Siria. La prova di forza.

14 / 4 / 2018

3.09 (ore italiane) Donald Trump: «Ho ordinato l’attacco in Siria»; così nella notte si è aperto un nuovo capitolo della lunghissima guerra in Siria. 

Dopo i bombardamenti ordinati da Putin la scorsa settimana, ecco che entra in gioco il “grande e illuminato Occidente”. Stati Uniti d’America, Regno Unito e Francia hanno attaccato la Siria nella notte, in risposta a un sospetto attacco di armi chimiche nell'ex roccaforte ribelle di Douma lo scorso fine settimana.

Trump, ostentando tutta la drammaticità del caso, ha definito l’uso di gas chimici in Siria un «atto spregevole, degno dei crimini di un mostro». 

Non va dimenticato il contesto: all’inizio della guerra civile siriana, nel 2011 e negli anni successivi, i Paesi occidentali e le potenze regionali - come la Turchia e l'Arabia Saudita - hanno fin da subito tentato di contrastare il regime di Assad, anche se nessuno ha intrapreso azioni concrete per rimuovere il leader siriano, come accaduto - ad esempio - in Iraq e Libia.

Nonostante gli appelli alla ribellione, gli Stati Uniti hanno evitato di intraprendere un intervento militare diretto, come quello lanciato in Libia, che ha contribuito alla caduta di Muhammar Gheddafi. La decisione statunitense di non fornire ai ribelli armi pesanti è stata sempre gestita pubblicamente con il timore che queste potessero cadere nelle mani di gruppi come l'Isis e, successivamente, essere usate contro gli interessi occidentali. In realtà sappiamo che gli Usa, insieme ai loro alleati locali, abbiano contribuito in maniera decisa al rafforzamento dell’Isis, soprattutto a cavallo tra 2012 e 2014.

Proprio l’emergere dell’Isis - nel frattempo diventato Stato Islamico - e l’intervento russo e iraniano a vantaggio del regime siriano, sembravano aver convinto le potenze occidentali a mettere in subordine la prospettiva di rimuovere Assad.

Nonostante la diffusa opposizione al suo governo, il dittatore siriano continua a mantenere significativi livelli di sostegno in Siria. Tale supporto si estende oltre la sua stessa comunità alawita e include anche membri della comunità sunnita, che hanno tratto benefici finanziari durante il suo governo e hanno scarso interesse a cambiare lo status quo.

Ad oggi Bashar al-Assad è sopravvissuto a sette anni di una guerra devastante e di intense pressioni internazionali per farsi da parte. Certamente gli attacchi aerei di questa notte sulle strutture del governo siriano saranno un duro colpo per i suoi tentativi di unificare forzatamente la Siria sotto il suo governo e non è ancora chiaro quali alleanze possano delinearsi nell’immediato futuro.

Secondo il presidente Trump, «lo scopo delle nostre azioni stasera è stabilire un forte deterrente contro la produzione, la diffusione e l'uso di armi chimiche». Emanuel Macron continua su questa scia e così ha rincarato la dose: «non possiamo tollerare l'uso ricorrente di armi chimiche, che è un pericolo immediato per il popolo siriano e per la nostra sicurezza».

Gli Stati Uniti e i loro principali alleati NATO hanno lanciato più di 100 attacchi contro la Siria, usando i missili da crociera Tomahawk, che sono stati usati nel precedente attacco statunitensi avvenuto lo scorso anno.

Come giustificazione questi bombardamenti vengono definiti "attacchi di precisione” che hanno colpito tre obiettivi. Si tratta di un centro di ricerca scientifica vicino a Damasco, collegato alla produzione delle presunte armi chimiche, un deposito di (sempre presunte) armi chimiche vicino a Homs e un posto di comando vicino alla capitale. I missili scagliati contro quest’ultimo sono stati intercettati dal sistema di difesa missilistica siriano. Bisogna aggiungere che Damasco è senza elettricità da stanotte e che le aree bombardate sono situate nei pressi di zone abitate. Tuttavia, secondo le dichiarazioni statunitensi, i raid avranno ufficialmente fine solo quando Damasco smetterà di utilizzare le armi chimiche.

