Tunisia - E' ora di parlare di “denaro gratis”?

28 / 4 / 2016

“Esiste un estremismo di sinistra ancora più pericoloso dell’estremismo islamista. Combattiamo anche contro di esso.”

Beji Caid Essebsi, presidente della repubblica tunisina, 28 gennaio 2016

Dopo il picco delle rivolte e delle manifestazioni di gennaio, la Tunisia continua a caratterizzarsi per un elevato livello di conflittualità sociale, nuovamente sfociata in scontro aperto tra giovani precari e forze dell’ordine nell’isola di Kerkennah tra il 3 e il 15 aprile e a Kef il 19 aprile. Kerkennah è un arcipelago di soli 15.500 abitanti che vivono in primo luogo di pesca, nonché luogo d’origine di due tra i principali leader storici del sindacalismo tunisino, Farhat Hached e Habib Achour. Il 19 gennaio 2016 (pochi giorni dopo l’inizio della rivolta di Kasserine) un gruppo di giovani, tra cui i militanti della sezione locale dell’Union des Diplomés Chômeurs (UDC), hanno avviato un presidio di protesta all’esterno dello stabilimento locale della Petrofac, ostacolandone l’accesso. La Petrofac è una multinazionale petrolifera con sede legale a Londra e un fatturato di 6.884 milioni di dollari, recentemente implicata in un grande scandalo di corruzione per l’ottenimento di contratti in Kazakhistan e Iraq [1]. Nel marzo 2011, in pieno periodo rivoluzionario, Petrofac era stata costretta ad accettare un accordo in base al quale avrebbe versato tra i 385.000 e i 440.000 euro al mese all’amministrazione regionale. Tale somma serviva a finanziare un “programma di lavoro ambientale” che ha generato salari per 248 giovani disoccupati nel 2011, divenuti 266 nel 2012; 215 beneficiari erano laureati mentre 51 avevano titoli di studio inferiori [2]. I salari erogati andavano dai 130 ai 200 euro al mese, senza contratto e quindi senza previdenza sociale. Programmi simili erano stati adottati in diverse zone svantaggiate del paese (nel bacino minerario di Gafsa per esempio), e si tratta sostanzialmente di una precaria misura di tassazione e welfare volta a comprare la pace sociale in un periodo ad alta tensione, essendo che le compagnie che erogano tali “salari” non hanno davvero bisogno della mano d’opera in questione, che infatti spesso non svolge alcuna prestazione lavorativa in cambio. In questo caso si tratta di una sorta di risarcimento alla popolazione isolana per i danni che l’estrazione di gas causa alla pesca e al turismo.

Ovviamente la Petrofac, appena ha ritenuto di averne la possibilità, ha dichiarato di voler por fine a questo balzello che morsica il volume dei profitti – sostanzialmente neocoloniali – da espatriarsi a Panama e ad altre destinazioni esotiche affini. Per far fronte alla situazione, il 16 aprile 2015 è stato concluso un accordo firmato dalla centrale sindacale UGTT, l’UDC, il Ministero dell’Industria e il Ministero degli Affari Sociali secondo il quale lo stato avrebbe sostituito la Petrofac nel finanziamento dei “salari” in questione a partire da dicembre 2015. Tuttavia l’accordo non è stato rispettato cosa che ha spinto i giovani precari a scendere in strada e a restarci nel quadro del presidio permanente alla Petrofac.

