Referendum in Catalogna. L’onda lunga della Ragion di Stato in tre scene (Atto II)

4 / 10 / 2017

Se fosse dubbio che la storia si ripresenta sempre come farsa, gli ultimi quindici giorni in Catalogna dovrebbero liberare da qualsiasi incertezza. Non è del resto la prima volta che un potere centrale situato a Madrid dispieghi la forza militare per sedare e silenziare la volontà popolare dei paesi catalani, tanto per iniziare durante la guerra civile spagnola degli anni Trenta che finì con una carneficina dei catalani, colpevoli di essere repubblicani. Un paragone forte, si dirà; e sicuramente, per certi versi, lo è. Non bisogna però pensare all’omologo delle tecniche di guerra, dei suoi crimini e della situazione politica di quasi cento anni fa, ovviamente. Per comprendere bene la ripetizione di una stessa questione basti mettere in analogia come Madrid cerca di (non) risolvere la questione: nascondendo sotto il tappeto il tema dell’indipendenza catalana sperando che nessun granello di polvere riaffiori sul breve periodo. La tendenza generale è quella di nascondere il polverone usando gli strumenti più acuminati e virulenti che il quadro costituzionale e le norme politiche permettono sul momento. Fatta questa breve premessa, possiamo tentare di guardare assieme le scene che hanno dipinto questa Barcellona di fine settembre che a tratti sembra lasciarsi alle spalle l’estate, mentre in altri giorni risplende di un sole estivo. Forse la descrizione delle scene attorno al referendum sull’indipendenza possono aiutarci a comprendere l’attualità spagnola e catalana, il crescendo della tensione e alcuni punti di rottura politico-istituzionale. 

Scena I – Dopo l’operazione poliziesca che ha portato all’arresto delle cariche della Generalitat (adesso rilasciate), a Barcellona e nelle maggiori città catalane la società civile legata all’indipendentismo e le organizzazioni di movimento hanno continuato a tenere alta l’agitazione nei luoghi di lavoro e sui territori per contrastare la morsa dello Stato. Diversi Dipartimenti della UB (Universitat de Barcelona) sono stati occupati o hanno accolto numerose assemblee permanenti, per due giorni le lezioni sono state sospese; a questo ateneo barcellonese si sono aggiunte poi la UPF (Pompeu Fabra) e la UAB (Universitat Autonoma de Barcelona).

A seguito dei momenti di piazza di fronte al Rettorato della UB, il palazzo storico è stato occupato dalle sigle studentesche legate ai partiti indipendentisti, ai sindacati e dai collettivi, il tutto con la complicità del Rettore e con il sostegno della maggior parte dei docenti. Nei quartieri sono fioriti i Comitè de Defensa de Barri nei quali i cittadini si sono incontrati per discutere e condividere le pratiche e le strategie da adottare per respingere l’invasione della polizia e garantire la giornata di voto del 1 ottobre. Il Ministero degli Interni ha infatti deciso di inviare più di 14.000 unità in più di Policia Nacional e Guardia Civil in Catalogna per assicurare il pieno compimento della legge, ovvero l’attuazione esecutiva della decisione del Tribunal Constitucional (la cui maggioranza è stata eletta dallo stesso Partido Popular al governo). Oltre a questo, il governo ha attuato una sorta di commissariamento dei Mossos d’Esquadra integrandoli dentro un coordinamento delle forze poliziesche con a capo De los Cobos, un colonnello della Guardia Civil fratello del giudice che nel 2015 dichiarò illegale il primo tentativo del processo di indipendenza.

Anche da parte dei portuali di Barcellona è arrivato il diniego di accettare impassibili la spedizione delle forze militari statali: i lavoratori hanno deciso di non far attraccare per giorni la nave che ospitava i militari, costretti a rimanere alloggiati nelle cabine per mancanza di spazi idonei sulla terraferma (da qui nasce la presa in giro in rete su Titti – Piolìn – della Warner Bros in quanto la sua faccia, raffigurata sul lato di una nave, è stata poi nascosta da lunghi teli di tessuto). Per la città sono stati organizzati giri di attacchinaggio con il materiale del referendum e la suddivisione dei collegi elettorali da presidiare allo scopo di mantenerli aperti nonostante le ingiunzioni governative.

