No Justice No Peace, appunti dal diario di bordo

9 / 6 / 2020

Abbiamo passato giorni a guardare il fuoco che avvolge gli Usa leggendone passo passo la trama che velocemente si disegnava nelle fiamme: brucia il potere bianco e schiavista, brucia l’enorme campo di cotone. La casa del padrone è improvvisamente sotto attacco, ora è cinta di sbarre d’acciaio e filo spinato in un perimetro, costruito in fretta e furia dal Secret Service, che ricorda quello che i soldati statunitensi allestiscono per proteggere le loro sedi diplomatiche nei territori di guerra. 

Il calore dell’incendio intanto scalda milioni o forse addirittura miliardi di cuori, i cuori di coloro che sono da secoli vittime del sacro saccheggio capitalista, cuori in corpi i cui volti ora sorridono mentre brucia il ventre della bestia, la stessa bestia che ha “esportato la democrazia” a suon di bombe e missili. Divampano le fiamme nell’impero che negli ultimi cinquant’anni ha invaso con soldati armati territori strappati con la forza, per far rispettare leggi che non erano le loro.

Ma i pattuglioni dell’impero ora corrono a destra e a manca cercando, nel suolo a stelle e strisce, di riportare l’ordine con coprifuochi oramai violati da moltitudini in rivolta e al loro passaggio lasciano una scia di sangue che si prende razze, età e generi completamente diversi tra loro.

Il livellamento razziale si dà per la prima volta negli States grazie a un uso indiscriminato della forza che non risparmia nessuno, nemmeno la categoria un tempo protetta dei giornalisti, nemmeno i disabili: un homeless in carrozzella è stato abbattuto da un proiettile di gomma proprio qualche giorno fa a Los Angeles. 

Trump tratta l’intero paese come tratterebbe una colonia ma, questa volta, i suoi ordini vengono disattesi. La catena di comando si interrompe, i pretoriani con casco e manganello annaspano mentre nelle metropoli la protesta dilaga: a Washington è sfilata la più grande manifestazione fin qui tenuta, altri cortei enormi hanno invaso altre città, ci sono stati scontri a Denver, New Orleans, Santa Ana, Seattle e la lista aumenta di giorno in giorno.

C’è una qualche legge chimica di una certa importanza che regola gli incendi. Raggiunta una certa temperatura il fuoco si diffonde con una forza tale per cui c’è un tempo limite nel quale si può intervenire per soffocarlo. Oltrepassato quel punto si deve lasciare che distrugga quello che si è già preso, si può solo evitare che si propaghi ulteriormente. La situazione sembra questa: un fuoco capace di trasmettersi e di appiccarne altri cento, mentre i pompieri del trumpismo tentano di arginarne la forza a bastonate, gas e minacce, ma invano.

I più intelligenti stanno invece provando ad assecondare il fuoco, cercano di farlo girare verso un’altra direzione. Un antico detto dice che quando non puoi vincere il tuo nemico devi allearti con esso, allearti per togliergli potenza e annullarlo passo dopo passo per sconfiggerlo facendogli credere di camminare nella stessa direzione.

Le parole di Obama e dei dirigenti democratici blandiscono ma non scalfiscono. Ci ha provato pure Muriel Bowser, sindaca di Washington DC, che ha prontamente messo volontari e operai della municipalità a dipingere la scritta “Black Lives Matter” a caratteri cubitali gialli tra due semafori della 16esima, una strada a due corsie che porta alla Casa Bianca che cambiava così nome per diventare appunto la via di BLM.

Peccato per loro, che il movimento BLM abbia immediatamente definito questo come un atto di “performazione distrattiva”, attaccando la sindaca sulla scelta di non tagliare i fondi alla polizia. E alle lettere sull’asfalto ne sono state aggiunte altre nelle ore successive che ne chiariscono meglio i contorni: “Defund the police!”.

Siamo di fronte a un programma radicale, con buona pace dei tifosi della compatibilità; un programma che viene espresso in maniera chiara: definanziamento della polizia, amnistia generale, assemblee libere, cibo e generi di prima necessità per tutti.

Piani che diventano realtà: primo e non scontato risultato, per esempio, costringere il consiglio municipale di Minneapolis a sciogliere definitivamente il Dipartimento di Polizia, dopo avere scaraventato il Sindaco fuori dalla manifestazione di sabato 6 giugno. 

