Non è un caso isolato, si chiama patriarcato

21 / 8 / 2019

Il patriarcato ha molti volti, uno di questi indossa sicuramente la divisa. 

Dall’Europa all’America Latina in queste ultime settimane stiamo assistendo alla formazione di una rete solidale intersezionale femminista. Una rete transnazionale che muove a partire dalle piccole e grandi lotte contro il patriarcato che spesso si manifesta sotto forma di istituzione e di forza di polizia.

Violenza poliziesca

Partendo dall’Europa, il 28 luglio a Bucarest - in Romania - sono scese in piazza migliaia di persone contro la polizia che non ha saputo e voluto salvare Luiza Melencu e Alexandra Măceşanu, due adolescenti stuprate ed uccise da un uomo di 65 anni. 

Alla cronaca sono salite le registrazioni delle tre telefonate che Alexandra era riuscita a fare alla polizia, fornendo anche la posizione del luogo in cui si trovata reclusa. In queste telefonate gli uomini in divisa la trattano con sufficienza, prendendola in giro e rimproverandola per lasciare la linea telefonica libera. Gli agenti arriveranno sul luogo dello stupro solo diciannove ore dopo aver ricevuto le richieste di aiuto della ragazza.

Nasce così la campagna «Se cade una, cadono tutte!», che raccoglie piazze solidali di Ni Una Menos Argentina e Spagna e di Non Una Di Meno Italia, con l’obiettivo di decostruire il patriarcato nel profondo. Uno dei suoi aspetti principali è quella narrazione dominante e stereotipata che giustifica la violenza di genere trasferendone la responsabilità alla vittima (che in pratica è “colpevole” di aver provocato con gesti, vestiti o atteggiamenti il carnefice) o attraverso la patologizzazione del singolo individuo violento (esempio la famosa “tempesta emotiva”). 

Questa rete femminista internazionale spiega che per sconfiggere questa forma di violenza sia necessario spostare l’attenzione dalla vittima al sistema che alimenta e che è responsabile della violenza stessa.

Violenza patriarcale istituzionale che l’11 agosto abbiamo visto in azione a Siracusa durante una contestazione spontanea pacifica a Matteo Salvini, responsabile di una legge aberrante come il decreto sicurezza bis. Due attiviste, Gaja e Giulia, sono state “scortate” per nessun motivo dalla Digos che a contestazione iniziata ha strappato loro i cartelli e ha fisicamente allontanato le ragazze dalle transenne provocando ad una di loro uno stato di presincope - completamente ignorato, in seguito, all’ospedale - e chiamando una delle due attiviste “quasi cittadina” perché nera.

Giulia e Gaja hanno deciso di denunciare tutto pubblicamente sui social in quanto la loro testimonianza «(…) vuole allarmare cittadine e cittadini: uniamoci contro ogni tipo di fascismo, mostriamo come uno Stato con Salvini premier sarebbe violento, oppressivo, autoritario, classista, sessista e razzista – basta leggere gli insulti inammissibili che Gaja ha ricevuto sulla pagina facebook di Salvini- Resistiamo perché la violenza aumenterà e ripetiamo: viviamo, siamo partigiane e partigiani e resisteremo umani».

Anche a Città del Messico le femministe messicane hanno alzato la voce contro la violenza patriarcale in divisa, al grido di «No me cuidan, me violan!», dopo che sei agenti sono stati sospesi dal servizio perché sospettati di aver violentato due ragazze di 16 e 17 anni. Si sono così ritrovate in una marcia di almeno 300 persone che hanno sanzionato con vernice rosa il Ministero della sicurezza e distrutto le vetrate degli uffici della Procura.

Infine, è di alcuni mesi fa la lettera che le poliziotte argentine inviarono al Ministero della Sicurezza Nazionale in cui chiedevano espressamente di non essere mandate in piazza a reprimere le proteste femministe di Ni Una Menos e dichiaravano di fondare a loro volta una rete per “fermare le violazioni contro di noi nelle istituzioni”.

«Crediamo che non debbano essere inviati né poliziotti uomini né poliziotte donne perché chiedere la cessazione della violenza, ripetiamo, ”non è reato” e la nostra presenza non è richiesta e, se ci saremo, sarà per sollevare il cartello Ni Una Menos. Accompagnando, mai reprimendo. Siamo assolutamente contrarie alla repressione delle Organizzazioni di Donne Femministe e di fronte a qualsiasi episodio di violenza saremo sempre dalla parte delle donne che sono state represse e chiediamo che denuncino gli abusi di potere. Non tutte siamo poliziotte per vocazione, alcune lo sono per caso, altre per povertà, altre perché siamo entrate come psicologhe professioniste e, tutte insieme, stiamo dando vita a questa rete». Questi in breve i contenuti nella lettera indirizzata alle istituzioni argentine.

Una rete solidale intersezionale femminista internazionale, insomma, che non ha più intenzione di tacere e che si scaglia, con ogni mezzo necessario, contro la violenza patriarcale del sistema, che si esprime in una delle sue peggiori forme nella repressione delle forze di pubblica sicurezza, e che si appresta a riempire piazze e strade affinché, appunto, non cada più nessuna. 

Violenza istituzionale

Il patriarcato ha molti volti, dicevamo, uno di questi è quello istituzionale, come nel caso di Bolsonaro in Brasile, dove va segnalato il “Forum Nazionale delle Donne Indigene” avvenuto a Brasilia il 13 e 14 agosto. Un appuntamento che ha rappresentato un momento importante di confronto sulle pratiche di resistenza al sistema estrattivista. Un sistema che reprime i diritti dei popoli indigeni attraverso la standardizzazione della formazione, della sanità e che avvelena il mondo intero attraverso il disboscamento programmato della foresta amazzonica; foresta nella quale, per di più, si trovano le riserve del popolo indigeno. L’estrattivismo si fonda anche e soprattutto su una secolare cultura coloniale, che ha sempre basato le proprie linee di sfruttamento sulla razza e sul genere. Per questo 1500 donne dell’Unione delle Donne Indigene dell’Amazzonia brasiliana (UMIAB), in rappresentanza di oltre 100 popolazioni,  si sono ritrovare per le strade di Brasilia tra cortei ed assemblee  per studiare una strategia di resistenza di fronte alla regressione dei diritti fondamentali e collettivi e al disastro ambientale dell’Amazzonia seguiti alla salita di Bolsonaro al potere.

Alzare la voce

Paesi diversi, contesti diversi, vicende diverse, ma un denominatore comune: le lotte femministe, in particolare in questa fase storica, rappresentano un elemento imprescindibile per la tenuta dei movimenti a livello globale. Se c’è un argine all’avanzata di una cultura politica reazionaria, a un capitalismo che ha rotto qualsiasi patto sociale, a istituzioni sempre più repressive, classiste e discriminatorie, questo non può che essere rappresentato dalla crescita di un femminismo transnazionale.

Come ha detto Raul Zibechi in un recente articolo, i movimenti di donne, insieme a quelli indigeni, sono tra i pochi a vivere una fase di avanzamento, proprio perché «sono cresciuti al di fuori degli ambiti istituzionali, alimentandosi dei problemi quotidiani delle popolazioni e settori sociali». Per questa ragione è sempre più importante intrecciare vissuti, discorsi e pratiche a tutte le latitudini e longitudini, superando qualsiasi steccato nazionale e identitario e imponendosi realmente come una forza globale e complessiva.