Nella notte tra venerdì e sabato moltissimi centri civici, scuole, teatri e università sono stati occupati per impedire il sequestro delle urne e la chiusura dei locali da parte dei Mossos e della Guardia Civil. L’occupazione ha raccolto una composizione sociale molto variegata, dagli anziani fino ai giovanissimi, con le posizioni politiche più disparate. Questa strategia si ripete a Barcellona così come nei più piccoli paesini di tutta la Catalogna.

Il giovedì prima del referendum 90.000 persone hanno marciato da Universitat a Espanya per l’appello alla manifestazione accordato dall’assemblea inter-ateneo degli studenti. Tra i cittadini cresce un sentimento di difesa del referendum e del diritto all’autodeterminazione che va ben al di là della scelta tra il SI’ e il NO all’indipendenza.

Scena II – Arriva il fatidico 1 di ottobre. La normalità di una qualsiasi consultazione popolare è già persa dalle prime ore del mattino, se non da giorni. Una buona parte dei collegi è stata occupata e presidiata dai vicini dei quartieri. Fin dalle prime ore della domenica centinaia di persone si sono messe in fila per aspettare il loro turno, mentre chi ha già votato resta nelle vicinanze dei seggi. La Generalitat catalana ha facilitato la votazione permettendo una circoscrizione universale senza distribuzione fondata sulla residenza, un atto necessario a fronte dell’insufficienza tecnico-informatica che è stata causata dall’occupazione della Guardia Civil dei locali del Dipartimento preposto a questo.

Nella notte tra il sabato e la domenica i Mossos passano per i collegi notificando lo stato di occupazione al coordinamento centrale, ma senza prendere provvedimenti. I corpi di polizia nazionale saranno dunque costretti, a metà mattinata, a fare le irruzioni le cui immagini hanno fatto indignare e inorridire l’opinione pubblica di mezzo mondo. Una reazione scomposta alla mobilitazione civica dei catalani, che non si pensava raggiungesse questi livelli? Un colpo di mano dei dirigenti delle varie sezioni antisommossa? Un’operazione orchestrata ad hoc dal Ministero degli Interni per dimostrare muscolarmente la forza dello Stato di fronte alla disobbedienza catalana? Lasciamo ad altri contesti l’analisi politica così minuziosa. Quello che sta di fatto è che soprattutto nei paesi di provincia meno popolosi e non difesi dai comitati, nonché nei collegi simbolicamente appetibili come quello di Puigdemont e di Forcadell, le squadre di polizia nazionale hanno assaltato luoghi pubblici, manganellato votanti di tutte le età, calpestato le persone, protratto vessazioni, picchiato i corpi dei cittadini seduti a braccia conserte in forma di resistenza passiva, demolito il materiale pubblico del referendum. Anche in alcuni collegi di Barcellona si sono verificate violente aggressioni a Sant Antoni e alla Barceloneta. Di particolare gravità è stato l’episodio denunciato da una giovane donna a cui è stato toccato il seno e le sono state spezzate intenzionalmente le dita durante una carica all’Eixample. Inoltre, due persone sono state portate d’urgenza in ospedale per attacco di cuore e per aver ricevuto una pallottola di gomma in un occhio.

La polizia nazionale, oltre all’uso dei manganelli e alle cariche, ha impiegato diverse volte i proiettili di gomma, che in Catalogna sono illegali ma non nel resto della Spagna. Su quei corpi è stato marcato il segno di un potere, incapace di comprendere di star dando prova della sua insufficienza e distanza dalla popolazione, che ha mandato un messaggio forte e chiaro alla cittadinanza europea e non solo: votare non è pratica legittima ma solo legale, la volontà di partecipare ai processi democratici e di decidere sul proprio futuro sono a rischio forza militare.

Immediatamente sono arrivate le prime accuse a Rajoy e alle sue forces d’ocupaciò, alla sua polizia percepita sempre di più come il mandante di un gerarca che vuole l’invasione militare della Catalogna. La sindaca di Barcellona Ada Colau ha chiamato più volte “codardo” il Presidente e ha chiesto pubblicamente le sue dimissioni, comprovate dalla sua scarsa se non assente capacità di gestire politicamente una richiesta popolare; alla sindaca si sono unite le voci di Pablo Iglesias e di tutti i partiti indipendentisti catalani.

