Trump, l’evento e il paradigma

21 / 11 / 2016

Franco Barchiesi è professore associato presso il Dipartimento di Studi Africani ed Afroamericani all'Università dell'Ohio. Qui l'articolo originale, scritto per Globalproject in inglese.

Ed ecco che giunse l’inevitabile, ineccepibile, trauma bianco liberale. All’indomani delle elezioni di Trump, la questione che ha prevalso all’interno del quadro del progressismo americano, dalla stampa ai talk show fino agli sguardi allucinati dei vicini e dei colleghi di lavoro, è stata «come è potuto accadere? E qui, proprio in questo Paese». Sulla scia dell’evento, un potente sentimento ha preso piede, nella società civile, ossia che una breccia momentanea abbia avuto luogo.

L’immagine della presidenza di Trump ha determinato improvvisamente, nella sinistra, percezioni di uno spartiacque tra uno speranzoso “prima” e un deprimente “dopo”. L’insistenza nella sconfitta campagna di Clinton e del Presidente uscente, Barack Obama, sul fatto che il voto potesse rappresentare un punto di non ritorno “storico” – la promessa della prima donna Presidente per infondere nuova vita e decenza all’istituzionalità degli Stati Uniti contro l’infausto spettro di un fascismo risorto – ha soltanto rafforzato, nell’insieme del dolore che accompagna tutti, l’eventualità del risultato.  

Le elezioni, in breve, hanno dato indizio di ciò che il teorico nero Frank Wilderson chiama “una crisi nel comune”, un tumulto nella moltitudine, una lacerazione nella società civile. Per Wilderson, la “società civile” è un regno dell’agire e dell’immaginazione predicato sopra l’autocostruzione della bianchezza come umanità, che necessariamente richiede il relegamento della negritudine nell’inumanità. Anche un brave riassunto di questa argomentazione va oltre questo articolo. Basti dire che l’inumanità della negritudine è ciò che permette agli umani bianchi di costruire istituzioni, ideologie di libertà, immagini di diritti e le meditazioni etiche sulla democrazia.

Tali capacità politiche e cognitive pongono i corpi neri come inattivi, “socialmente morti”, scrive Wilderson, ma ancora oggetti senzienti, o sfoghi di fantasie bianche di coercizione, miglioramento, immaginazione, violenza e cura. L’inumanità della negritudine, o l’antagonismo fondamentale tra la vita bianca e la morte nera, è in ultimo la condizione di esistenza per i conflitti politici, i dilemmi morali, e l’emergenza storica di una società civile, così come la sua attitudine verso l’esperienza e la narrazione della storia come una successione di eventi.

Eppure l’anti-negritudine stessa non è un evento. E’ piuttosto un paradigma, nel quale i corpi neri non si confrontano banalmente con la violenza, ma sono effettivamente costituiti da questa attraverso un processo di depredazione, coercizione e asservimento che sostiene la bianchezza come un progetto di autocoscienza globalizzato. La violenza contri i neri è quindi, continua Wilderson, non solo senza analogie, ma anche gratuita, non è una violenza che risponde ad una precedente trasgressione. Commentando, nel 1900, sul linciaggio razzista come “legge non scritta”, Ida B. Wells ha riflettuto sull’elasticità di una violenza bianca sul corpo nero, una violenza per cui non sono esistite ovvie giustificazioni politiche o punitive. La sua conclusione è stata che le raccapriccianti uccisioni dei neri servissero agli obiettivi quotidiani di costruzione di una comunità bianca, il suo ordine simbolico, i suoi ruoli di genere, e le gerarchie razziali che vi presiedono.

Nelle parole di Wilderson, non è tanto una questione comparativa di quanto brutale ed intensa sia la violenza sofferta dai neri in relazione alla violenza sofferta dagli altri. Piuttosto la violenza contro i neri, in quanto giustificata da nulla se non dall’assoluto potere umano della bianchezza, non può essere messa in analogia con le offese sofferte contingentemente dagli altri oppressi ma che ancora sono attori umani, come gli immigrati, le donne bianche, o i lavoratori, in base a violazioni specifiche, relazioni sociali, o uno status produttivo.

