Time War, in Siria

Continua il massacro dei civili mentre le milizie islamiche, Assad e le potenze mondiali giocano a risiko

4 / 10 / 2016

Ogni giorno, sempre di più, l’attenzione mondiale è catturata dai devastanti bombardamenti su Aleppo, a dirla tutta però è in corso un’altra offensiva, molto più nell’ombra, che potrebbe determinare ulteriori risvolti, e gravi conseguenze, nel conflitto siriano.

Le Forze Armate turche (TSK) stanno spingendo i propri carri armati e le truppe di terra, mille delle quali appartenenti ai corpi speciali dell’esercito, verso l’interno della Siria, insieme ad alcune componenti delle forze di opposizione siriane, cercando così di istituire una “safe zone” oltre confine.

L’operazione “Scudo dell’Eufrate” ha caratterizzato lo sviluppo di nuove e interessanti relazioni di altalenante temperatura: gelo sull’asse Ankara - Washington, caldo riavvicinamento invece tra Ankara e Mosca. Sostanzialmente, il contingente turco è impegnato ad attaccare i combattenti curdi, i quali sono un alleato chiave nella lotta internazionale contro il terrorismo, mentre i russi, pesantemente impegnati per assicurare Aleppo all’alleato Assad, hanno garantito una tacita approvazione per l’azione militare di Erdogan nel Nord della Siria. Ruolo ambiguo invece quello degli Usa, che attualmente - complice anche la gran confusione e i grandi interessi in gioco, quotidianamente esposti in Siria - non hanno pubblicamente preso una parte precisa e definitiva o meglio, si sono celati esclusivamente dietro alla necessità di sconfiggere l’oscuro nemico jihadista. In questo ossessivo rimpallo di accuse e avvertimenti tra le varie cancellerie, impegnate nel pantano siriano, non si sono risparmiate alzate di voci e minacce, che si risolvono il più delle volte in prese di posizione dettate da doveri di Realpolitik. Ne è lampante esempio la situazione intorno alla città di Manbij, conquistata a caro prezzo dopo mesi di assedio dalle SDF e dallo YPG, con quest’ultimo costretto a ritirarsi dalla città sotto pressione di un attacco frontale turco. Ora non è chiaro se tutte le componenti curde abbiamo effettivamente lasciato Manbij e si siano ritirate ad Est del fiume Eufrate ma rimane il fatto che, probabilmente dietro pressione americana, i curdi si siano “nascosti” per evitare conseguenze.

La prospettiva di questi scontri arriva proprio quando è in fase di preparazione l’offensiva militare, presumibilmente finale, per la riconquista delle capitali dell’autoproclamato Stato Islamico: Raqqa in Siria e Mosul in Iraq. A tale riguardo, il Presidente Erdogan ha dichiarato solo qualche giorno fa che se “gli Usa decideranno di affiancare lo YPG nella conquista di Raqqa allora la Turchia non prenderà parte all’operazione; invece siamo disposti a collaborare se verrà preferita la collaborazione solo con la componente araba delle Forze Democratiche Siriane (SDF), di cui anche lo YPG è parte”.

Il tono di Erdogan fa chiaramente trasparire rabbia per la presa di posizione americana e suona anche come un ultimatum. Va però ricordata l’abilità politico-diplomatica del Presidente turco nell’ultimo anno, egli infatti ha sostanzialmente saputo usare a proprio piacimento le varie crisi politiche, interne ed estere, e diplomatiche, (vedi Usa, Russia, EU..) solo per trarne forza e consenso. Nel corso dello stesso discorso Erdogan ha attaccato più volte gli Stati Uniti per il loro supporto materiale verso i curdi dello YPG, considerati invece da Ankara terroristi.

Ma nonostante tutte queste accuse, gli Stati Uniti proseguiranno per la loro strada senza tanto badare alle lamentele dell’alleato turco e continueranno ad armare lo YPG e le SDF nella loro lotta contro l’ISIS. Intenzioni confermate su più livelli interni all’establishment americano: Joe Biden, Vice Presidente, lo ha ribadito in un recente incontro ad Ankara con Erdogan stesso; Hillary Clinton garantisce invece che il governo americano continuerà ha supportare gli arabi e curdi per la liberazione di Raqqa; infine il Capo di Stato Maggiore Dunford conferma, in una dichiarazione, che la liberazione di Raqqa passa soprattutto dal supporto militare che gli Usa garantiranno alle SDF.

Detto ciò, va aggiunto che l’interventismo americano nei conflitti mediorientali è sempre stato accompagnato da una visione politica alquanto criticabile. Non serve, in questo contesto, paragonare l’intervento in Siria con le catastrofiche campagne militari in Iraq, Afghanistan e Libia, dove sono stati commessi enormi errori di valutazione sulle alleanze e sugli obiettivi. Il ruolo americano dipenderà molto anche dalle prossime elezioni presidenziali e da chi prenderà il timone delle forze armate per i prossimi quattro anni: in questo senso abbiamo già assistito a volta faccia clamorosi in nome di più alti interessi.

