Pausa di riflessione nella rivolta di Bosnia.

Discussioni, manifestazioni e piattaforme di lotta.

10 / 2 / 2014

Domenica di manifestazioni e di assemblee nelle citta di Bosnia Erzegovina, dove i fatti più rilevanti sono segnalati dalle mobilitazioni nel cantone serbo e dalle dinamiche sociali che attraversano gli epicentri della rivolta dei giorni passati: Tuzla e Sarajevo. In queste citta ci sono stati cortei e manifestazioni di piazza che non hanno dato seguito ad incidenti, così come è avvenuto nei giorni precedenti, ma si sono intensificati gli incontri per definire una piattaforma comune di lotta e smontare l’uso distorto dell’informazione da parte di tv e giornali legati ai gestori del Potere.

È stata smentita da notizia rimbalzata sui media del ritrovamento di svariati kg di anfetamine in distribuzione tra i manifestanti, di pestaggi gratuiti ai danni della polizia, di uso di armi da fuoco ed è stata fatta circolare – a Sarajevo - una piattaforma in cui si afferma di parlare esclusivamente a nome di coloro che sono colpiti o minacciati dal ladrocinio della transizione, dalla corruzione, dal nepotismo, dalla privatizzazione dei beni comuni e dal modello economico che favorisce i ricchi”.

 Le richieste, in sintesi, sono: 1) non limitare le dimostrazioni pacifiche dei cittadini e garantire la sicurezza dei cittadini, 2) un governo non-partitico a livello cantonaleaperto alla societa’ civile, 3) dimissioni dei vertici della Federazione di BiH,sostituite da un governo non-partitico provvisorio. Il gruppo lancia anche un messaggio alle “istituzioni e organizzazioni internazionali”, invitandole a “trattarci come vengono trattate le altre proteste nel mondo, dove vienericonosciuto lo spirito di libertà, giustizia ed uguaglianza indipendentemente dagli incidenti.” La piattaforma è firmata “Plenum dei cittadini e delle cittadine di Sarajevo” e si discosta da quelle che erano le parole d’ordine di Tuzla dove si chiedevano garanzie per i disoccupati e gli occupati e l’allontanamento dei responsabili dei piani industriali di riconversione e di privatizzazione.

Crediamo sia utile segnalare queste diversificazioni territoriali alla base della spinta alla rivolta contro la corruzione, le malversazioni e il capitalismo di rapina per approssimare una comprensione e una lettura di quello che bolle nella pentola dei Balcani nel mentre si stanno definendo i tempi e i modi dell’entrata delle varie entità nazionali nell’Unione Europea.

Proponiamo qui di seguito uno stralcio di un articolo di Alfredo Sasso di eastjournal.net

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Nonostante la liquidità degli eventi in corso, proviamo a tracciare un primo bilancio politico e sociale, e le possibili conseguenze. Anzitutto è un sintomo importante che la “miccia” sia stata Tuzla, quarta citta’ del paese, polo dell’industria pesante e mineraria, fin da un lontano passato terra di rivolte sindacali e movimenti sociali (non a caso alcuni manifestanti di oggi si richiamano alla cosiddetta “Husinska buna”, la “Rivolta di Husino” del 1920, composta da minatori). Ma soprattutto, Tuzla è stata negli ultimi 25 anni una roccaforte progressista, l’unica citta’ del paese a mantenere un sindaco non-nazionalista in tutto il dopoguerra. Ed è un feudo dell’SDP, partito socialdemocratico ed ex-comunista. Proprio l’SDP è stato preso particolarmente di mira dalle proteste di disoccupati e studenti: primo, per la cattiva gestione della privatizzazione delle aziende ora fallite del cantone di Tuzla (dove, come ricorda l’analista politico Ervin Tokic, i social-democratici hanno governato a lungo); secondo, per essere co-responsabili, con gli altri partiti nazionalisti (in primis il bosgnacco-conservatore SDA, di cui SDP è stato fino al 2012 alleato a livello nazionale) per l’impasse politica ed economica in Bosnia.

