Siria e Sinistra

Guerra civile e luoghi comuni

8 / 3 / 2013

Non è possibile dichiararsi ed essere di sinistra e non aver provato una forte e naturale simpatia per la cosiddetta primavera araba, al suo sorgere e nei vari momenti che l'hanno caratterizzata in diversi paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. È innegabile, credo, che guardando le immagini di piazza Tahrir tutti noi l'abbiamo riconosciuta come familiare, come facente parte di una storia comune, pur non comprendendo gli slogan o gli striscioni e con tutte le ovvie ed evidenti peculiarità del caso. Quella piazza raccontava di un disagio sociale che voleva farsi politica, della volontà di trasformare la struttura stessa di una società oppressiva: insomma, di una scalata al cielo, pensata e portata avanti secondo dinamiche che non ci erano ignote, anche se con altre rivendicazioni e parole d'ordine.

La stesso sentimento si è replicato per le agitazioni in Tunisia, in Bahrein, e ovunque la prima fase della primavera araba abbia rianimato piazze e popoli che sembravano narcotizzati da decenni. Gli sviluppi successivi, un po' dappertutto, hanno però cambiato le carte in tavola: non si è più trattato, se non in piccola parte e giusto per un paio di paesi, di rivoluzioni - nel senso almeno che noi diamo alla parola -, bensì di riposizionamenti geostrategici, di fondamentalismi più o meno striscianti, di guerre per procura. Da un certo punto in avanti, come per una maledizione, i sommovimenti in atto hanno obbedito a logiche religiose, tribali, o perfino a interessi dettati dal di fuori.

Un copione simile si è ripetuto anche in Siria, lo stato arabo che più di ogni altro, oggi, incarna la tragica spirale delle primavere arabe. Esso è ormai un paese spaccato tra un regime oppressivo e poliziesco, quello pluridecennale degli Assad, e un'opposizione in armi dominata dalla presenza fondamentalista (che d'altronde giunse a minacciare Assad padre già trent'anni fa, con la rivolta dei Fratelli Musulmani1). A questa prima divisione interna corrisponde il delinearsi di uno schieramento pro-status quo, da un lato, composto da Iran e forze libanesi sciite (ma non solo), con il supporto della Russia, che ha in Siria la propria sola posizione di potenza in Medio Oriente; mentre dall'altro lato i Paesi sunniti e ultraconservatori del Golfo, principali finanziatori e armatori dei ribelli, hanno il sostegno degli Stati Uniti e della Turchia. Questa è, in un certo senso, la linea di scontro che potremmo definire strategica; mentre quella religiosa-di civiltà individua il punto centrale nello scontro fra la laicità di Assad e le volontà integraliste della parte più influente dei suoi nemici. In questo senso, peraltro, si assiste al paradosso per cui la dottrina un po' paranoica e islamofoba alla Huntington (il teorizzatore appunto dello scontro di civiltà), con cui si è risposto a suo tempo all'11 settembre, spinge stavolta in direzione opposta rispetto a quella percorsa dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Ma il parziale divorzio in atto fra posizioni fallaciane e imperialismo a stelle e strisce, che pure è un discorso interessante, non è il tema di questo articolo.

Quello che invece credo sia necessario mettere in luce è la costrittività e la limitatezza di queste categorie. È senz'altro possibile dissentire, da noi e in genere in Occidente, sebbene esista senza dubbio una vulgata dominante che è in questo caso pro-ribelli; ma il problema è che si dissente all'interno di categorie ben precise e soffocanti, dentro le quali non è possibile sviluppare un pensiero anche vagamente differente e progressista. Personalmente non ho intenzione di prendere una parte fra chi, muovendo da appartenenze e sensibilità "di sinistra", esalta la lotta di un popolo contro il dittatore e la volontà di autogovernarsi e auto-organizzarsi, e chi invece ricorda quanto certe forze siano eterodirette e irrimediabilmente oscurantiste (oltre a destabilizzare l'unico Stato arabo che abbia mantenuto nei confronti di Israele una posizione ferma e coerente, capace di tratteggiare una pace diversa da una sottomissione). Da un simile dibattito non possono scaturire risposte valide.