Come ultima puntualizzazione, va detto che l’intervento Usa in Siria, prima con la campagna aerea ed ora anche con le truppe sul campo, e la tacita alleanza con le SDF è totalmente un’alleanza di scopo, infatti se al posto dei curdi ci fosse stata un’altra fazione, senza troppi scrupoli si sarebbero “alleati” con quella fazione.

Mentre le relazioni tra Ankara e Washington vanno velocemente raffreddandosi, quelle con Mosca si intiepidiscono sempre più, dopo le tensioni derivanti dall’abbattimento di un jet russo da parte di f-16 turchi lo scorso Novembre. Dopo alcuni mesi di tensioni, reciproche accuse, scaramucce, Erdogan si è ritrovato a dover ridimensionare la sua posizione e porgere le scuse per quanto successo. I colloqui e le collaborazioni sono così ricominciati tanto che nel recente incontro a San Pietroburgo il presidente russo Putin ha definito la sua controparte turca “un vecchio amico”.

In seguito all’incursione turca in Siria, c’è stato un riavvicinamento quantomeno curioso, ma che cela reciproche convenienze dal punto di vista di politica estera. E’ chiaro e lampante che Putin non ha nulla da obiettare sulle azioni e obiettivi di Erdogan, poichè la linea politica di quest’ultimo non calpesta in alcun modo gli interessi della Russia, che invece punta tutto su Aleppo. Al contrario, la Turchia legge le azioni degli Usa come una netta presa di posizione e intromissione negli interessi nazionali e strategici turchi in Siria. Ad oggi, molto di quando succede in Siria, specialmente nel Nord, dipende da che tipo di accordi vengono presi sulla linea, ormai caldissima, tra Ankara e Mosca.

Va specificato, a questo punto, che l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, lanciata lo scorso 24 Settembre 2015, ha un duplice obiettivo: uno esplicito ed uno implicito. Infatti, la creazione di una zona di sicurezza di circa 900 chilometri quadrati dovrebbe da una parte scacciare le milizie dello Stato Islamico dal confine turco, ma allo stesso tempo dovrebbe impedire alle forze curde di ricongiungere i tre cantoni del Rojava; in questo modo Erdogan si garantirebbe in maniera immediata il controllo di tutta la frontiera sud. Sembra facile a dirsi, ma non va dimenticato che questa operazione era stata pensata e proposta inizialmente come clausola nell’accordo per l’utilizzo della base aerea di Incirlik da parte degli americani. Insomma sembrano solo capricci riguardo ad un fatto che, effettivamente, è stato decisa da tempo. Ed ora che il dialogo tra le due potenze ha subito una battuta d’arresto, anche per le accuse che Erdogan muove contro Obama rispetto alla responsabilità nel fallito golpe di metà luglio, sarà da capire il destino di quella base aerea dal punto di vista pratico, mentre dal punto di vista di alleanza strategica i russi, in questo caso, hanno vinto sugli americani.

I turchi hanno indicato il prossimo obiettivo nella loro campagna in Nord Siria: Al-Bab, la porta. La città di Al-Bab ha un’altissima importanza strategica e anche un grosso significato simbolico perché fu una delle prime città a sollevarsi contro Assad, poi fu conquistata da Jabhat Al-Nusra, e infine, dall’ISIS. Il nome stesso significa in arabo la porta ed visto, simbolicamente, come il punto di entrata , dopo la frontiera turca, verso il cuore del Califfato e delle sue capitali Raqqa e Mosul.

La gara per diventare i portinai avrà grossa importanza non solo nella guerra all’Isis, delle relazioni Usa-Turchia, ma anche sulle dinamiche politico-strategiche dell’area.

Mentre si preparano su tutti i fronti grandiose offensive contro il Califfato, con centinaia di migliaia di uomini e mezzi in ballo, lo scotto peggiore lo pagano ancora una volta i curdi della Rojava. E’ innegabile che vengano visti da tutti gli attori presenti nel conflitto siriano come una pedina di scambio, da usare a proprio piacimento quando si è in un momento di crisi. L’uso così indiscriminato di bombardamenti, armi chimiche e violenza costa vite umane e soprattutto permette al Califfato di prepararsi alla battaglia decisiva, mentre le cancellerie tracciano già nuove linee sulle mappe meramente in base a scopi e interessi economici.

Forse è arrivato il giorno in cui anche noi dobbiamo schierarci, siamo anche noi parte di questo grande Risiko, per quanto non si parteggi per nessuna delle grandi potenze, ma allo stesso tempo - seppur indirettamente - siamo anche noi responsabili della violenza che la Siria quotidianamente affronta: solo a settembre hanno perso la vita più di 1500 persone. Ora e non domani dovremmo decidere da che parte stare.