Per una gilet-jaunizzazione del movimento sociale

La traduzione di un documento d’analisi pubblicato in francese su acta.zone

31 / 1 / 2020

Anna Viero ha tradotto per Globalproject.info un interessante documento d’analisi pubblicato in francese su acta.zone, che prova a trarre un primo bilancio sul più grande sciopero che l’Europa “occidentale” abbia conosciuto dal secondo Dopoguerra.

Dal 5 dicembre il movimento sociale contro la riforma delle pensioni mobilita numerosi settori professionali, portando con sé la speranza di poter mettere un freno alla terribile macchina neoliberale. Questo movimento di massa ha permesso un primo incontro tra il mondo sindacale e quello dei gilets jaunes; incontro che è stato sì fonte di contraddizioni, ma che è allo stesso tempo di buon auspicio per le lotte future.

Il sogno di uno sciopero generale in grado di intensificare le perdite dei capitalisti e di mettere in ginocchio il blocco al potere sta sfumando, proprio mentre lo sciopero totale della SNFC e della RATP, prorogato ormai da un mese e mezzo, è in declino. Gli scioperanti dichiarano con amarezza, e noi con loro, l’assenza della maggioranza dei settori professionali. È per questo necessario analizzare la situazione in maniera pragmatica e trarre un primo bilancio per portare alla luce gli effetti positivi di questo sciopero.

Si sono instaurati numerosi legami all’interno dei settori in lotta, tra i diversi settori e anche con i gilets jaunes, specialmente durante i blocchi ai depositi degli autobus e grazie all’opposizione congiunta contro le intrusioni e le aggressioni della polizia nel corteo di testa. Sicuramente non sono ancora abbastanza. Una base dei gilets jaunes era effettivamente presente in testa alle manifestazioni intersindacali di martedì e giovedì (14 e 16 gennaio ndr), ma non se ne contavano più di qualche centinaio, in confronto alle decina di migliaia intervenute ai vari Atti che hanno scombussolato il Paese l’anno scorso. Dall’altra parte, abbiamo osservato, sotto la spinta di un triplice invito intersindacale, anche una timida unione dei sindacati durante i sabati di mobilitazione dei gilets jaunes, ogni volta teatro di una dispersione e di una conflittualità ritrovate.

Nonostante sia lecito gioire di questi legami, è necessario pensare a delle proposte strategiche per quanto riguarda il loro futuro. Arrivati a questo punto del movimento, la sfida è quella di radicare la lotta contro la riforma delle pensioni nel lungo termine. I gilets jaunes hanno dimostrato che l’unico modo per vincere un conflitto è scontrarsi con l’insieme della riproduzione sociale e attaccare allo stesso tempo anche la natura politica del regime.   

LEGAMI E PRATICHE

Per fare un’analisi concreta bisogna partire dalla realtà odierna delle azioni politiche: una serie di pratiche politiche e conflittuali che si oppongono alla mediazione riformista.

Blocchi

In tutti i movimenti, i blocchi rappresentano il luogo dove si incontrano le personalità più determinate, quelle che desiderano agire, in maniera rapida ed efficace.

Dal 2016, i blocchi e le occupazioni hanno costellato le mobilitazioni e hanno spesso permesso di intensificarne la conflittualità. Ma non si può affermare un collegamento diretto tra la natura e la funzione del blocco di una rotonda ad esempio, e quelle del blocco di un deposito del bus. Per questo è necessario comprendere le caratteristiche politiche e organizzative di ogni forma di lotta.

Le occupazioni delle rotonde effettuate dai gilets jaunes nel 2018 e nel 2019 non avevano come solo obiettivo quello di bloccare il flusso - al contrario delle numerose invasioni dei centri commerciali, che rappresentano una feroce opposizione al consumismo -, ma anche di creare degli spazi di incontro e di discussione. Insomma di riappropriarsi di un luogo di passaggio e di atomismo sociale per farlo diventare un luogo politico.

D’altro canto, l’occupazione e il blocco dei depositi dei bus, delle piattaforme logistiche - in particolare dell’energia - e delle raffinerie che hanno caratterizzato queste ultime settimane, sono stati riuniti tramite un sindacalismo di azione diretta. Sindacalismo che, concentrandoci solo sulla questione antagonista per eccellenza - il lavoro -, avevamo quasi messo in disparte a causa del riformismo pantofolaio e del sacrosanto “dialogo sociale” promosso dalle centrali sindacali.