Eppure anche quella siriana era iniziata come la rivendicazione di un diverso modello di società, più libera ma anche più equa, in un Paese che proveniva da un decennio di intensa crescita economica e che si andava inserendo in un contesto moderno, finalmente lontano dall'immutabile austerità dei decenni passati, ma anche da quello che di forzatamente egualitario esisteva nelle società "tradizionali". Forze politiche e istanze di sinistra erano dunque fortemente presenti nella critica mossa al regime quando, nel 2011, si svolsero le prime manifestazioni, di massa e pacifiche.

D'altra parte non è neanche lecito dimenticare che la Siria costruita da Hafiz Assad era fondata non solo su ideali panarabi e pansiriani2, ma anche sulla promozione di forze nuove, fino ad allora oppresse: la scalata al potere degli alauiti, montanari del Nord, non è soltanto un fatto tribale e di fazione, ma è anche una pratica paziente e pluridecennale di reale lotta di classe, dato che questi costituivano il fondo di una piramide sociale dominata in quelle zone dai commercianti e proprietari terrieri sunniti (i quali furono poi all'origine della rivolta di Hama: entro certi limiti, la storia si ripete). E in ogni caso non furono solo gli alauiti, ma anche altri gruppi e ceti umili o infimi, i beneficiari dell'ascensore sociale predisposto da Assad padre; ma, sia chiaro, va anche ricordato al contrario che, nonostante la stretta alleanza con l'Urss, questi non modificò mai in profondità le strutture della società siriana né aderì politicamente a idee o ideologie di sinistra.

Come si vede, è sfaccettata e incoerente anche la parte più strettamente sociale della crisi siriana, e non si individua con facilità una soluzione migliore o “più di sinistra”; tuttavia sono questi, a mio parere, gli aspetti da reintrodurre nel dibattito pubblico, a tutti i livelli possibili (purtroppo non si vedono al momento governi influenti in grado di far proprie queste istanze e di presentarli nel corso di eventuali, auspicabili negoziati). Per due motivi: sia per il bene della Siria e del suo popolo, che non può essere perseguito semplicemente sulla base di contrapposizioni di realpolitik o di fazione, ma che deve invece tener conto della realtà economica e sociale della nazione; e per ricostruire, al posto di una sudditanza ormai imbarazzante, un pensiero politico, anche globale, progressista in modo pieno e indipendente.

Certamente tutti noi vediamo gli attuali rapporti di forza, e non ci sfugge che dipendiamo da schemi mentali altrui per via di eventi storici ben precisi e di una lunga serie di sconfitte; e ci vorrà molto tempo prima che rinasca un qualcosa di autorevole e solido da questa parte della barricata. D'altra parte, prima ci smarchiamo dall'altrui lettura della realtà e prima saremo in grado di pensare e proporre qualcosa di nuovo e di nostro.

1Fra 1979 e 1982 la Siria conobbe un’ondata di atti di terrorismo e attacchi contro il regime, orchestrati dai Fratelli Musulmani e sfociati infine, dopo il fallimento di un tentativo di sollevare le principali città siriane, nella rivolta di Hama, “roccaforte della tradizionale aristocrazia terriera e del puritanesimo sunnita” (Patrick Seale). L’insurrezione fu domata con ferocia e costò migliaia di morti.

2La Siria attuale non è che un brandello di una regione unitaria dal punto di vista storico, culturale, etnico, linguistico, che – pur con confini incerti – comprendeva il Libano e almeno una parte della Giordania e della Palestina, oltre ovviamente ai territori arabi proditoriamente ceduti dalla Francia alla Turchia prima del secondo conflitto mondiale (Antiochia e Alessandretta).