tratto da: Fortresseurope.blogspot.com

Piazza Tahrir. La rivoluzione, atto secondo

26 / 11 / 2011

Oggi è il 25 novembre 2011. Sono passati esattamente dieci mesi, da quel 25 gennaio che segnò l'inizio della rivoluzione egiziana. Una rivoluzione incompiuta. Almeno a giudicare dal numero di persone che oggi sono scese di nuovo a protestare in piazza Tahrir chiedendo le dimissioni dei generali dopo i 41 morti nelle manifestazioni dei giorni scorsi. Tutto questo all'indomani della nomina di un vecchio ministro di Mubarak , Ganzouri, a capo del governo transitorio. Ma soprattutto a tre giorni dalle prime elezioni libere del paese. Insomma di tempo per cambiare le cose non ne rimane molto. E forse è per questo che il comitato promotore ha chiamato quello di oggi Gum3a al fursa al a5ira. Ovvero “il venerdì dell'ultima occasione”. Ad ogni modo, Fortress Europe oggi era in piazza Tahrir. Perché è anche e soprattutto da qui che si capisce che svolta prenderà il Mediterraneo e la sua gioventù. E questo è il mio racconto, che sono ben felice di regalare alla rete. Buona lettura. Il naso non brucia più. La pioggia leggera di ieri pomeriggio ha tolto dalle strade le ultime tracce dell'odore acre dei gas lacrimogeni. Il resto l'hanno fatto le centinaia di migliaia di persone confluite nel luogo simbolo della rivoluzione egiziana: maidan Tahrir, piazza della liberazione. Uomini, donne e bambini. Giovani e vecchi. Uno spaccato dell'intera società. Ci sono i ragazzi dei quartieri popolari e i figli della borghesia radical chic. Il movimento 6 aprile, i comitati del No Military Trials e i rappresentati di molti partiti. Dai laici ai salafiti. Insieme, ancora una volta, nell'ultima occasione utile prima delle elezioni del parlamento previste per lunedì 28 novembre. Per dire una sola cosa: che la rivoluzione non finisce con una consultazione elettorale. Ash-sha3ab yurid is9aT al mushir. Il popolo vuole la caduta del generale, Mohamed Huseyn Tantawi, il capo delle forze armate a cui è affidata la transizione fino alle prossime elezioni presidenziali, annunciate per il giugno del 2012. “L'esercito deve tornare alle sue funzioni e lasciare a noi civili la politica”. Samah non ha dubbi su questo. Al punto che da quattro giorni non si presenta al lavoro per presidiare piazza Tahrir. È venuto al Cairo apposta da Port Said, 200 km di distanza, dove lavora come ingegnere chimico con l'italiana “Costruzioni meccaniche Bernardini”. Dieci mesi fa, il 25 gennaio, quando tutto ebbe inizio, Samah era in piazza contro il regime. E come lui tutti i ragazzi che oggi sono tornati a Tahrir. Con la differenza che allora cantavano “il popolo e l'esercito sono una sola mano” e portavano fiori ai soldati in piazza dipingendoli come i salvatori del popolo egiziano e i difensori della democrazia. Una fiducia forse ingenua. Che è inevitabilmente venuta meno dopo il massacro dei copti a Maspero lo scorso 9 ottobre e dopo i 41 morti dei giorni scorsi a Tahrir. I segni della battaglia dei giorni scorsi sono ancora evidenti. Le strade che da piazza Tahrir portano al ministero dell'Interno sono sbarrate con il filo spinato e presidiate dall'esercito. In particolare via Mohammad Mahmud, teatro degli scontri più violenti, che è addirittura chiusa da un muro di blocchi di pietra. Tutto intorno, macchie nere di bruciato sull'asfalto, vetrine in frantumi, e marciapiedi scassati per fare le sassaiole. Tutto è iniziato sabato scorso con lo sgombero di un presidio dei familiari dei martiri e dei feriti della rivoluzione, che era stato indetto dopo la grande manifestazione di venerdì contro i militari. Il resto è stata una incontrollata escalation di violenza. Per quattro giorni la polizia ha sparato ininterrottamente gas lacrimogeni sui manifestanti. E in più di una occasione ha utilizzato armi da fuoco, sparando proiettili di gomma, ma anche proiettili veri e cartucce da caccia con pallini di piombo.