Di tutta risposta, il governo per bocca della sua vice Soraya Saenz de Santamaria ha ringraziato le forze dell’ordine per aver agito con professionalità e proporzionalità riportando la legalità e lo Stato di diritto in un territorio che da tempo lo ha posto in deroga. Poco importa il fatto che a fine giornata, in cui si è svolta una votazione che niente ha avuto a che vedere con sedizioni e insurrezione, si sono contati più di ottocento feriti. Le reazione delle altre città spagnole in solidarietà ai barcellonesi duramente colpiti dalla polizia sono state molte, a partire da Madrid in cui è stato organizzato un presidio in Plaza del Sol gremito di persone.

Ciononostante – e sebbene non si possa assolutamente sminuire la gravità dell’accaduto - la maggior parte dei collegi è riuscita a rimanere aperta e a portare a termine il conteggio dei voti. In serata Puigdemont ha annunciato in una Plaça Catalunya agghindata a dovere la vittoria del SI’ con uno schiacciante 89,9%, frutto del voto di quasi due milioni e trecentomila persone (una percentuale intorno al 42,2% degli aventi diritto), aggiungendo che avrebbe portato i risultati al Parlament per procedere con la transizione. Il giorno dopo ha ritrattato la sua dichiarazione dicendo che non cerca una dichiarazione unilaterale di indipendenza, bensì un accordo e una mediazione per ristabilire il dialogo come è consono in politica.

Rajoy ha negato la realtà dicendo che non ha avuto luogo alcun referendum, continuando a scaricare l’intera colpa di quanto accaduto alle istituzioni locali; ha deciso, infine, di prolungare la permanenza dei rinforzi di polizia per altri dieci giorni. Sicuramente, l’incapacità di preservare la sicurezza pubblica ha fatto in modo che l’indipendenza della Catalogna ottenesse una sfumatura in più, cioè che una secessione è imprescindibile per rendere la regione una terra dove siano rispettati i diritti e le libertà condivisi da tutta Europa eccetto che dalla Spagna di Rajoy.

Per il momento, al di là della calendarizzazione di ieri mattina [mercoledì 4 ottobre] di una discussione sull’indipendenza al Parlamento Europeo, la governance si è mantenuta piuttosto silente, lasciando ad un portavoce della Commissione il compito di doversi bilanciare tra “Catalogna come affare interno alla Spagna su cui non abbiamo giurisdizione” a “è categorico non usare la forza”. Immaginiamoci quanto potrebbe essere complicata la situazione dal punto di vista europeo, soprattutto in una fase in cui si sta cercando di rifondare il tessuto della governance, un progetto in cui la Spagna è un paese chiave. Ad ogni modo, sia il Govern di Puigdemont che Colau hanno richiesto l’intervento dell’Unione Europea perché faciliti il rispetto della volontà catalana.

Una posizione eccezionale è ricoperta dal PSOE: il suo leader Sanchez, dopo l’incontro con Rajoy, ha tentato di non compromettere il suo sostegno al governo del PP pur balbettando qualcosa sull’uso della forza. Se è chiaro che la strategia di Podemos è far crollare il governo puntellando i socialisti, è anche vero che il PSOE è riuscito a non dire niente di determinante sull’invasione militare da parte di Madrid e sulle violenze perpetrate domenica. 

Atto III – Il 3 ottobre, giorno dello sciopero generale (vaga generallanciato dai sindacati autonomi Cos e CGT, l’intera regione è stata completamente paralizzata dall’astensione dal lavoro e dalle plurime manifestazioni che dal primo mattino hanno bloccato arterie, chiuso i negozi che non hanno partecipato allo sciopero, fatto presidi sotto le sedi della Guardia Civil e gli alberghi dove sono stati ospiti gli agenti, e hanno letteralmente invaso il centro cittadino. Stiamo parlando di una adesione allo sciopero che in alcun settori ha toccato quasi il 100% e che ha visto scendere in piazza, in tutta la Catalogna, più di un milione di persone. 

