Retaggio coloniale, narrazione mediatica e nuovi scenari nel continente africano

Intervista a Francesca Sibani, editor di Internazionale per la sezione Africa

14 / 10 / 2022

Nel corso del Festival di Internazionale a Ferrara abbiamo intervistato Francesca Sibani, moderatrice del dibattito “Viva l’indipendenza. La fine dei grandi imperi coloniali e i protagonisti della decolonizzazione attraverso le loro voci e la stampa dell’epoca” tenutosi col giornalista francese Pierre Haski.

Francesca Sibani è editor di Internazionale per la sezione Africa, e ha curato il volume di Internazionale extra “Viva l’indipendenza” che racconta la fine degli imperi coloniali attraverso articoli, immagini e reportage della stampa internazionale dell’epoca.

Marco Disanto: Nel dibattito da lei moderato si è parlato, tra le altre cose, delle difficoltà che hanno avuto e che hanno tuttora le ex potenze coloniali a fare i conti con l’ingombrante passato. Di tutti questi grandi stati coloniali ne abbiamo uno in particolare, l'Italia, che molto spesso ci ha fatto venirr il dubbio se abbia fatto davvero ammenda del suo passato. Mi viene in mente la polemica che anni fa scoppiò nel contesto delle manifestazioni in sostegno a Black Lives Matter e che riguardava nello specifico la statua di Indro Montanelli a Milano, imbrattata proprio per rappresaglia contro il giornalista, che nel tempo ha un rappresentato l’immagine del colonialismo fascista in Africa. Ancora oggi, comunque, l’Italia pare vivere un forte retaggio coloniale.

Secondo la sua opinione il nostro Paese ha già consegnato alla storia questo ingombrante passato oppure sono ancora molte le ferite aperte?

Sicuramente il nostro Paese deve fare i conti con questo passato, non si può dire che sia stato liquidato perché non c'è mai stata una vera e propria presa di coscienza di quelli che sono stati i crimini coloniali commessi dall'Italia in Africa. Per esempio, pensiamo ai campi di internamento in Libiao all'uso dei gas in Etiopia: sono stati dei momenti passati sotto silenzio e che solo adesso, tramite il lavoro di alcuni storici importanti, vengono recuperati.

Ma è necessario che questo messaggio passi anche attraverso le persone in generale. Deve passare nelle scuole perché non possiamo continuare a perpetuare il mito degli “italiani brava gente”, come fossimo stati colonizzatori buoni che hanno fatto solo del bene e si sono fatti ben volere dalle popolazioni locali. Altrimenti non riusciremo mai ad affrontare il razzismo che è ancora insito delle nostre società e che sta riemergendo in maniera anche molto palesequando vediamo persone nere che vengono uccise per strada solo per il colore della loro pelle, come è successo quest’estate.

Alberto Corti: La seconda domanda ha a che fare più con la narrazione mediatica che si fa quando si parla di queste tematiche. Ad esempio, durante il festival ho partecipato all'incontro "I buoni e i cattivi" dove tra gli altri erano presenti la giornalista siriana Wafa Mustafa e il giornalista palestinese Mohammed El-Kurd. Tra i vari temi affrontati appunto abbiamo parlato anche di come dentro la stampa mainstream occidentale spesso vengono travisate le informazioni dei fatti, se non addirittura completamente distorte, usando termini ed espressioni completamente inappropriati.

Vorremmo quindi sapere come la narrazione occidentali continui quotidianamente a perpetuare certe idee razziste che ci riportano ad una superiorità occidentale e di come invece in realtà dovremmo comportarci di fronte a questo.