Intanto l'ambasciatore della Russia negli Stati Uniti ha avvertito Trump di possibili conseguenze militari, aggiungendo: «Insultare il Presidente della Russia è inaccettabile e inammissibile: gli Stati Uniti - il possessore del più grande arsenale di armi chimiche - non hanno il diritto morale di incolpare altri paesi»

Ruolo non secondario in questo frangente è stato ricoperto dall’Italia. Molto ambigue in tal senso le dichiarazioni del primo ministro uscente Gentiloni il quale prima ammette di aver fornito apporto logistici agli Stati Uniti, poi precisa: «Quella di stanotte - ha spiegato il premier - è stata un'azione circoscritta, mirata a colpire le capacità di fabbricazione o diffusione delle armi chimiche, non può e non deve essere l'inizio di una escalation, l'Italia lo ha ribadito nei giorni scorsi e continuerà a farlo».

Il governo uscente si esprime dunque in termini cauti, lasciando che gli Usa utilizzino le basi in Italia, ma facendo finta che questo non c’entri nulla con i bombardamenti. Da notare la posizione guerrafondaia del PD che accusa Lega e 5 Stelle di «ripetere la propaganda russa», come se avallare quella americana e francese fosse più nobile; come se da una parte o dall’altra non vi siano precise strategie militari e geopolitiche che supportano i tanti attori di una guerra che da sette anni genera morte e devastazione.

Ricordiamo che solo poche settimane fa nessuno ha mosso un dito quando l’esercito turco e gli islamisti siriani hanno preso la città di Afrin commettendo saccheggi, stupri, torture ed esecuzioni sommarie a danno del popolo curdo. Evidentemente la morte ad Afrin, di chi ha combattuto contro l’Isis, non commuove i capi di stato occidentali.

Questo stomachevole esempio di ipocrisia occidentale è stato più volte segnalato dai portavoce delle forze rivoluzionarie del Rojava, che si sono ben guardate dal sostenere l’attacco occidentale e hanno spesso fatto notare i due pesi e le due misure usati per giudicare le azioni di due tiranni altrettanto sanguinari: Erdogan ed Assad.

La guerra globale sta vivendo in Siria una fase di escalation militare volta a ridefinire ancora una volta gli equilibri di potere tra i diversi stakeholders. Sono anni che le grandi potenze - dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Turchia alla Francia - e le principali corporation traggono interesse dall’instabilità siriana e di tutto il Medio Oriente, per proseguire l’opera di rapina e controllo dell'area. Tra i diversi interventi militari e una diplomazia a geometrie variabili, è innegabile che il conflitto siriano è ormai diventato il paradigma della guerra globale contemporanea, mosaico di azioni militari e a bassa intensità, di resistenze e spostamenti di popolazioni, di saccheggio e devastazione continua di intere città e territori.

Quella di stanotte è una prova di forza tentata da Trump, al pari di quella fatta le scorse settimane con l’imposizione dei dazi su acciaio e alluminio. Un attacco che ha immediatamente degli effetti sui territori colpiti, ma che viene poi gestito ad uso interno per accontentare quella parte di elettorato che vede nella supremazia militare uno dei tratti fondanti dell’America First. Una strategia che è comune con quella di Putin, ex alleato ed ora nemico giurato.

Si è arrivati ad un punto, quindi, in cui non si può negare la necessità di un’iniziativa comune di movimento contro la guerra globale, che sappia contrastare qualsiasi “ragion di Stato”, senza sè e senza ma.

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«Né con Trump, né con Assad. Mobilitiamoci contro la guerra in Siria». Domenica 15 aprile in piazza a Venezia e Vicenza.