Perù - Divisione, rassegnazione e perdita di identità

11 / 6 / 2020

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Francesco Lazzari, Corpo Civile di Pace FOCSIV presso l’Instituto Natura di Chimbote, Perù, sulle implicazioni sociali ed ambientali del modello economico neoliberista che promuove le pratiche estrattiviste nel paese andino.

Una spiaggia dorata infinita, lontana dal traffico e dallo smog della Panamericana, circondata da un paesaggio meraviglioso costellato di promontori desertici affacciati sull’oceano Pacifico, che a sua volta bagna il piccolo paese di Cabo Blanco.

Questa zona, situata sulla costa settentrionale del Perù, è riconosciuta come una delle più ricche al mondo in biodiversità marina e, proprio in prossimità di Cabo Blanco, nel 1952, fu pescato un esemplare di merlin negro di ben 453 kg. Quattro anni più tardi, nel 1956, questo fatto attirò sulle coste peruviane Ernest Hemingway, il quale trascorse a Cabo Blanco alcune settimane a caccia del leggendario merlin. Durante le battute di pesca Hemingway e i suoi collaboratori eseguirono alcune riprese, che vennero utilizzate nel famoso film El Viejo y el Mar del 1958, basato sull’omonimo romanzo dello scrittore.

I pescatori e gli abitanti di Cabo Blanco sono tuttora orgogliosi di aver condiviso con il mondo intero, attraverso il racconto e la testimonianza di un premio Nobel per la letteratura, la loro identità di pescatori artigianali e la bellezza del proprio mare. In questo territorio la pesca artigianale rappresenta, infatti, l’identità culturale delle comunità costiere che, utilizzando metodi tradizionali prevalentemente manuali e su piccola scala, hanno garantito per diversi secoli sicurezza alimentare ed economica alla popolazione locale.

Questi luoghi meravigliosi, con il loro invidiabile patrimonio naturalistico, storico e paesaggistico, avrebbero tutte le carte in regola per rappresentare una delle mete turistiche più riconosciute e rinomate della costa peruviana. Purtroppo, non è così: l’immensa ricchezza del mare e del sottosuolo rispettivamente in pesca e petrolio, a causa dello sviluppo di un modello economico liberale basato sull’estrazione e sull’esportazione di materie prime, ha portato con sé conseguenze estremamente negative sull’ambiente e sul tessuto sociale del territorio. 

A partire dagli anni 60’ la pesca artigianale ha iniziato a soffrire, soffocata dalla crescita esponenziale del settore della pesca industriale dedito alla produzione di farina di pesce (harina de pescado), prodotto la cui esportazione garantisce introiti milionari alle imprese e allo Stato peruviano.

Attraverso attività di lobbying e pratiche di corruzione, il settore della pesca industriale e gli enormi interessi economici che rappresenta, spingono lo Stato peruviano a consentire lo sfruttamento intensivo delle risorse marine, senza regole, criteri, controlli e soprattutto senza il dovuto rispetto per l’ambiente. 

La depredazione della fauna marina e l’inquinamento causato dal processo produttivo mettono a rischio il lavoro, l’autonomia e la sicurezza alimentare di migliaia di persone che vivono, sia direttamente che indirettamente, di pesca artigianale. 

L’industria della pesca causa danni irreparabili anche al settore turistico. A Cabo Blanco, per favorire una mobilità più agevole per le imbarcazioni e uno sbarco più rapido della materia prima, è stato costruito un enorme molo in cemento armato, che ha tagliato in due la spiaggia per sempre. Quest’orribile costruzione insieme ad una serie di imponenti edifici, in cui si installeranno gli uffici tecnici delle imprese, coprono la vista del mare per qualche centinaio di metri, danneggiando il paesaggio e rendendo il centro del paese buio, spento, triste. 

L’attività che crea maggiori problemi è però, senza alcun dubbio, l’estrazione petrolifera. L’estrazione di petrolio nel nord del Perù, sia sulla costa che offshore, iniziò alla fine del XIX secolo, sviluppandosi costantemente fino al giorno d’oggi. Estese aree di terra e di oceano sono diventate proprietà di imprese multinazionali attraverso la concessione di licenze di sfruttamento delle risorse del sottosuolo. Come conseguenza, le attività, i progetti e le strategie delle imprese hanno danneggiato e continuano a danneggiare l’ambiente, la cultura e il tessuto sociale delle comunità costiere. 

A Cabo Blanco, sulla terraferma, i pozzi petroliferi sono sparsi ovunque, mentre in mare sono posizionati a poche centinaia di metri dalla costa. Queste interminabili distese di giganti galleggianti deturpano irreparabilmente il paesaggio, compromettendo il potenziale turistico della zona. 

