Palestina - Il 15 marzo la rivoluzione di giovani palestinesi

7 / 3 / 2011

Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Algeria, Libia, con tutto il loro impetuoso scorrere di sangue e di speranza non hanno lasciato certo intaccati  gli argini degli animi dei giovani palestinesi di Gaza. Il fermento è in piena e traboccherà a breve: il 25 gennaio palestinese sarà il 15 marzo.

In vista di questa data infatti, decine di gruppi giovanili stanno lavorando alacremente per scendere in migliaia nelle piazze di   Ramallah e di Gaza, in una giornata che è stata battezzata non della collera, ma bensì della riconciliazione.

La lezione impartita  in particolare dalla rivoluzione egiziana dove forze laiche, musulmane, cristiane e di diverse classi sociali compatte sono riuscite a scacciare un potente dittatore che pareva inchiodato al trono, ha ritemprato l’orgoglio dei giovani gazawi pronti a esplodere in una forte e sensata richiesta di "End of division", la fine della divisione fra Fatah e Hamas.

“Abbiamo scelto il 15 marzo perché per noi palestinesi è una data priva di significati politici o di particolari commemorazioni. La base della nostra iniziativa popolare è assolutamente apolitica, indipendente da tutte le fazioni politiche. Non accettiamo gruppi che si identificano anche lontanamente con qualche partito”, mi fa Assad 22 anni.

Quando incontro Assad  Saftawy , Mohammed Shamallakh , e Mohammed Al Sheikh al caffè Gallery, nel centro di Gaza city, la tensione si taglia con un coltello.

Poco prima del mio arrivo, al caffè i ragazzi hanno ricevuto una spiacevole visita, quella della polizia in borghese di Hamas, che ha sequestrato loro computer e telefoni cellulari.

 “Perché Hamas ha cosi’ tanto timore di voi?” domando loro.

“Nonostante siamo stati chiari fin dal primo istante che i nostri intenti sono esclusivamente per un invito a ricomporre la frattura fra Ramallah e Gaza, che così tante sofferenze comporta, evidentemente sospettano che fra noi ci sia qualcuno collegato alla “The Revolution of Honor”, la giornata della collera indetta qualche settimana fa da Fatah e disertata in massa. Oltre a questo oramai tutti leader arabi temono le manifestazioni spontanee dei giovani. Il buffo è che alti esponenti del governo di qui, come il deputato di Hamas Ahmed Yousef, si erano dichiarati pubblicamente a favore della nostra iniziativa”, afferma Mohammed Al Sheikh, 22 anni.

La politica delle parole veste i doppiopetti, quella dei fatti le divise scure del mukabarat, e l’irruzione di oggi  in un caffè affollato delle forze di sicurezza di Hamas sono una minaccia esplicita per chiunque desideri aggregarsi all’iniziativa del movimento 15 marzo.

“Pensate che anche a Ramallah abbiano gli stessi problemi?”, continuo l’intervista.

Risponde Mohammed Shamallakh 24 anni :“Certamente. E come noi anche loro sono disposti a finire in prigione. Non ci nascondiamo, scrivi pure i nostri veri nomi. Davanti alle telecamere i politici si spendono in mille buoni propositi circa una possibile riconciliazione, ma sappiamo bene che in realtà molti di essi godono di privilegi in questa situazione di stallo. I giovani sono stanchi di stare alla finestra a osservare la vita passargli davanti. Io per via della faida fra Hamas e Fatah ho perso 3 borse di studio, la possibilità di viaggiare e di lavorare, di farmi una famiglia. Ogni giorno che passa è come un anno, e non voglio incominciare a vivere a 40 anni, o a 50. Se i nostri leader sono così  poco lungimiranti da non avere il polso sulla situazione, sui bisogni della gente, il 15 marzo mostreremo loro che è ora di mettere da parte i dissidi interni e lavorare tutti assieme per la fine dell’assedio e dell’occupazione”.

Non solo nel centro di Gaza city e nella piazza Manara di Ramallah  si prevede una grossa mobilitazione di ragazzi, ma anche i palestinesi in Israele e  in diverse città europee e del mondo sono pronti a scendere nelle strade.

“Abbiamo bisogno di tutto il supporto internazionale possibile affinchè un evento importante come quello che desideriamo attuare per il bene di tutta la Palestina, non venga represso nella violenza dalla polizia della Striscia o in West Bank “, riprende la parola e continua Mohammed Al Sheikh ,“a differenza dei nostri fratelli tunisini ed egiziani, non vogliamo rompere il sistema, bensì ricomporlo. Poi potranno essere indette nuove elezioni,  sarà possibile ricostruire l’OLP anche con la presenza di Hamas e allora arriveranno certamente migliori salari e migliori condizioni di vita, diminuirà la disoccupazione, e riotterremo quella libertà di espressione e quei diritti civili che adesso sono soffocati sia da Fatah che da Hamas.”

Faccio presente a Mohammed il problema delle ingerenze esterne nelle scelte delle leadership palestinesi, e gli ultimi scandali dei cables pubblicati da Al Jazeera che evidenziano quanto sia stretto il collaborazionismo della dirigenza dell’OLP con Israele.

“Se saremmo così in gamba da muoverci come i ragazzi di Tahrir square ci hanno insegnato, chi ci governa non avrà scelta. Ed è questo il nostro intento, inchiodare Hamas e Fatah in un angolo, e in quell’angolo costringerli a dialogare, a lavorare per la gente e contro l’occupazione israeliana. Lo implorano anche i 6 milioni di profughi fuori dalla Palestina”.

Chiedo loro cosa ricordano di quel sanguinoso 14 giugno 2007 quando a Gaza palestinesi contro palestinesi si scannarono senza pietà.

I volti entusiasti si fanno cupi, nonostante tutti e tre i ragazzi hanno perso amici e parenti nel corso degli anni per mano dell’esercito israeliano, tutti e tre concordano nel dire che quella giornata di guerra civile è stata la pagina più drammatica della storia recente palestinese.

“C’erano cecchini ovunque e raffiche di mitra per tutta la Striscia. Era impossibile distinguere chi stesse ammazzando chi. Da allora è certamente morto il nostro futuro”, spiega con angoscia Assad Saftawy.

Prima di offrire loro una shisha, chiedo come hanno preso l’iniziativa i genitori:

Mohammed Shamallakh: “Mio padre mi ha consigliato di desistere dall’idea. Devi sapere che soffro di una condizione particolare: a Ramallah sono convinti che io sia un militante di Hamas, qui a Gaza che appartengo a Fatah. Ma io non parteggio ne per l’uno ne per l’altro, così come l’iniziativa del 15 marzo non si fa strumentalizzare da nessuno. Chiediamo solo a gran voce  la fine delle divisioni.”

Assad: “Mio padre lo sto convincendo, mentre i miei fratelli e le mie sorelle le ho già portate dalla mia parte.”

Mohammed Al Sheikh: “Mio padre è già dei nostri e  mi ha promesso che parteciperà alla manifestazione.  E non da solo, verrà anche mia madre. Il problema è che sospetto vogliano partecipare solo per difendermi!”

Mentre una coltre fumo si leva dagli arghile sulle nostre teste meditabonde, ho la quasi certezza matematica che i genitori di Mohammed non hanno torto.

Vittorio Arrigoni da Gaza city