Lo sciopero, oltre a denunciare il clima repressivo dello Stato spagnolo, ha anche risposto alle varie aggressioni filo-franchiste dei giorni passati, in cui proprio grazie al sentimento nazionalista trasparito dalle decisioni di Madrid le organizzazioni di estrema destra hanno potuto infiltrarsi tra le fila degli spagnolisti. La risposta è stata una grandissima partecipazione civile, una marea in difesa dei diritti politici e dell’autodeterminazione che ha ribadito con la forza dei numeri e della compattezza la propria determinazione a non piegare la testa.

Nei cortei, a cui hanno partecipato 700.000 persone nella sola Barcellona, l’ordine pubblico è stato perlopiù gestito dai Mossos d’Esquadra e dai corpi della società civile, cioè i pompieri e i sindacati. I pompieri sono stati inoltre protagonisti di un presidio sotto la Guardia Civil e la sede del governo spagnolo in risposta alle cariche che loro stessi hanno subito domenica. Il clima dei cortei è stato carico di rabbia e indignazione per i fatti di domenica, ma non ha segnato alcuna rottura in piazza o ha adoperato pratiche che uscissero dall’impianto previsto dai principali organizzatori della giornata (sindacati e associazioni catalaniste sostenuti dal Govern), eccetto i cortei non autorizzati e i blocchi mattutini. Quando migliaia di persone hanno continuato a manifestare sulla Laietana intimando alla polizia dello Stato di andarsene, i pompieri, i Mossos e le istituzioni hanno fato rientrare i manifestanti nei luoghi del concentramento con il timore che potessero darsi incidenti.

In serata il re Felipe VI ha pronunciato un discorso ufficiale, il primo fuori da quello classico di Natale da quando ereditò il trono nel 2014. I toni usati dal monarca sono stati cupi e fermi, hanno evocato la categoricità dello Stato, la restaurazione della legge e della Costituzione, l’impegno di ogni istituzione affinché sia ristabilita la normalità giuridica. A molte orecchie potrebbe sembrare una prima apertura all’uso dell’articolo 155 della Costituzione che permette ad un governo di stabilire uno stato d’eccezione revocante l’autonomia regionale, dunque di fatto commissariarla.

Ieri mattina l’offensiva del potere giudiziario si è abbattuta nuovamente sugli organi esecutivi della Catalogna: Trapero, il comandante dei Mossos, viene citato a giudizio per sedizione a causa della sua supposta inadempienza durante i presidi sotto la Conselleria del 20 settembre, giorno in cui furono arrestati le alte cariche della Generalitat. L’apertura dell’indagine, che coinvolge anche la sua vice e i due responsabili delle associazioni catalaniste Omnium e ANC, potrebbe essere la prima di una lunga inchiesta sui Mossos da parte dello Stato che implicherebbe anche le inefficienze di domenica per quanto riguarda gli sgomberi dei collegi.

La coesione dei poteri dello Stato nell’attacco al territorio catalano, per il momento, ha portato in una posizione di estrema legittimità il Govern catalano, il quale in questo momento incita – in un quadro di compatibilità – alla mobilitazione civile per dimostrare quantitativamente la propria prestanza numerica. Al di là di domenica, il conflitto continua ad essere istituzionale, una battaglia a colpi di legalità e di sistemi giuridici, di voti e di appelli alla Costituzione. Ciò che sicuramente ha sorpreso è stato quanto il tema dell’indipendenza viva nello spirito dei cittadini catalani e quanto sia stato un detonatore per la mobilitazione, condensatasi nei due momenti di massa di giovedì scorso e di martedì. La composizione sociale è molto variegata e eterogenea, e sembra reggersi su di un’unità fittizia. Per quanto non ci sia niente da contestare a chi scende in piazza per i diritti fondamentali e per l’autodeterminazione, restano tuttavia molti nodi irrisolti: che tipo di Repubblica si vuole creare? Qual è il progetto che sta dietro alla formazione di un nuovo Stato catalano? Quali processi di liberazione materiale si danno con l’emancipazione dalla Spagna? Chi ne potrà godere? Delle domande che, a me pare, restano irrisolte. Rimandiamo la risposta ad un altro momento, vedendo quali saranno le prossime mosse degli attori in campo e se il conflitto raggiungerà dei livelli di radicalizzazione e di rottura.