Nell’Île-de-France queste iniziative avevano un duplice obiettivo. Da un lato quello di mettere in luce le ripercussioni reali dello sciopero attraverso i blocchi o il ritardo dei mezzi di trasporto. Dall’altro, ogni mattina centinaia di persone, in ogni angolo della regione, si sono ritrovate alle 4.30 per sostenere gli scioperanti e stringere delle alleanze basate su pratiche politiche comuni: un fatto che può ricordare la socializzazione generatasi l’anno scorso in occasione dell’occupazione delle rotonde.

Non è di certo da sottovalutare il fatto che delle persone esterne a un’azienda rispondano a un appello alla solidarietà contro la repressione amministrativa dei datori di lavoro; o che prendano l’iniziativa di bloccare dei punti strategici per il funzionamento della società.

Eppure, bisogna ammettere che il relativo ritorno alle pratiche offensive del sindacalismo di fine XIX / inizio XX secolo non basta. Il mondo del lavoro si è ristrutturato, mentre il sindacalismo è più destrutturato che mai. La precarietà dilagante è concentrata in varie fasce della società, a seconda dei diversi status professionali atomizzati e al loro interno frammentati, dove logiche e interessi non vanno più a braccetto.  

Il movimento dei gilets jaunes rappresenta una risposta popolare al fallimento delle mobilitazioni tradizionali e alla destrutturazione dei corpi intermedi, che ha permesso di riunire tutti coloro toccati in pieno da questa destrutturazione dell’organizzazione del lavoro: abitanti delle periferie urbane e delle campagne, lavoratori part-time, disoccupati, madri single, lavoratori indipendenti precari ecc.

Il movimento attuale, d’altro canto, si è ampiamente organizzato intorno a gruppi di lavoratori salariati di grandi imprese pubbliche e semipubbliche della regione parigina, cioè agli ultimi grandi baluardi di un sindacalismo che arranca a fatica. Eppure va constatato che lo sciopero è resistito solo grazie alla capacità di organizzarsi alla base, al di là dei dirigenti sindacali che costringono la mobilitazione all’interno di un rigida legalità inoffensiva, e che in alcuni casi hanno addirittura richiamato a porre fine agli scioperi.
Tuttavia, questa osservazione positiva non può trascurare il fatto che le centrali sindacali non siano state totalmente sopraffatte dalle loro basi, e che mantengano ancora una certa influenza e un ruolo di pacificatore della conflittualità sociale, in seguito alla loro specifica promozione del dialogo sociale in opposizione alla lotta di classe.

Manifestazioni

Lo stesso vale per le manifestazioni. Mentre l’evoluzione del mantenimento dell’ordine pubblico con l’entrata in scena delle BRAV (brigate di repressione dell’azione violenta) sembrava aver asfissiato il corteo di testa in occasione delle prime manifestazioni contro la riforma delle pensioni, la furbizia e la determinazione dei gilets jaunes hanno permesso di rompere l’apatia. Ne sono degli esempi le manifestazioni intersindacali del sabato svoltesi durante le feste natalizie alle quali hanno preso parte i gilets jaunes, oppure l’unione della manifestazione dei gilets jaunes e quella sindacale di sabato 11 gennaio, come anche l’Atto 62 di sabato scorso (19 gennaio ndr), al quale si sono aggiunti a loro volta più basi sindacali e l’Union syndicale Solidaires (unione sindacale francese).

Allora la testa del corteo si è dipinta di casacche gialle e ha raggirato il classico modello operativo delle forze di repressione nel contesto delle manifestazioni sindacali. I black bloc di solito riuniti in un unico gruppo, che fungeva da punto di riferimento intorno al quale si andavano immediatamente a concentrare le forze dell’ordine, si sono invece disgregati all’interno di un corteo sparso ed eterogeneo. L’ostilità nei confronti della polizia in diversi punti del corteo di testa ha sorpreso la prefettura, che non si aspettava che la dispersione potesse essere più forte della centralizzazione in un blocco unico.

