo della gioventù precaria delle regioni dell’interno negli eventi insurrezionali del 2011. L’intensificarsi della precarietà della gioventù tunisina in queste regioni sottosviluppate è a sua volta legato al declino dell’impiego nel settore agricolo. Secondo le stime esistenti, la percentuale della popolazione occupata in agricoltura e pesca è infatti passata dal 45,5% nel 1961 al 15% nel 2014 (dati Itceq). Tale caduta è stata in parte compensata dalla crescita dell’industria fino alla metà degli anni ’80, ma con l’avvio della ristrutturazione neoliberista l’occupazione industriale è entrata in stagnazione permanente (da 34% nel 1984 si resta 33,5% nel 2014, ma con un passaggio dall’industria pesante di stato – bastione della militanza operaia tunisina negli anni ’70 – alla piccola e media impresa orientata all’export di industria leggera). In contesto di crisi fiscale dello stato, l’espansione significativa dell’amministrazione pubblica è al di là delle linee rosse tracciate dai creditori internazionali. Di conseguenza, il peso dell’assorbimento della popolazione espulsa dall’automatizzazione dell’agricoltura si riversa interamente sul terziario privato, che è quasi raddoppiato da 17% nel 1961 al 33% nel 2014. Com’è facile immaginare, in un contesto di sottosviluppo come quello tunisino l’espansione del lavoro creativo e cognitivo resta molto limitata, a maggior ragione nelle regioni dell’interno che per buona parte non hanno vissuto nemmeno l’industrializzazione. Si tratta insomma di forza lavoro ai vertici della precarietà nelle profondità del settore informale.

Negli anni ’90 si è assistito a una crescente commercializzazione della terra, che prima veniva principalmente trasmessa via eredità (1). Il meccanismo coercitivo della competizione di mercato ha permesso a investitori del litorale, spesso collegati al regime politico tramite legami clientelari, di accaparrarsi il controllo di terreni profittevoli nelle regioni dell’interno. Questo è il caso di Jemna ma anche quello di Sidi Bouzid, dove la rivoluzione è cominciata. Mohamed Bouazizi era infatti un operaio agricolo che lavorava in un terreno di familiari. Questi ultimi erano però indebitati con la Banque Nationale Agricole che li aveva infine costretti, tramite procedure alquanto opache, a vendere la terra a un uomo d’affari costiero. Il giorno in cui Bouazizi si diede fuoco accendendo la miccia della rivolta, stava vendendo ortaggi per strada in seguito alla perdita del suo precedente lavoro sulla terra.L’occupazione di Jemna costituisce dunque un intervento di lotta che si addentra nel vivo delle relazioni sociali che avevano dato avvio alla rivoluzione. In Tunisia ci sono state diverse richieste di redistribuzione delle terre, ma in ordine sparso e a titolo individuale. Jemna invece si è trasformata in un esempio di efficacia dell’organizzazione e del mutualismo. Non si tratta qui tanto di un ripristino dell’impiego agricolo, il quale com’è noto non ha molti pregi intrinseci eccezion fatta per un certo romanticismo. Si tratta del diritto a un’esistenza degna e quindi dell’accesso alle risorse che ne sono la condizione. La difesa di dell’occupazione di Jemna è una difesa delle rivendicazioni fondamentali espresse dalla rivoluzione, e una riuscita del movimento locale sarebbe un contributo al rilancio di mobilitazioni future.

*** Lorenzo “Fe” Feltrin, di Treviso, è dottorando in scienze politiche alla University of Warwick, dove si occupa di sindacati e movimenti sociali in Marocco e Tunisia. Ha precedentemente collaborato con la casa editrice milanese Agenzia X, per la quale ha pubblicato il libro Londra Zero Zero sulle subculture anni zero della capitale inglese.

Firma QUI la petizione

(1) Le informazioni riportate in questo paragrafo sono tratte da questo articolo