È evidente: lo abbiamo anche visto con la recente guerra in Ucraina: le persone di colore non vengono trattate allo stesso modo di quelle bianche, anche se si trovano nella stessa situazione. Abbiamo vistodei profughi di serie A, che sono gli ucraini bianchi, e dei profughi di serie B, che erano gli studenti neri che in grosse quantità andavano a studiare in Ucraina visto il buon livello delle università e il loro basso costo. C’era quindi una popolazione importante di studenti di origine africana che poi si sono ritrovati nella necessità di dover scappare dal Paese quando è scoppiata la guerra. In un primo momento sembrava proprio che per loro le porte fossero chiuse, anche se facevano parte dello stesso flusso di persone con le stesse necessità; dunque, è evidente come il colore della pelle e l'apparenza fisica di una persona possa essere motivo per cui ritenere certe persone diciamo più elevate in una possibile gerarchia sociale, oppure poterle trattare da persone senza valore. Perché comunque lasciare dei profughi in balia della guerra vuol dire non attribuire loro un valore come persona, e quindi disumanizzare. Quindi sì, proprio noi vediamo in alcuni momenti di crisi emergere alcune delle grandi contraddizioni della nostra società e del nostro pensiero collettivo, della nostra mentalità, perché in questi momenti vengono a galla certi problemi e a quel punto ti rendi conto di quali sono le criticità.

Marco Disanto: La terza e ultima riguarda la nuova campagna della Cina nei confronti dell'Africa che prevede un’enorme quantità di investimenti soprattutto relativi alle infrastrutture come porti, trasporti su ruote e trasporto aereo, aumentando anche la partnership per quanto concerne accordi energetici o commerciali. Per molte persone questo tipo di approccio è un approccio neocoloniale, in particolare perché, attraverso il sistema del debito, la Cina ha un'influenza immensa sulle scelte politico-economiche di molti Paesi africani. C'è però chi invece giustifica le azioni cinesi come un soft power che in qualche modo potrebbe anche portare dei benefici al continente. Secondo lei, in questo caso siamo dinnanzi a una nuova forma di colonialismo, oppure si tratta solo del “normale” modo di muoversi da parte di una grande potenza in un mondo multipolare?

È una domanda complessa perché chiaramente abbiamo due punti di vista: il punto di vista nostro occidentale che vede sicuramente in questo tentativo della Cina, che è un tentativo che va avanti da decenni, di affermare la propria influenza nel continente inviando anche operai e altri lavoratori qualificati. Spesso i mezzi di informazione internazionali ci parlano di queste grandi quantità di operai, ingegneri cinesi in Africa che contribuiscono alla creazione di queste infrastrutture.

Questa presenza così forte della Cina, oltre ad essere una presenza commerciale, diventa anche una presenza culturale con l’apertura di grandi istituzioni culturali nel continente e con molti studenti africani che vanno a studiare in Cina. Molti imparano il cinese e quindi si sta creando un legame molto stretto dal punto di vista degli africani, un legame che porta certamente alcuni benefici perché per molti sono delle occasioni di sviluppo diverse da quelle offerte dall'Occidente, se vogliamo parlare di Occidente per individuare Stati Uniti ed Europa.

Allo stesso tempo vediamo che tutto questo si iscrive in un grande ritorno di una corsa all'Africa come a fine '800, perché ci sono tante potenzeche adesso stanno cercando di riaffermare il loro ruolo nel continente. Considerando la crisi del gas causata dalla guerra in Ucraina, abbiamo visto i nostri leader andare ad Algeri a negoziare per avere delle forniture di gas oppure puntare sul Mozambico per sviluppare questi progetti per l'estrazione di gas naturale; questo interesse alle risorse ricorda molto quello del passato, ma allo stesso tempo non si possono chiaramente attuare i metodi brutali che furono utilizzati allora.

Si usa perciò una diplomazia più astuta, o anche plateale come quella della Russia che propone questi accordi di collaborazione nel settore della sicurezza con vari governi dalla Repubblica Centrafricana al Mozambico, al Mali, ma che soprattutto offre queste compagnie di sicurezza privata per aiutare certi leader a risolvere i loro problemi interni, con risultati alquanto discutibili. Allo stesso tempo c'è la Turchia che ha un grosso impegno in Africa soprattutto nella parte est, sul Mar Rosso, gli Emirati Arabi Uniti e altre potenze del Golfo Persico.

In generale c'è un interesse rinnovato per l'Africa. Vedremo dove porterà questa nuova corsa all'Africa. Speriamo solo che i leader abbiano la lungimiranza e l'intelligenza di fare quello che è nell'interesse della popolazione e non solo dell'élite al potere o di una certa giunta militare.