L’astuzia dei gilets jaunes risiede presumibilmente nell’essere stati come l’acqua, fluidi e inafferrabili, reintroducendo così la combattività e trovando i mezzi pratici per un nuovo tipo di dispersione durante le manifestazioni, senza però, è pur vero, portare al collasso vero e proprio del dispositivo poliziesco.

Eppure non si può negare questo dato di fatto: l’intensità dell’antagonismo che caratterizzava il corteo di testa nel 2016 o le rivolte dei gilets jaunes dello scorso anno ha perso di vigore. E non si tratta di dare giudizi positivi o negativi, ma semplicemente di trarne delle conclusioni oggettive.

La gilet-jaunizzazione della manifestazione non si calcola in base al numero di gilets jaunes presenti, ma piuttosto in base alle procedure organizzative che la caratterizzano. Quindi la dichiarazione alla prefettura delle manifestazioni e del luogo di ritrovo, l’obbligo di un percorso prestabilito e scandagliato dalle forze di repressione, la cadenza settimanale delle mobilitazioni il martedì o il giovedì, condizionata dal rischio di perdere la scommessa di un grande sciopero totale. Tutto ciò è diventato fin troppo prevedibile.

Le premesse di una gilet-jaunizzazione e di una radicalizzazione dello sciopero non sono quindi sufficienti. Bisogna fare un salto di qualità estendendo la gilet-jaunizzazione al movimento sociale stesso: ai suoi slogan e alla sua offensiva. Si tratterebbe di scongiurare il ritorno alla normalità e aumentare la conflittualità, renderla permanente e dilagante.

RADICARE LO SCIOPERO NEL LUNGO TERMINE

Lo sciopero generale viene sempre considerato come il mezzo migliore per riuscire a ottenere una serie di rivendicazioni, spesso e volentieri stabilite dalle centrali sindacali. Si tratterebbe di quella carta vincente che basta sfoderare al momento giusto perché sia in grado di far perdere abbastanza denaro ai capitalisti, da costringere quel polo di comando che è lo Stato a far marcia indietro.

Un anno dopo l’insurrezione dei gilets jaunes, questa posizione non regge più. In primis perché lo sciopero non si generalizza, e perché nel suo stato attuale non rappresenta una perdita finanziaria abbastanza elevata da far piegare il capitale, e nemmeno un prezzo politico sufficiente a far piegare il governo.

Inoltre perché poche migliaia di persone sono state in grado di ottenere di più in qualche weekend di lotta rispetto alle centinaia di migliaia di sindacalisti in sciopero da ormai due mesi, nonostante questi ultimi abbiano apportato un colpo ben più duro all’economia.

La conflittualità non può ridursi al mero impatto economico. Invadere gli Champs-Elysées, prendere di mira i luoghi del potere, minacciare direttamente le istituzioni del regime: ecco quello che ha fatto tremare lo Stato lo scorso inverno.

Quindi, riteniamo che per radicare davvero lo sciopero nel lungo termine sia necessario accentuarne il carattere politico, ossia affiancarci delle rivendicazioni immediate, come il ritiro della riforma, e altre ancora a seconda dei settori, accompagnate da una critica più radicale al regime capitalista (e alla sua maschera “democratica”) insieme alla dichiarazione di un percorso strategico alternativo.

Fondare questo processo su un immaginario e su degli spazi realistici. Per farlo è necessario abbattere la dicotomia fallimentare tra lotta economica e lotta politica, ponendo la questione dei mercati sotto un punto di vista diverso rispetto a quello delle elezioni o delle rivendicazioni. Bisogna insomma creare un trait d’union tra tattica e strategia, in modo da concedersi i mezzi per pensare alla lotta come lo sviluppo immediato di un altro rapporto sociale, dove il conflitto tra noi e loro non potrà più risolversi tramite un qualsivoglia riassestamento, perché l’esperienza di appartenere a un’altra comunità sarà più forte di tutto il resto.

E’ questo che ci porta a formulare l’ipotesi di una gilet-jaunizzazione del movimento sociale. Il fatto che i protagonisti del movimento siano ancora qui dopo un anno rappresenta un chiaro segnale dei loro flirt con la vittoria e della forte rete di solidarietà e di amicizie che hanno creato.