La sera del 3 aprile centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa vengono trasportati via mare sull’arcipelago, con modalità che ricordano agli isolani quelle di un esercito di occupazione. I disordini cominciano verso le due di notte, quando la polizia attacca i giovani con lacrimogeni e manganelli e disperde il presidio senza preavviso o tentativi di negoziazione. I lacrimogeni e le violenze colpiscono anche abitanti del posto non direttamente coinvolti nel presidio. Molti giovani, ritenendosi provocati, rispondono lanciando oggetti di vario tipo e dando fuoco a due furgoni e due automobili della polizia, che effettua quattro arresti. L’indomani il sit in si sposta nel vicino villaggio di Mellita. Il 7 aprile la Ligue Tunisienne de Droits de l’Hommes (LTDH) pubblica un comunicato in cui accusa la polizia di aver torturato un giovane arrestato. Il 12 aprile la città è bloccata dallo sciopero generale locale contro la repressione dichiarato dall’UGTT e dall’UDC. Il giorno stesso, la Petrofac dichiara la sospensione degli investimenti per la costruzione di due nuovi pozzi petroliferi a Kerkennah. La notte tra il 14 e il 15 aprile la polizia carica un blocco stradale di giovani che impedisce la circolazione dei camion Petrofac. Si registrano feriti in entrambi gli schieramenti, due macchine e due camionette della polizia vengono bruciate e una terza camionetta viene gettata in mare. L’indomani l’UGTT regionale di Sfax annuncia il raggiungimento di un accordo che prevede la liberazione di tutti i detenuti e il ritiro delle denunce nei loro confronti, la ritirata della polizia antisommossa dall’isola, la cessazione dei blocchi stradali, l’avvio di un programma per lo sviluppo dell’isola e il ripristino dei “salari” ai giovani disoccupati.Il 19 aprile a Kef, altra zona emarginata, la polizia carica con lacrimogeni un corteo indetto dall’UGTT regionale. L’iniziativa, che richiedeva maggiori misure per lo sviluppo economico locale, si conclude in scontri tra manifestanti e polizia. L’UGTT di Kef dichiara dunque uno sciopero generale regionale per il 2 maggio, anche se il lungo preavviso lascia pensare che i dirigenti regionali abbiano voluto lasciare ampio margine alle negoziazioni.

Gli avvenimenti recenti segnalano un indurimento della posizione dell’UGTT rispetto alla linea tenuta durante le rivolte di gennaio, frutto forse di una frustrazione di alcuni settori interni rispetto alla politica economica degli ultimi mesi. Nel periodo di Ben Ali, il sindacato aveva visto una crescente polarizzazione tra la sinistra “militante” e la direzione “burocratica” e alleata con il regime. Il periodo post-2011 è stato invece caratterizzato da un graduale riassorbimento della frattura; i burocrati più impresentabili sono stati messi da parte mentre diversi militanti della sinistra radicale – fino al 2011 illegale – hanno acceduto alla segreteria nazionale del sindacato o al parlamento tunisino. Nel gennaio 2016, come sempre, la segreteria nazionale dell’UGTT ha dichiarato legittimi gli obiettivi delle proteste e condannato le violenze. Ma non sono stati indetti scioperi di solidarietà a nessun livello e la direzione dell’UGTT ha messo in campo la classica tattica sindacale di utilizzare il conflitto sul terreno (sul posto di lavoro oppure, come in questo caso, nelle strade) per rinforzare la propria posizione negoziale nei confronti dello stato e delle aziende nel tentativo – almeno teorico – di far assestare le lotte su un nuovo e più vantaggioso equilibrio.

Il sindacato ha così ottenuto un dialogo nazionale tripartito sulla questione dell’occupazione (sarebbe meglio dire “della disoccupazione”). Le negoziazioni hanno scomodato persino il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki Moon e il direttore generale dell’ILO Guy Ryder, che hanno assistito alla presentazione dei risultati il 29 marzo (pochi giorni prima della calata della polizia su Kerkennah). Ma una rapida occhiata alle raccomandazioni espresse (politiche attive del lavoro, aiuti alla piccola e media impresa, economia sociale e solidale, parternariati pubblico-privato, database sulle offerte di lavoro all’estero [3] non lascia molti dubbi sul fatto che si tratti in gran parte di fumo. Alcune sono misure di semplice buonsenso, altre sono dei regali ai padroni. Per quanto riguarda l’economia solidale, in Italia sappiamo bene come in un contesto neoliberista le cooperative – che nacquero come espressione delle aspirazioni alla democrazia economica del movimento operaio – possano divenire delle macchine di sfruttamento ben peggiori delle aziende normali. Il problema principale di questa politica è che non vuole pestare i piedi a nessuno, le istituzioni internazionali che hanno guidato il “dialogo” non metteranno mai in questione il pagamento del debito dittatoriale, i trattati commerciali svantaggiosi per la Tunisia o la deregolamentazione dei paradisi fiscali dove sono fuggiti tra gli altri i capitali del clan Ben Ali-Trebelsi. Come ha commentato Cherif Khraifi dell’UDC: “Ogni provvedimento è destinato a fallire senza una revisione del modello di sviluppo”. Ma si potrà discutere di una tale revisione solo quando il rapporto di forza migliorerà anche in altri paesi della regione, essendo la Tunisia un prezioso ma piccolo avamposto.