Un fuoco che si autoalimenta e corre veloce, in barba a qualsiasi legge fisica e che, come già avvenuto molte volte in passato, comincia ad attraversare mari e oceani risvegliando negli altri continenti antiche fiamme sopite sotto la brace o innescandone di nuove.

La temperatura si alza ovunque, decine di migliaia di corpi si sono messi in movimento anche nella vecchia Europa. In Francia, dalle banlieues mai sopite, cortei si dirigono verso il centro di Parigi; in Inghilterra viene abbattuta la statua dello schiavista Edward Colson, ed è una immagine potente che ci porteremo appresso: la statua che da 125 anni guardava tronfia tutte le vittime dei mercanti di schiavi è stata abbattuta da una folla di giovani per poi essere gettata in acqua.

Non è però nostra intenzione fare un bilancio della situazione, indicarne le prospettive o augurarci scenari, vestire insomma i panni dei commentatori o di coloro che hanno la pretesa di dettare le direttrici. Il nostro compito di attivisti e attiviste è prendere appunti nel nostro diario di bordo, scrivere note che ci permettano di continuare a tracciare la rotta verso un mondo nuovo. Procedere quindi nel camminare domandando, lasciando ad altri il triste compito di trovare i nessi della riformabilità di questo sistema (i nostri auguri sinceri) o di costruire coalizioni che inseguano vecchi schemi come la riforma delle istituzioni finanziarie.

Non perdiamo nemmeno tempo a misurarci con le parole di Roberto Saviano sui saccheggi, non perdiamo che un paio di righe per liquidare quelle letture tipiche della “sinistra delle anime belle” che riesce ad accettare un paio di macchine della polizia bruciate, ma che quando viene messa a repentaglio l’intoccabilità della proprietà privata sale sul pulpito a lanciare i suoi strali indignati, ricoprendo il ruolo classico di servo fedele del capitale. Oggi questa rottura si dà proprio nel paese simbolo della proprietà privata, difesa fino ad ora a tutti i costi, anche con le armi.

Nella scrittura del nostro diario di bordo possiamo segnare che siamo arrivati a un nuovo giro di boa a livello globale. La giornata di sabato ci consegna questa immagine anche nel nostro paese, le piazze che abbiamo organizzato e attraversato, almeno nel nostro osservatorio privilegiato, quello del Nord-Est, ci parlano di alcuni elementi interessanti e potenzialmente dirompenti. I numeri ovviamente prima di tutto: migliaia e migliaia di partecipanti nella fase del post lockdown

E poi la comparsa in massa di una componente di seconda generazione fino ad ora estranea alle mobilitazioni di piazza (almeno nei nostri territori), anche a quelle antirazziste; l’intreccio e in parte la sovrapposizione con la generazione di Fridays for Future; la narrazione queer di entrambe quelle composizioni presenti in piazza. 

Migliaia di giovani, anzi giovanissimi, una composizione che probabilmente ci costringerà a rivedere anche la grammatica classica dell’antirazzismo, almeno quella che fino ad ora si era basata sulla pur corretta affermazione che la razza non esista dal punto di vista biologico. Dall’altro canto viviamo in una società razzializzata, cioè la razza esiste da un punto di vista sociale ed influenza le vite di milioni di persone anche in Italia, le piazze di sabato spingono per farsi carico della questione, proprio nel tempo in cui le seconde generazioni raccolgono il testimone che arriva dalle rivolte negli States. È il loro turno di dichiarare la stanchezza per un sistema classista che li differenzia dai bianchi sin dai banchi di scuola, la loro rabbia contro un “moloch” che costruisce per loro solo la prospettiva di un certo tipo di lavoro ovvero quello che gli italiani non vogliono più fare e il loro sfinimento per forme di razzismo strisciante che perdurano ed anzi aumentano nei tempi della narrazione sovranista/salviniana e del conseguente rapporto con la polizia…

Sì, proprio il rapporto con la polizia, quella che abbiamo conosciuto bene a Genova 2001, nelle morti di Aldrovandi e Cucchi o nella repressione delle rivolte nei centri lager per migranti, polizia che anche nella “nostra” Italia è sinonimo di violenza. Come se non considerassimo, inoltre, violenza l’iter infinito nelle questure per l’ottenimento di un permesso di soggiorno o della nazionalità italiana o le perquisizioni continue per droga o accertamenti, che chi ha il marchio di una pelle diversa subisce ogni giorno. 