La critica di Wilderson, che lui chiama “afropessimistica”, afferra la posizione dei neri non come un soggetto, ma come un oggetto nella società civile, che permette una riformulazione dell’ascesa di Trump lungo una articolazione di eventi e paradigmi. Le conversazioni che hanno configurato le elezioni, e l’intero arco della campagna di Trump, in quanto eventi erano saturi di bianchezza. I progressisti si sono tenuti stretti all’immagine della società civile come universalmente umana ed essenzialmente etica nel suo impegno nei confronti della libertà, progresso ed inclusione, nonostante non fossero all’altezza di tutto ciò nell’istante specifico. Trump stesso, dall’altra parte, ha invocato la bianchezza rivendicando apertamente l’America bianca come un Paese da riprendersi dalle mani di nemici variamente razzializzati – dai migranti “stupratori” al caos nelle “città interne”. La demonizzazione dei musulmani e degli stranieri ha abbondantemente preso le mosse da, e risuonato con, un repertorio violentemente stabilito dalla paura bianca, dal risentimento, dal desiderio. E la bianchezza ha risposto alla chiamata. I Repubblicani hanno spazzato il voto bianco, prendendo la maggioranza sia dagli uomini bianchi che dalle donne bianche, così come dai bianchi con titoli universitari, proletari bianchi, poveri bianchi e ricchi bianchi.

In termini paradigmatici, comunque, lo slittamento da un liberalismo multiculturale ad un suprematismo nazionalistico è un cambiamento solo nella forma della soggezione nera. Nei cambiamenti precedenti una continuità sostanziale ha sostenuto – dopo la fine legale dello schiavismo razziale e sotto l’amministrazione di tutte le persuasioni ideologiche – la sequenza della segregazione nera legalizzata e della revoca dei diritti, l’imprigionamento di massa, la devastazione delle famiglie e delle comunità nere attraverso delle politiche sociali esplicitamente punitive e, più recentemente nell’epoca di Barack Obama, la drammatica ondata di uccisioni di neri per mano della polizia ha integrato l’impunità ricorrente.

Non solo la Nazione post-schiavitù è stata impegnata nell’usare le leggi e il potere dello stato per perpetuare la subordinazione dei neri. Ha anche salvaguardato che la lealtà alla Costituzione sostenesse i documenti fondativi di una società schiavista. Quando, nel 1896, la Corte Suprema ha confermato la legalità della segregazione sociale nel famoso caso di Plessy contro Ferguson, Justice Harlan, opponendosi alla decisione, insisté che «la razza bianca si impegna ad essere la razza dominante in questo Paese. E così è…quindi, non dubito, continuerà ad esserlo per sempre se…si mantiene stretta i principi della libertà costituzionale».

La democrazia, dichiarata come senza tempo, contro i neri ha ambito a negare l’eventualità degli schiavi passati, definendo la possibilità di una periodizzazione, e contraddicendo la stessa plausibilità di un’America contro la cattività nera. Invece, i discorsi su di un “prima” e un “dopo” Trump, la percezione di questo evento come un trauma (l’assalto fascista alle “libertà”), sono implicate in delle capacità di narrare la temporalità, capacità che non solo non sono state rese disponibili ai neri, ma che effettivamente hanno caricaturato la “libertà” nera come un progetto bianco. Separando l’evento dal paradigma, il dibattito sul trumpismo è un dramma bianco le cui caratteristiche abilitano dilemmi e tumulti contro una “scena” offuscata, fissa, diradante, eppure coerente,  come l’ha messa la storica Saidiya Hartman, dell’anti-negritudine.

La violenza razziale e l’aggressione generalizzata sui musulmani, gli immigrati, e gli “altri” nell’immaginazione trumpiana, sono state chiaramente in aumento dopo le elezioni. Nell’Università dell’Ohio a Columbus, dove insegno, studenti neri e latini hanno pubblicamente dichiarato di aver paura di lasciare i loro dormitori; diversi di loro sono stati molestati per aver indossato dei foulard sulla testa; una studentessa latina è stata circondata da uomini bianchi che le hanno urlato contro di “costruire il muro”.