Gilet-jaunizzare il movimento sociale significa da un lato mantenere la pressione sostenendo degli scioperi fissi nel lungo termine, ma anche perseguire l’investimento conflittuale del luogo di lavoro e tentare di convincere i lavoratori di tutti i settori e di ogni status a portare avanti azioni che attentino al normale funzionamento del loro ramo professionale, a organizzarsi all’interno delle loro sfere di attività, a creare dei luoghi di dibattito e di decisione ecc.

Significa anche imporsi di pianificare una tattica e di essere imprevedibili:

- moltiplicare le giornate di mobilitazione “proteiforme” in momenti alternativi rispetto a quelli dello sciopero tradizionale, ad esempio la sera o nel weekend, sempre mantenendo la frequenza delle manifestazioni sindacali durante le giornate di sciopero fisso;

- non accontentarsi delle manifestazioni tradizionali e tornare a organizzare degli incontri imprevedibili, non dichiarati, nei quartieri dove si concentra il potere economico e politico;

- moltiplicare i punti di tensione al di fuori del contesto della manifestazione e del luogo di lavoro, perseguendo e intensificando il lavoro fatto finora, con lo scopo di riunirsi oltre il contesto lavorativo.

Ci sono più possibilità che possono essere studiate al riguardo:

- azioni di ampia portata che riuniscano più settori in lotta - professionali e non - come i blocchi alla Geodis, l’invasione nel 2018 della Station F insieme a ferrovieri, studenti e attivisti, del mercato di Rungi e dei numerosi blocchi del 2019, o ancora delle piattaforme logistiche e dei depositi delle ultime settimane;

- azioni repentine o meno premeditate, come l’invasione della sede della CFDT (primo sindacato francese) o del teatro Bouffes du Nord, dove qualche sera fa si intratteneva tranquillamente Emmanuel Macron. Non limitare la nostra rabbia ai blocchi puramente economici, ma infiltrarci nei luoghi frequentati dai potenti così da mettere loro più pressione addosso, e dimostrare la nostra determinazione di fronte ai loro tentativi di soffocamento (come “l’aperitivo a casa di Manuel Valls” nel 2016);

- il ritorno alle azioni di sabotaggio, come alcuni settori si sono già adoperati a fare (si pensi ai sindacalisti del settore dell’energia che hanno tolto la corrente ad alcune centrali di polizia, alla CFDT, ecc., o ai sabotaggi delle linee tramviarie o dei bus operati dagli scioperanti della RATP…) – che riprendono una natura tutta sindacale, della quale Émile Pouget, vicesegretario della confederazione generale del lavoro francese (CGT) all’inizio del XX secolo, ne è un esempio lampante.

È attraverso l’aumento delle forme di intervento politico e l’intelligenza collettiva che riusciremo a vincere.

Gli scioperanti della RATP hanno dimostrato, con la loro tenacia e audacia, che lo sciopero non appartiene altro che a loro, proprio come i gilets jaunes hanno dimostrato che il movimento non si poteva ridurre unicamente alle forme di rappresentanza tradizionali. È quindi possibile sottrarsi alle catture istituzionali e portare avanti una battaglia interna per costringere i dirigenti riformisti ad accettare che lo sciopero non finirà, continuerà al massimo con un volto diverso e conflittuale. Possiamo dire che l’urgenza si riferisce al modo di pensare diversamente la temporalità del movimento sociale contro la riforma delle pensioni, e di servirsene come punto forte per rivoluzionare lo sciopero, proprio come il corteo di testa e i gilets jaunes hanno entrambi trasformato il contesto delle manifestazioni.

PROSPETTIVE

La speranza in un mondo diverso ci riunisce ogni giorno sempre di più, e il vacillamento dello stesso rappresenta il movente per una traiettoria comune. Ma questa traiettoria non si creerà da sola e non si ridurrà a delle pratiche antagoniste, come quelle dei blocchi o degli scontri con la polizia. Siamo disperatamente a corto di spazi comuni di elaborazione dove poter crescere e ideare insieme, formulare delle ipotesi condivise attraverso e nonostante le contraddizioni che ci attraversano.