In piazza i ragazzi e le ragazze ci sono arrivati con i cartelli, come hanno imparato a fare nelle manifestazioni per la giustizia climatica nello scorso anno, ed è proprio questo il primo intreccio significativo.

Le immagini della composizione meticcia si sovrappongono in larga parte alla giovanissima componente di Fridays For Future. Si sono conosciuti nel ciclo delle mobilitazioni per il clima, hanno esplorato insieme il concetto di giustizia climatica nel tempo della crisi ecologica, hanno costruito legami nelle scuole e sabato si sono rivisti, passandosi la parola al microfono e mescolando con naturalezza i piani. Il movimento climatico non poteva non mettere l’accento sin dal suo inizio sui rapporti di sfruttamento e predazione che costituiscono le nuove forme neo-coloniali, fare quindi del rapporto razze/sfruttamento/migrazioni una sua dinamica costituente e in questo si trova la naturalezza del melting pot delle piazze. 

Il Covid-19 poi, in quanto sintomo e frutto della crisi climatica, ha messo in luce come i costi di questa crisi ecologica si siano distribuiti seguendo linee di razza, BLM non sarebbe stata così senza questo aspetto, questo messaggio arriva chiaramente nelle nostre manifestazione dalla narrazione ai microfoni ed ai megafoni.

Infine un’ultima nota veloce, un altro intreccio che riverbera direttamente da oltre oceano: se questo movimento nasce negli Usa in risposta alle violenze nei confronti degli afroamericani da parte delle forze di polizia, va anche detto che le tre attiviste che lo lanciarono, tre donne nere queer (Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi), pongono fin dall'inizio la centralità di altri fattori che contribuiscono alle discriminazioni. L'essere donna, l'essere poveri, il non avere accesso ai servizi abitativi (dopo l'esplosione della bolla finanziaria del 2008 centinaia di migliaia di persone hanno perso la casa), l'avere una sessualità fluida o riconoscersi nella comunità LGBTQIA+.

Possiamo dire - riprendendo Angela Davis - che questo movimento dà un'analisi socio-politica lucidissima che interseca razza, classe e genere, e le piazze che si stanno dando cercano di illuminare sulla possibilità di immergersi nella razza per superarla, ma anche nel genere e andare oltre. Questo è riverberato anche nelle nostre piazze, nell’intreccio, anche qui non forzato, con l’attivismo di NUDM e frutto delle mobilitazioni femministe degli ultimi anni; il messaggio è risuonato nelle parole di molti interventi, anche qui senza la pretesa di farne teoria generale. Ad esempio, come accomunare le rivolte odierne ai moti di Stonewall che hanno originato il Pride? Questo ci parla della speranza che, nel divenire di queste rivolte, si dia finalmente anche la liberazione dal sistema patriarcale.

Corpi, razze e generi che si mescolano e parlano, disegnano quindi il campo delle possibilità, portano il fuoco e l’incendio del vecchio mondo nel nostro quotidiano: nella commistione di questi elementi leggiamo l’elemento detonante in potenza. A noi la scommessa di dotarci di mezzi che ci rendano capaci di leggere oltre la linea dell’orizzonte, di costruire strumenti ottici capaci di andare al di là della rappresentazione della realtà. Un gioco di cristalli che messi uno dopo l’altro ci diano con le loro rifrazioni la capacità di rendere prospettive lontane sempre più vicine. Nel farlo dobbiamo avere l’accortezza di mescolare le lenti, dandogli la giusta posizione, non dimenticare che solo nell’intersezione di queste si trova il campo della possibilità rivoluzionaria.

Oggi le lenti che ci vengono consegnate dal tempo che stiamo vivendo sono quelle della giustizia: quella sociale, quella climatica e quella di genere. Insieme compongono il nostro cannocchiale che ci permette di guardare ad un mondo nuovo dove non si diano rapporti di sfruttamento tra uomo e natura, tra le specie, tra le razze e tra i generi. 

Ma l’osservazione non è che una fase del tempo politico: c’è bisogno di trasformare le ipotesi in azione, di dare potenza costituente all’intreccio, c’è bisogno di affermare fino in fondo che se non ci sarà data giustizia noi sapremo non dare pace alle istituzioni del comando!