Il registro di un evento traumatico è utile nell’analizzare questi eventi? Quali possibilità espressive fornisce alla sofferenza? Vuole semplicemente convalidare l’onestà delle istituzioni, che usano questo trauma per offrire abilità lenitive mentre cercano di liberarsi della loro stessa anti-negritudine? Nel campus principale dell’Università dell’Ohio l’85% degli studenti, e una proporzione simile tra lo staff della facoltà, sono bianchi, mentre i programmi dei Black studies, il sostegno agli studenti neri e l’opportunità per la ricerca nera e una conoscenza critica sono stati decimati, per i motivi che non c’è semplicemente stato investimento nella “diversità” tra gli anni di austerità e il managerismo corporativo. Forse, allora, il concetto più adatto per la violenza post-elettorale non è l’evento post-traumatico ma, come dice David Marriott, la ripetizione traumatica, la quale ci riporterebbe di nuovo al paradigma.

Una critica nera dell’evento, dall’altra parte, non ha aspettato la vittoria di Trump per offrire una prospettiva alternativa. Black Lives Matter ha rifiutato, nello sdegno dei Democratici di ogni colore, di abbracciare sia l’appeal di Hillary Clinton che quello del suo avversario, Bernie Sanders. La prima era un obiettivo facile, sulla scia del suo ruolo attivo nelle politiche che, sotto la presidenza di suo marito, hanno disgregato le comunità nere attraverso il mercato e la liberalizzazione finanziaria, hanno distrutto le famiglie nere sostituendo l’assistenza sociale con pagamenti temporanei utilizzabili solo su ricerca di un lavoro precario sottopagato, e hanno posto le vite dei neri sotto un continuo stato di emergenza amministrato da politiche di militarizzazione, condanne obbligatorie, e incarcerazione di massa attraverso la ridefinizione razziale dei reati e delle pene.

Come scrive Saidiya Hartman riguardo l’ordine legale post-schiavitù, e qualsiasi altro governo nel mezzo, l’amministrazione Clinton ha procrastinato l’opinione bianca, i sentimenti privati, e le questioni sociali come fonte della legislazione dei suoi obiettivi nei problemi razzializzati. Eppure Black Lives Matter non ha semplicemente comparato gli attori in campo, ma piuttosto ha rifiutato il dramma bianco in quanto tale, da cui la sua distanza spettacolare da Bernie Sanders durante il suo comizio a Seattle nell’Agosto del 2015. In quell’occasione le attiviste Marissa Jenae Johnson e  Mara Willaford interruppero Sanders con la loro richiesta di non essere poste sotto il comando di un ventriloquo dal “liberalismo suprematista bianco”, ricevendo per la loro azione la disapprovazione della gente di sinistra bianca che accusò le due donne bianche di dimenticare i loro “veri interessi”, che assumevano una dipartita dalla sofferenza nera verso altre grammatiche dell’offesa – genere, classe, precarietà – compatibile con il mettere la negritudine nelle politiche di coalizione.

Un anno dopo Johnson ha riflettuto su quell’azione e le verità a questa inerenti, nello specifico che «siamo coinvolti nella supremazia bianca del nostro passato in molti modi involontari per indirizzare la crisi nella quale siamo immersi. Portando all’attenzione del pubblico il nostro tentativo di resistenza contro le forze apparentemente progressiste che ci opprimono, mettiamo in discussione il sistema intero». L’attivista accusa la coerenza ricercata dalla società civile facendo intimamente diventare “le donne nere che lottano per la libertà” degli oggetti dello scandalo e, per una messa in discussione paradigmatica e cruciale dell’evento, ha offerto una conclusione che vale una citazione completa:

 «Non credo sia vero che questa controversia sia stata sollevata principalmente dall’amore delle persone per Sanders e dalla confusione attorno a BLM. No, credo che ciò che ha colpito nell’essenza in un modo che non mi sarei mai immaginata siano state le immagini che le persone hanno visto sul loro cellulare, sui loro iPad e sulle loro televisioni. Vedere due giovani donne nere con le loro trecce da ghetto, grandi orecchini e un disprezzo totale per l’autorità per l’autorità dello Stato e il potere della supremazia bianca sulle loro vite, è stato ciò che ha scosso nell’intimo la Nazione. Il problema che ha unito la gente bianca nella paura e nella rabbia verso la nostra azione non è stato il loro amore per Bernie Sanders o la loro dedizione per la civiltà; invece è stata l’immagine visuale di due persone, giovani donne nere, che sono saltate fuori dal sistema-castello che la società americana ha posto per loro e sono rapidamente andate a contestare un potente uomo bianco…Le donne nere che si sollevano, con ampia convinzione e senza paura, è un tipo di resistenza che disfa lo stesso tessuto della società americana. Sfida la logica di ogni sistema in America che è stato disegnato per opprimere e contenere i corpi neri, poveri e femminili. Le donne nere che si sollevano portano la paura in America perché siamo le fondamenta su cui ha costruito il suo impero.»

 Prendere queste parole, come Sanders ha cercato di fare in seguito, semplicemente come spunti per una “conversazione” progressista avrebbe oscurato il loro potere di asserire che un qualcosa delle conversazione tra umani è designato per rendere indicibile e irrappresentabile gli usi bianchi dei corpi femminili neri come punti di pressione per disarticolare la negritudine in quanto condizione della politica e della comunità.

L’assunto di un’apertura indefinita dei corpi neri, in quanto un vuoto che aspetta soltanto l’intervento e la significazione bianca, definisce nell’essenza, per l’accademico nero Jared Sexton, l’anti-negritudine. Il bianco che si fa allettante per una solidarietà di genere universale ed escludente (figurarsi la promessa della presidenza di Hillary Clinton) è dunque un altro modo per l’abitazione non etica dei corpi neri dal momento che, come Saidiya Harman scrive, la «donna è una nozione che occlude la comprensione della produzione differenziale del genere e della sessualità» in formazioni razzializzate dove «la soggettività offende allo stesso modo».

Un’altra donna nera, Samaria Rice, madre di Tamir Rice, un ragazzino di 12 anni assassinato dalla polizia di Cleveland nel 2014, ha elaborato sulla resistenza dell’anti-negritudine paradigmatica un collegamento non solo con l’eventualità progressista, ma anche con la composizione razziale cambiata all’interno della leadership istituzionale, che ha causato molte aspettative, adesso infrante, per un’America post-razziale. Rivolgendosi al Presidente stesso, ha detto: «Barack Obama, non so cosa tu stia facendo. Non so come tu sia capace di dormire la notte. Dormi e basta, svegliati e vedi che un altro omicidio è accaduto per responsabilità del governo. E nessuno sta ottenendo giustizia». La società civile può dormire la notte, argomenta Wilderson, perché è sicura di aver riformato un mondo non etico nelle, tra le altre cose, opportunità di cambiamento offerte dalla democrazia elettorale.

In un saggio recente sul “Perché io non voto” – che richiama l’articolo del 1956 similmente intitolato da W.E.B. Du Bois, che definì le elezioni americane non come scelta tra il meno peggio, ma la legittimazione di due “peggio” con nomi diversi – Wilderson illustra come le fondamenta della democrazia nella violenza siano lontane dall’essere meramente metaforiche. Egli mostra, in particolare, come i collegi elettorali, i meccanismi per tradurre “la volontà popolare” nella selezione dei leader siano nati dall’accumulazione e dalla sostituibilità dei corpi neri.

Anche se gli schiavi non potevano votare, erano comunque contati per determinare il numero di voti elettorali per ogni suddivisione del Paese, che in pratica garantiva il dominio istituzionale attraverso la riproduzione violenta e forzata degli schiavi, in altre parole, lo stupro obbligatorio. Questa pratica trova una corrispondenza moderna nella regola della “residenza usuale”, con cui in modo sproporzionato i prigionieri neri delle carceri, molto spesso privati del diritto di voto, sono contati, per motivi di rappresentanza, come parte della popolazione della località in cui sono rinchiusi in prigione. 

La relazione tra il corpo politico americano e il corpo della negritudine non è semplicemente quella di un’autorizzazione della violenza del primo sul secondo, ma è letteralmente la vita bianca che si fortifica sulla morte nera. E’ in questa relazione che la politica dell’evento (elettorale) trova il suo limite insormontabile.

(traduzione Fabio Mengali)