Road to Palestine, day 6 - I fiori del deserto

Stretta nella morsa di Hamas e Israele, a Gaza c’è una generazione che resiste, nonostante tutto e tutti.

25 / 5 / 2022

“Fuck Israel, fuck Hamas. I just wanna be free”. 

Basterebbero queste poche parole per descrivere lo stato d’animo dei giovani palestinesi intrappolati dalla nascita dentro l’inferno di Gaza. A pronunciarle è Rajab, 26 anni, cresciuto in uno dei quartieri più poveri della striscia e rimasto con noi per gran parte della nostra permanenza. Tra i tanti hotel sulla spiaggia ce ne indica uno, ben diverso dai lussuosi complessi attorno frequentati dalle maggiori èlite gazawe e rimessi a nuovo in fretta e furia, grazie ai fondi del Qatar, dopo i bombardamenti dell'operazione "guardiano delle mura" dello scorso anno. Delle grandi vetrate sono rimasti solo alcuni cocci tra le pareti crivellate dai proiettili. Nei mesi scorsi era diventato il riferimento delle giovani coppie di Gaza, un luogo sicuro per amori messi in clandestinità dall’organizzazione islamista che governa e reprime gli abitanti della striscia dal 2007 e che non ha tardato, a suon di Kalashnikov, a ripristinare l’ordine innaturale delle cose.

Il suo riscatto Rajab lo ha trovato in una tavola da skate. Sulle rampe ricoperte da graffiti costruite attraverso i progetti di cooperazione coordinati da un’instancabile Meri Calvelli, ha trasmesso la sua passione a decine di giovani che oggi continuano ad affollare la rampa a pochi passi dal porto, in quell'area della città di Gaza tanto cara a Vittorio "Vik" Arrigoni che nel 2009, suo malgrado, dovette raccontarne la carneficina ad opera dell'aviazione israeliana.

Vittorio Arrigoni

"Qualche notte fa a 20 metri da casa mia, i caccia israeliani hanno tirato giù la stazione dei pompieri. Sulla strada parallela al porto ho scoperto stamane dei crateri profondi diversi metri come se fossero piovuti meteoriti in un film di fantascienza. La differenza è che qui gli effetti speciali fanno parecchio male."

Tante anche le bambine e le ragazze a cui Rajab insegnava le tecniche a lui conosciute, scomparse in breve tempo dallo spazio pubblico che avevano cominciato ad occupare al grido di “Haram, haram!”, il diktat delle forze di Hamas che hanno interrotto l’ultima lezione “mista” -e pertanto proibita- di Rajab, tra le lacrime delle allieve a cui è stato impedito di continuare ad allenarsi assieme al resto dei coetanei.

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Camminando sul lungomare, negli spazi su cui sorgevano piccoli chioschi, bar fatti di palafitte sul mare da cui era possibile godere la vista di un meraviglioso tramonto e negozi che non sono stati risparmiati dalla furia dei bombardamenti, arriviamo finalmente al porto, dove rumori dei bambini senza scarpe e prospettive si mischiano al rombo dei motori dei go kart sui quali sfrecciano i ragazzini più grandi. Il tutto sempre coperto dal ronzio di fondo dei droni militari israeliani, che non ci ha mai dato tregua per tutte le 24 ore che abbiamo trascorso nell'enclave palestinese.

Sulle barche attraccate al molo alcuni equipaggi si preparano all’attività più pericolosa di tutte, quella della pesca. Il blocco navale imposto unilateralmente da Israele a sei miglia dalla costa non accenna a fare sconti e ogni giorno chi parte sa benissimo di correre il rischio di non fare ritorno: “Il nostro equipaggio ha già perso cinque uomini - ci spiega uno dei pescatori -. Non ho paura dei proiettili di Israele, ho paura di non riuscire a dare da mangiare ai miei figli”.

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Non è un caso che la nostra carovana si sia conclusa proprio a Gaza, la più grande e assurda prigione a cielo aperto del mondo che due milioni di persone sono costrette a chiamare casa. 

Gaza è la tappa finale di molte cose, il punto di arrivo della più bieca violenza coloniale perpetrata da Israele, supportata o ignorata dagli stati occidentali. Gaza è il frutto marcio di anni di espulsioni e deportazioni forzate della popolazione palestinese dai loro territori. 

Gaza è il pretesto per continuare a farlo ancora.

Il tasso di suicidio è altissimo, la costante sensazione di sentirsi ed essere in trappola ha fatto precipitare il già precario stato psicologico della popolazione e generato una delle più alte incidenze al mondo di abuso di droghe, il tramadol adulterato da altre droghe, infatti, è diffusissimo tra la popolazione di Gaza.

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La maggior parte di noi entrava a Gaza per la prima volta. Non nascondiamo che lo abbiamo fatto con un certo timore e un grado di allerta costante, sommati alla difficoltà e le lunghissime e invasive procedure di controllo da parte della sicurezza israeliana per poter attraversare gli infernali tornelli del valico di Erez. Procedure che ci sono sembrate finalizzate a rendere la vita difficile a palestinesi e solidali anziché scongiurare una qualsiasi forma di minaccia. 

Una volta entrati a Gaza abbiamo trovato l’opposto di noi stessi, un mondo a testa in giù, il capovolgimento di tutte quelle nostre convinzioni, più o meno inconsce che credono, sperano, che alle barbarie in fondo ci sia un limite. La paura non era più quella di essere a Gaza, ma quella di lasciarla, tornare tra le mura del nostro occidente, senza che nulla cambi.

A distruggere una popolazione non sono solo le bombe che Israele sperimenta su milioni di persone senza via di fuga. Al resto ci pensa la povertà, la precarietà lavorativa, il difficile accesso all’istruzione. Migliaia di bambini lasciati a loro stessi  e migliaia di giovani con gli arti amputati a seguito dei proiettili dei cecchini israeliani durante la Grande Marcia del Ritorno rappresentano una generazione compromessa, l’impossibilità di una comunità di rialzarsi. 

O almeno questo è quello che vogliono. 

Perché Gaza non è solo macerie e miseria.

Perché i gazawi non sono solamente la loro sofferenza. C’è una generazione che spera, che ama, che costruisce ancora oggi. Sono i fiori del deserto che resistono quotidianamente  ai soprusi di Israele e Hamas.

Nonostante tutto e tutti.

C’è Rajab che non si rassegna ai divieti imposti. C’è il giornalismo di Ahmed che racconta al mondo la striscia di Gaza anche quando il mondo si gira dall’altra parte. C’è Meri e il suo Green Hopes che continua a dare speranza a generazioni ritenute spacciate. Ci sono i baci rubati delle giovani coppie tra gli scogli della spiaggia e i locali deserti di una gelateria. C’è Sarah, che tra le rime canta la sua rabbia e quella di un popolo che chiede libertà: un fiore che è germogliato anche grazie al seme che abbiamo piantato nel 2009 con il progetto Gaza is Alive.

E poi ci siamo noi, che torniamo a casa con tante domande e ancora troppe poche risposte, tanta rabbia nel petto e un nodo alla gola che non riesce a sciogliersi; ma torniamo anche con una convinzione che si fa promessa: questo è solo un arrivederci.

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