Nel frattempo il 15 aprile, il governo – in acuta crisi fiscale – ha concluso un “accordo di principio” per un ulteriore prestito da 2,5 miliardi di euro con il Fondo Monetario Internazionale. Ovviamente in cambio di un approfondimento delle riforme di mercato. È anche in quest’ottica che si può leggere l’irrigidimento da parte del Ministero degli Interni rispetto alle rivendicazioni socioeconomiche. Dall’altro lato il Primo Ministro Essid ha attaccato la coalizione partitica Front Populaire per la presenza di suoi militanti nei disordini. Ovviamente l’effetto di disoccupazione più repressione della sinistra è quello di gettare altri giovani precari nelle braccia dell’estrema destra islamista, ma – se si fa fede alle dichiarazioni del Presidente della Repubblica Bajbouj Essebsi – non è il caso di preoccuparsene troppo, infatti l’estremismo di sinistra sarebbe più pericoloso di quello islamista.

Sperando che Bajbouj abbia ragione su quest’ultimo punto, mi azzardo a mettere in luce un’interessante contraddizione delle mobilitazioni tunisine per i diritti sociali. Il diritto al lavoro è stata una rivendicazione centrale delle mobilitazioni sin dalle rivolte di Gafsa del 2008, durante le quali, si narra, emerse per la prima volta lo slogan divenuto leggendario nel 2011: “Il lavoro è un diritto, banda di ladri!”. Eppure questa rivendicazione è stata anche la più frustrata, mentre i diritti civili e politici si sono ampliati relativamente allo status quo ante, la disoccupazione è aumentata di diversi punti percentuali. Ma i disordini di Kerkennah, per quanto ancora incentrati sulla retorica del lavoro, di fatto chiedevano “denaro gratis”, nel senso che da Petrofac si esige che sborsi soldi per prestazioni lavorative poco più che simboliche, presso enti pubblici che non hanno bisogno di mano d’opera. L’esperienza di scarsità quotidiana che vivono gli abitanti dei paesi del terzo mondo rende le rivendicazioni di diritto al reddito senza lavoro poco “presentabili” all’opinione pubblica. Ma, alla luce della tendenza secolare all’automatizzazione e di quella più recente all’aumento delle disuguaglianze economiche, la rivendicazione del diritto al reddito sembra in verità più realistica di quella del diritto al lavoro, nonché ovviamente preferibile. Ed è chiaro che per soddisfarla sia necessario prendere i soldi dove ci sono, e le compagnie petrolifere dispongono di forzieri più interessanti di quelli dello stato tunisino. In altre parole, quella che sembra una lotta “retrograda” per la difesa di posti di lavoro inesistenti, può essere reinterpretata – tendenziosamente, sia pure – come una piattaforma di fatto innovativa verso il diritto a esistere indipendentemente dall’erogazione della prestazione lavorativa.

*** Lorenzo “Fe” Feltrin, di Treviso, è dottorando in scienze politiche alla University of Warwick, dove si occupa di sindacati e movimenti sociali in Marocco e Tunisia. Ha precedentemente collaborato con la casa editrice milanese Agenzia X, per la quale ha pubblicato il libro Londra Zero Zero sulle subculture anni zero della capitale inglese.

[1] Dati della Petrofac

[2] Le informazioni tecniche che seguono sono riprese principalmente da questo articolo di Nawaat.org

[3] Dati sulle negoziazioni