Dovremmo renderci conto dell’urgenza di una solidarietà che vada oltre il proprio circolo professionale, nonostante anche quest’ultimo sia necessario. Ecco cosa ha altresì caratterizzato il movimento dei gilets jaunes: una solidarietà crescente contro la repressione, le mutilazioni, le comparizioni immediate e le pene carcerarie.

Dobbiamo da un lato approfondire le pratiche di solidarietà contro le repressioni della polizia e il controllo sociale (amministrazione delle imprese, sanzioni professionali). Un esempio per tutti: si pensi a Adama Cissé, spazzino licenziato per essersi preso una pausa, il quale video è diventato virale e per il quale è subito esplosa un’onda di solidarietà.  

Dall’altro lato è anche necessario che questa solidarietà esca dall’ambito delle società professionali, ai tempi della parcellizzazione del lavoro nei vari settori con logiche contradditorie e forme di precarietà diverse. Non si può più fare del lavoro il solo elemento centralizzatore. Dobbiamo portare la solidarietà tra i settori – e che questo obiettivo non sia stato ancora raggiunto lo dimostra la non generalizzazione dello sciopero attuale - ma soprattutto estenderla a un gruppo collettivo che, oggi, rappresenti un’alternativa decisiva all’ordine sociale odierno.

Allora era il punto di forza dei gilets jaunes quello di aver creato degli spazi di socialità, che erano indistintamente anche degli spazi di lotta, che vanno oltre l’ambiente di lavoro e ai quali si possono unire delle fette di popolazione più ampie. È a questo tipo di solidarietà trasversale che ci chiama il seguente scenario.

Alla fine le due parti sono state identificate. Da un lato abbiamo lo Stato, con la sua polizia, le sue forze fascistoidi, i capitalisti e i loro procuratori. Dall’altro invece una composizione sociale eterogenea formata da gilets jaunes, determinate basi sindacali, lavoratori e precari, disoccupati, abitanti dei quartieri popolari, studenti e liceali, attivisti della sinistra extraparlamentare e non. Purtroppo, tutte queste realtà non comunicano tra di loro, o solo raramente. Entrano in contatto solo durante le manifestazioni o le azioni, quando in realtà non si accontenterebbero di partecipare agli stessi eventi Facebook o a condividere quel corteo di testa che sta diventando un luogo sempre più pacifico. Senza dubbio siamo in molti a pensare che questo non basta e che per fare di più bisogna confrontarsi.

Il nostro scopo non è quello di sacralizzare le discussioni collettive, e men che meno le assemblee, ma si tratta comunque di concentrarsi sui limiti del vasto pubblico che arriva da internet: non è abbastanza per il raggiungimento di un grande obiettivo. Se i gilets jaunes resistono da così tanto tempo, è perché la maggior parte di loro si è organizzata apertamente, a volte su internet, a volte di persona e di giorno in giorno. Ma non illudiamoci: le assemblee di base e sul luogo di lavoro sono indispensabili, infatti è al loro interno che vengono decise le modalità di sciopero. Ma non bastano. Dal 2016 siamo tutti giunti alla conclusone che è necessario riunirsi. Abbiamo spesso sprecato le possibilità di incontro, trascurando i luoghi che abbiamo a disposizione e quelli occupati. Eppure, oggi, la situazione tende a far strada a uno scenario dove la crisi della rappresentanza e la distanza con la classe dirigente sono talmente tanto forti che la possibilità di unirsi intorno a degli slogan comuni diventa sempre più reale.

Siamo onesti: pensare che il movimento dei gilets jaunes conservi ancora oggi l’intensità di insurrezione di un anno fa rientra nell’illusione analitica approssimativa e non può che portare a uno stallo politico. Essere consapevoli del riflusso è un presupposto imprescindibile.

Di conseguenza lo slogan della gilet-jaunizzazione non fa riferimento tanto, o almeno non solo, ai gilets jaunes in persona, ma piuttosto allo spirito che rappresentano: alle loro forme di azione, ai loro modi di lottare, al loro coraggio e al loro spirito di iniziativa, alla loro capacità di contare sulle proprie forze. È proprio questo spirito che oggi deve animare il movimento sociale nel suo insieme, e del quale si dovrebbero riappropriare tutti gli altri focolai di lotta.