È facile immaginare, invece, quali siano le conseguenze ambientali delle attività petrolifere: innumerevoli casi di fuoriuscite di crudo causano danni irreversibili all’ecosistema marino e, di conseguenza, alla pesca e alla salute umana. Le numerose denunce dei pescatori, spesso i primi testimoni delle fuoriuscite di petrolio, cadono nel nulla o, se il danno viene accertato, si traducono in multe irrilevanti per le imprese. 

Le negligenze delle imprese e dello Stato nella prevenzione, controllo e compensazione di questi disastri sono sotto gli occhi di tutti. 

Questo contesto, al contrario di quanto si possa immaginare, non provoca una reazione unitaria di contestazione e di rifiuto da parte della società civile. Questo succede perché le imprese petrolifere mettono in atto strategie volte a dividere, indebolire e confondere le organizzazioni sociali presenti nel loro territorio d’influenza. 

Queste strategie si sviluppano su diversi piani, in primis attraverso progetti di “responsabilità sociale”, che offrono alle comunità servizi e infrastrutture. Questa forma di greenwashing cerca di sviluppare, manipolare e plasmare nei cittadini l’idea di un’impresa all’avanguardia, trasparente e responsabile, riuscendo a convincere e a portare dalla propria parte buona parte della popolazione.

Una seconda linea strategica, più subdola e indiretta, cerca di disorientare i settori chiave della pesca e del turismo. I dirigenti dei sindacati, dei frente de defensa, delle organizzazioni di pesca artigianale e di altre associazioni locali subiscono pressioni, minacce e ricatti volti a destabilizzare ed indebolire la loro leadership, impedendo loro di portare avanti battaglie efficaci contro l’estrazione di petrolio. In alternativa, i leader sociali ricevono allettanti offerte economiche in cambio del loro “silenzio assenso” nei confronti delle attività petrolifere e di tutto ciò che comportano.  

Infine, non può mancare il coinvolgimento delle istituzioni e delle autorità pubbliche: attraverso pratiche di corruzione le imprese guidano la gestione delle risorse economiche locali (che in buona parte derivano dalle tasse che le stesse imprese versano allo stato), assicurandosi che non interferisca o meglio favorisca i loro affari.  

Queste strategie hanno causato profonde spaccature all’interno della società civile, che in questo momento risulta essere rassegnata e conflittuale: gli interessi personali delle autorità pubbliche e di alcuni rappresentanti delle organizzazioni sociali non coincidono con il bene della collettività; la paura per la propria sicurezza vince sulla voglia di lottare per i propri diritti; la sensazione di impotenza di fronte allo strapotere economico di colossi multinazionali prevale sulla necessità di preservare la propria identità culturale e il proprio territorio; un effimero ma sicuro beneficio materiale viene preferito alla ricerca di sostenibilità e di benessere nel lungo periodo. 

L’individualismo, che storicamente non fa parte dell’identità di queste comunità, è diventato un atteggiamento molto diffuso, rendendo la società civile estremamente vulnerabile. Inoltre, la mancanza di un obiettivo e di una visione comune da parte delle organizzazioni sociali causa a sua volta disorganizzazione, insicurezza, invisibilità e perdita di potere contrattuale.  

La presenza e l’azione delle imprese hanno inibito la propensione naturale alla lotta sociale di moltissime persone. Nonostante ciò, (r)esistono ancora alcuni attori che continuano a restare in prima linea, protagonisti di rivendicazioni e battaglie contro le potenti imprese petrolifere, testimoniando e denunciando danni ambientali, scorrettezze e malefatte. La maggioranza di queste persone sono pescatori che vivono quotidianamente sulla loro pelle il deleterio impatto ambientale, sociale ed economico delle attività estrattive e sono gli unici attori che si frappongono fra le imprese ed il loro operare indisturbato. 

Le parole e le testimonianze dei protagonisti mettono in evidenza la criticità e la complessità della situazione.

Dai loro racconti si evince un sentimento di impotenza e di frustrazione nel vedere una società civile così divisa, disinteressata ed inerme, oppressa da una moltitudine di interessi economici e personali e da una pessima gestione politica. 

Questo contesto dimostra che il modello economico neoliberista basato sull’estrattivismo, promosso dallo Stato peruviano in gran parte del Paese, non può coincidere con la preservazione del patrimonio naturalistico e con la conservazione dell’identità culturale delle comunità locali. Decenni di coesistenza forzata fra attività artigianali di sussistenza e interessi economici basati sullo sfruttamento del territorio hanno portato le prime a soccombere inesorabilmente. 

Nonostante tutto, la resilienza di alcune persone insieme ad una lenta ma costante crescita della coscienza ambientale e civile della popolazione locale rappresentano un barlume di speranza di cambiamento che non si spegnerà facilmente e che, anche a distanza, è doveroso alimentare.