Privati delle terre? È il capitalismo, signori!

Intervista a Stefano Liberti, giornalista del “Il Manifesto” appena rientrato da Assawi in Etiopia, dove ha potuto verificare le terre coltivabili vengano svendute.

10 / 6 / 2010

Che le scelte dei governi siano a dire poco condizionate da chi controlla i grandi capitali, dalle banche e dalle multinazionali, non lo scopriamo certo oggi. Se questo vale per l’Occidente, figuriamoci nei paesi in via di sviluppo cosa può accadere. Se parliamo poi dell’Etiopia, non è difficile immaginare chi c’è davvero dietro le grandi decisioni che vengono prese all’insegna del libero mercato e dello sviluppo.

I paesi del Golfo Persico, l’Arabia Saudita, la Libia, e poi diverse multinazionali, hanno cominciato ad acquisire o in qualche caso affittare, appezzamenti molto consistente di terreno, fertile, da altri paesi.

Questo fenomeno sta prendendo sempre più piede, con conseguenze che possiamo facilmente immaginare.

Stefano Liberti, giornalista de “Il Manifesto” è appena rientrato da Assawi in Etiopia, dove ha potuto approfondire in prima persona come, le terre coltivabili del Paese, vengono svendute. Regalate. A chi è facile dirlo.

Abbiamo approfittato quindi per farci raccontare cosa ha potuto appurare nel suo viaggio.

“Tutto è cominciato tra il 2007 e il 2008, quando c’è stato un forte aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, che ha portato a diverse rivolte, in luoghi diversi del mondo. E quindi diversi paesi hanno pensato, non potendo produrre questi beni, di farlo in altri paesi investendo quindi in appezzamenti di terra”. Con un minimo di sei Euro, a un massimo di venticinque, si compra un ettaro di terra coltivabile. Con l’opportunità di potere disporre di numerosa mano d’opera, e a buon mercato. Parliamo di persone pagate al massimo sessanta centesimi al giorno. Quello che per noi è vergognoso e inqualificabile, è invece lo slogan della campagna cessioni, del Governo locale. Che addirittura non solo rivendica questo tipo di politica, ma la pubblicizza dal proprio sito, cercando di attirare sempre più compratori. Elemento da non sottovalutare è che tutte le terre di quel paese sono di proprietà del Governo.

“Ed è per questo – puntualizza Liberti - che lì accade più facilmente che in altri luoghi. Vengono agevolati questi tipi di investimenti da parte di un Paese che è ricco di terre fertili e di acqua. I profitti sono a questo punto garantiti. Ma non per gli etiopi, evidentemente”.

È facile dire che è immorale e irresponsabile. Ma è semplicemente il capitalismo. Troppo comodo dire che questo ne è solo un aspetto collaterale. E questo sistema fa sì che poi ciò che viene prodotto venga venduto ovunque fuorché dove viene coltivato e lavorato. Dire che le genti del posto non godranno, letteralmente, dei frutti di questo tipo di politica, è un’amara constatazione.

Ascoltando le parole di Liberti viene naturale una riflessione. Nell’immaginario collettivo che in tutti i modi ci è stato imposto, il termometro dell’economia mondiale è dato da Wall Street e dalle altre grandi borse internazionali. Invece bisognerebbe prestare attenzione a quanto accade a Chicago, dove ogni giorno si decidono i prezzi delle materie prime. Dove senza scrupolo alcuno, vengono quotati frumento e cacao, caffè, tuberi e tutto ciò che è di necessità primaria. Per le persone. Per tutti.

A fari spenti c’è non solo chi specula, ma chi si impadronisce di questi beni primari.

“Ho avuto modo di vedere - racconta Liberti - di persona quello accade. Da dentro. Incontrando diversi operatori che lavorano in quella borsa e vendono o investono la soia, il mais, il grano.. Loro dicono apertamente che il genere alimentare è diventato un bene rifugio per i fondi di investimento, perché sono visti come un investimento sicuro, visto che la gente ha bisogno di questi beni. È soggetto più o meno alla speculazione a seconda del tipo di prodotto. Ed è per questo che mantengono comunque un valore alto”.

intervista a Liberti