Un altro segnale importante è che siano stati presi di mira anzitutto i cantoni, cioè le 10 “province” in cui è divisa la Federazione di BiH (una delle due entità in cui è suddivisa la Bosnia-Erzegovina; l’altra è la Repubblica Srpska). Ieri ben 4 cantoni su 10 sono andati a fuoco (Tuzla, Sarajevo, Mostar, Zenica; un quinto, quello di Bihac, è stato danneggiato), perché individuati come volto dell’inefficienza e della corruzione in cui versa la Federazione di Bosnia-Erzegovina. Il punto e’ che nella Bosnia post-guerra i cantoni erano pensati come “contrappeso” politico ed etno-nazionale dentro la Federazione, tra i partiti nazionalisti croati (concentrati principalmente nei cantoni dell’Erzegovina) e quelli bosgnacchi (nella Bosnia centrale e settentrionale), creando pero’ conflitti di competenza continui tra i livelli del governo, nonché veti e mercanteggiamenti continui tra le diverse forze politiche: per questo, alcuni ne chiedono l’eliminazione o il ridimensionamento. La seconda entità, la Republika Srpska, è priva di cantoni e con un governo centralizzato.

La diffusione della rivolta è stata impressionante. Si sono svolte manifestazioni in più di 30 città: un dato imponente, totalmente nuovo nella Bosnia post-1995. Va detto che non esiste alcun coordinamento né piattaforma né a livello locale, né tantomeno nazionale. L’unica eccezione è quella di Tuzla, dove è stato formulata una lista di richieste (tra cui: l’apertura di un’inchiesta e una revoca del processo di privatizzazione delle imprese, con la riassunzione degli operai; la riduzione degli stipendi dei politici; le dimissioni del governo cantonale – poi avvenute – sostituito da un ‘governo tecnico provvisorio’ fino alle elezioni del prossimo autunno). Le proteste nelle altre città sono state del tutto spontanee, amplificate da gruppi creati sui social network, senza momenti di riflessione collettiva, assemblee o forme organizzative. Gli unici punti comuni sono un generico attacco all’intera classe politica e uno spirito anti-nazionalista che resta pero’ da testare sul campo (ad esempio, a Mostar non è ancora del tutto chiaro se la composizione sia stata davvero unitaria; inoltre, in Republika Srpska le manifestazioni sono state in tono minore, a parte un presidio simbolico di solidarietà a Banja Luka). Importanti membri dell’intellettualità “civica” e non-nazionalista hanno dato, alla vigilia delle manifestazioni, il loro supporto: dal professore universitario (e storico attivista dei diritti civili) Zdravko Grebo, che ha auspicato una “primavera bosniaca”, al regista Danis Tanovic, al musicista Damir Imamovic. Ma non si è affermato nessun ‘volto’ né ‘leader’ della protesta. Che si è fatta violenta molto presto. Poco l’inizio dei presidi, infatti, alcuni manifestanti sono riusciti a introdursi nei palazzi del potere.

Diverse testimonianze affermano che, mentre la partecipazione ai cortei era del tutto trasversale, chi ha partecipato a scontri e danneggiamenti erano principalmente giovani o giovanissimi (tra i fermi, del resto, c’erano diversi minorenni), mentre il resto del corteo si spaccava: alcuni guardavano con indifferenza o anche con esplicito compiacimento, magari applaudendo gli scontri; altri si ritiravano indignati per la presunta degenerazione della protesta. La spaccatura è, come prevedibile, ancora più evidente il giorno dopo: tra chi lamenta che il ricorso alla violenza è una “sconfitta” per il movimento, e non intaccherà i poteri reali da combattere; e chi sottolinea che altro non si poteva aspettare che un’esplosione disincantata di questo tipo, in un paese che cova malgoverno, corruzione e emergenza economica da vent’anni. Quello che resta da vedere è se le proteste passeranno a formulare richieste più precise, con forme di riflessione ed elaborazione interna, oppure se rimarranno nella rivolta spontanea. In questo caso la auspicata “primavera bosniaca” resterebbe sotto un cielo di fumo nero.

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