Fino a mercoledì sera, piazza Tahrir era un grande ospedale da campo. Di cui oggi rimangono soltanto gli striscioni del sindacato dei medici e le lunghe file di volontari in attesa davanti alle ambulanze per donare il sangue. I medici hanno avuto un ruolo fondamentale per prestare i primi soccorsi ai manifestanti intossicati dai gas lacrimogeni, feriti dalle armi da fuoco, o picchiati dagli agenti di polizia. Al punto che anche uno dei medici è morto asfissiato per effetto dei gas lacrimogeni sparati su piazza Tahrir mercoledì scorso. Si tratta di una dottoressa, Rania Fouad. Il suo nome si aggiunge alla lista redatta dallo stesso ministero della Salute che parla ufficialmente di 41 ragazzi uccisi a Tahrir da sabato. Mentre il numero dei feriti sarebbe di diverse centinaia.

Molti dei feriti, oggi erano di nuovo in piazza. Si riconoscevano dalle bende sugli occhi. Sì perché a un certo punto i tiratori della polizia hanno iniziato a prendere di mira gli occhi. E decine di persone sono state ricoverate ferite negli occhi dai pallini di piombo delle cartucce da caccia. Compreso Ahmed Harara, il dentista divenuto famoso per aver perso un occhio il 28 gennaio durante gli scontri delle prime ore della rivoluzione. Dieci mesi dopo, in via Mohammed Mahmud ha perso anche l'altro, colpito in faccia da un colpo esploso dalle file della polizia. Con lui sono stati colpiti anche altri attivisti, come Malek Mostafa e giornalisti, come il videomaker Ahmed Abdel Fattah del quotidiano Al Masry Al Youm. Ma anche tanti ragazzi comuni. Giovani come Mahieddine Abdel Hamid, 27 anni, aiuto bottega in una sartoria di Imbaba, un quartiere popolare del Cairo. Lui in piazza c'era venuto sin dal venerdì, durante la manifestazione indetta dai fratelli musulmani. Ed era rimasto a dormire, quando il sabato hanno cominciato a piovere i lacrimogeni sulla piazza. E si è fatto coinvolgere nella rabbia della folla esplosa contro le forze armate per difendere la piazza.

L'hanno colpito all'occhio destro. È stato operato, il dottore dice che non perderà la vista. È stato fortunato. Ad altri invece è andata peggio. Al punto che qualcuno ha deciso di cambiare il nome della via degli scontri. Da “via Mohammad Mahmud” a “via degli occhi”. Shar3a al 3uyun. È scritto a caratteri cubitali su uno striscione appeso all'ingresso della strada, presidiata da un cordone di civili che evita a chiunque di avvicinarsi al muro che chiude la strada in direzione del ministero dell'Interno.

Sono stati quei morti la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Insieme alle decine di arresti di attivisti, giornalisti, e cittadini comuni. Trattenuti e in alcuni casi arrestati, senza processo. Altre volte rilasciati dopo poche ore, come è accaduto a molti giornalisti egiziani, ma fatti oggetto di maltrattamenti e abusi, anche sessuali, come denunciato dalla giornalista egiziana Mona Althaway.

Il generale Tantawi ha promesso un 'inchiesta su tutti questi fatti. Ma molti non hanno più fiducia. Dopo aver visto come è andata con il massacro di Maspero, finito con 24 copti ammazzati in piazza e con l'arresto del blogger Alaa Abd el Fattah, che aveva denunciato le responsabilità dell'esercito nella strage. Era il 9 ottobre. Da allora è passato un mese e mezzo, Alaa è ancora in carcere. E tra pochi giorni la moglie partorirà il loro primo figlio senza di lui.

Non è un buon segno per questo Egitto. A maggior ragione se vi si aggiunge il fatto che oggi piazza Tahrir rappresenta soltanto una parte dell'opinione pubblica egiziana. Infatti nelle stesse ore che dal maidan si levavano gli slogan contro Tantawi, a un paio di chilometri di distanza scendevano in strada i sostenitori dell'esercito. Piazza 3Abbasiyah. Circa 5.000 persone, riunite per dare sostegno all'esercito e alla polizia. Una folla particolare, fatta di poliziotti, come Dina e Mahmud, che hanno tenuto a mostrarmi le loro tessere. E di ex militari in pensione. Come il signor Ramadan, convinto che dietro a Tahrir ci sia un grande complotto internazionale. Ovvero che gli Usa e Israele vogliano destabilizzare l'Egitto per indebolirlo alla vigilia delle elezioni.

Eppure con i poliziotti e i militari c'erano anche molte persone comuni. Giovani come Mohammad, 23 anni, ex studente dei salesiani del Don Bosco, al Cairo, e pizzaiolo di professione in via Tiburtina a Roma. Oppure 3Atif, titolare di una ditta di import export con la Cina. Giovani o meno giovani, sono l'espressione di un qualunquismo (strumentalizzato ad arte) che teme l'anarchia senza i generali e che dipinge i martiri di Tahrir come la feccia dei quartieri popolari che si è cercata la morte attaccando la sede del Da5iliya, il ministero dell'Interno. Il tutto con l'aiuto di infiltrati ebrei e americani. Come sostiene il signor Farukh, che cita come prova l'arresto dei tre studenti americani della American University del Cairo arrestati mentre lanciavano delle molotov contro la polizia egiziana.

La cosa paradossale è che piazza 3Abbasiyah e piazza Tahrir hanno molto in comune. Le stesse bandiere egiziane, con su scritto “I love Egypt”. Le stesse canzoni patriottiche di Abdel Helim Hafez. E persino un passato comune. Sì perché buona parte dei manifestanti di piazza 3Abbasiyah hanno partecipato alle manifestazioni di piazza della rivoluzione del 25 gennaio. Ma adesso hanno invertito la rotta. E all'incertezza che deriverebbe dalle dimissioni della giunta militare preferiscono la stabilità. Anche perché le elezioni sono ormai alle porte.

La sfida elettorale, per semplificare, si gioca tra quattro grandi aree politiche: gli islamisti moderati, i salafiti, la sinistra e i liberali. I favoriti sono i Fratelli Musulmani, riuniti sotto il Partito della Giustizia e della Libertà (Hizb al Hurriya wa al 3Adala), che a sua volta si presenta con una lista allargata ad altri partiti, chiamata “Alleanza Democratica”. Anche se rischiano di aver perso parte del loro consenso con i tentennamenti mostrati negli ultimi giorni con gli appelli ai manifestanti a tornare a casa e con il mancato sostegno alla grande manifestazione di oggi. Voti che potrebbero andare, ad esempio, al partito dei salafiti, Hizb an Nur (il partito della Luce), che si presenta invece nella lista della “Alleanza Islamica”. A godere di ampio consenso però sono anche altre due liste in ballo. Quella dei liberali, confluiti nella lista “Blocco Egiziano” (Al Kutla), insieme al neonato Partito degli Egiziani Liberi, del miliardario copto Naghib Essawiris (proprietario, in Italia, della Wind). E quella delle storiche forze della sinistra, riunite sotto la lista de “La rivoluzione continua”, insieme a una sezione giovanile dei Fratelli Musulmani, fuoriusciti dal partito.

Le incognite sul risultato elettorale sono moltissime. A partire dall'alto tasso di analfabetismo che potrebbe complicare le operazioni, anche perché ogni elettore deve riempire due schede elettorali, una per i rappresentanti degli operai e dei contadini, l'altra per i rappresentanti dei professionisti. Forse è per ovviare a questo problema che i simboli assegnati alle liste rappresentano oggetti domestici tanto imbarazzanti quanto facilmente riconoscibili e memorizzabili: dal frullatore alla banana, dal mango allo spazzolino da denti, dal pallone alla tazzina del caffè e altro ancora.

Ad ogni modo, i seggi apriranno lunedì 28 novembre al Cairo e Alexandria. Poi sarà la volta delle altre città. Tre turni per la prima camera del parlamento (Maglis Sha3biya) e altri tre turni per la seconda (Maglis Shur3a). Divisi in base alle regioni. E poi altrettanti ballottaggi, una settimana dopo ogni turno nelle rispettive circoscrizioni. Insomma, una lunghissima operazione che si concluderà soltanto a marzo. Ma che di fatto misurerà il peso reale delle forze in campo. E che soprattutto svelerà una volta per tutte le reali ambizioni dei generali, quando davvero si tratterà, per la prima volta nella storia egiziana, di cedere il potere ai civili.

Links Utili: