Mozambico - Incontri in un campo profughi

Racconti itineranti

22 / 10 / 2009

Arrivare a Maratane non è facile. Certo che non lo è, se sei un rwandese o un congolese o un kenyano o un sudanese che dovrà camminare sotto il sole africano- o sperare che rallenti un camion, o che un sacco di farina ti lasci spazio sul tetto di qualche autobus- attraverso tutta la Tanzania e il nord del Mozambico. Ma non è uno scherzo neanche se vuoi arrivare a Maratane non come rifugiato, ma come testimone, come forestiera che vorrebbe scrivere della diaspora dei popoli di grandi laghi per l'Africa. Prima è necessario procurarsi un colloquio con quelli dell'INAR, l'istituto nazionale di aiuto al rifugiato. Io sono stata fortunata e ci sono arrivata da due buone parole diverse: quella di un padre scalabriniano da tre anni in Mozambico, e quella del Mlal(Movimento Laici per L'America Latina, che qui lavorano sui diritti umani nelle carceri) di cui ero ospite e che sono, per un puro caso africano, vicini di casa di un tecnico dell'INAR. Naturalmente il colloquio con l'INAR non è risolutivo: a quel punto è necessario fare una richiesta scritta all'Eccellentissimo Delegato Provinciale dell'UNHCR, l'organismo dell'ONU per i rifugiati politici. Quando sono tornata a vedere com'era andata la mia richiesta, ho avuto la sensazione che non fosse mai arrivata nelle mani di nessun delegato, che forse non esisteva nessun delegato, ma che fosse la stessa segretaria dell'INAR a timbrare favorevolmente tutte le richieste, sbadigliando. Magie della democrazia (lapsus, volevo scrivere burocrazia). Maratane è immerso in uno scenario meraviglioso. Se non fosse per il caldo invincibile e per le specie di serpenti che infestano questa parte di savana, tutta la zona intorno a Nampula sarebbe da esplorare in lungo e in largo. I trenta chilometri che la separano dal campo di Maratane si percorrono su una carraia rossastra circondata da montagne che spuntano dalla pianura come bulbi rocciosi di forme che, con l'aiuto del caldo, stimolano l'immaginazione (ma una è sicuramente la faccia di un vecchio disteso bocconi; infatti appena più a ovest ce n'è un'altra che è chiaramente la sua pancia con una birra appoggiata sopra). Il campo profughi, in cui vivono circa 5000 persone (più della metà congolesi, quasi tutti gli altri rwandesi e burundesi e una piccola parte di kenyani e sudanesi) è più che altro un grande villaggio, un'enclave kiswahili nel cuore del nord mozambicano. Di fatto è aperto, i suoi abitanti sono liberi di lasciarlo quando vogliono. Ma per andare dove? Dice Said, diciassette anni, arrivato qui da solo dal Burundi cinque mesi fa. Maglietta consunta dello sporting lisboa, mi racconta della sua fuga dalle milizie in cui non voleva finire arruolato. Siamo nella semioscurità rovente del transference centre, la parte più miserabile del campo, quella dove rimangono i nuovi arrivi per qualche mese, prima che gli venga assegnata una baracca (o uno spazio su cui costruirne una) nel campo. Sono casermoni di fango con un tetto di lamiera ondulata divisi in stanze di sei metri per sei, senza letti e senza finestre (a parte un pertugiolo di venti centimetri per quaranta, provvisto di zanzariera, ridicola dal momento che non c'è neanche la porta e le zanzare fanno la spola fra una malaria e l'altra). Said è contento di raccontare la sua storia, perchè è arrivato dove voleva arrivare: al sicuro. Non gli dispiace affatto l'idea di rimanere qui per sempre.Mentre finisco di scrivere quello che mi ha detto, arriva da me una signora con le treccine dritte in testa, l'aria piuttosto sciatta e un sorriso indimenticabile. Mi inizia a parlare in inglese quando ancora sto finendo di scrivere tanta è l'urgenza che si porta dentro; perdo l'inizio, poi, lentamente, inizio ad afferrare il senso e dimentico tutto il resto - la penna, le pareti, Maratane, l'INAR, L'Africa, l'Europa. Elizabeth è kenyana, di una zona nell'interno del paese. Da una vita intera scappa, ma la sua fuga non ha destinazione perchè la sua persecuzione non ha il nome di un'etnia nè quella di un credo politico. Elizabeth non vuole stare con uomini e per questo, in ogni luogo in cui arriva, la sua libertà ha i giorni contati. Ha cercato appoggio da parenti e amici prima in altri luoghi del Kenya, poi in Tanzania.Ma ben presto questa nuova arrivata senza un uomo (e senza voglia di averne uno) desta perplessità, poi sospetti. Infine inizia l'organizzazione di una comunità intera per mettere in piedi un matrimonio che Elizabeth non vuole. Allora deve ricominciare la sua lunga marcia verso il Sudafrica, dove -si augura- certi diritti sono più riconosciuti. “Perchè non è naturale” conclude con gli occhi spalancati, un fiume in piena che incontra un mare di determinazione: “Non è naturale essere costrette”. Sceglie, rovesciandolo, proprio questo concetto -non è naturale- lo stesso che devono averle buttato addosso da quando Elizabeth ha coscienza di Elizabeth. Non è venuta a parlare con una giornalista, è venuta a parlare con una donna. Una che non si aggiunga alla sua persecuzione come ha visto succedere fino a oggi. Sopraffatta, le ho risposto la cosa che, in quel momento, mi sembra la più definitiva, l'unica che le riassumeva tutte: sono d'accordo con te.Lei mi ha fatto un largo sorriso e se ne è andata. Ci ho messo un po' a dominare un senso di impotenza quasi vertiginoso, poi in qualche modo ho reagito, ho piantato in asso quello che stavo facendo per tornare a cercarla e le ho detto che avrei cercato di metterla in contatto con WLSA, un movimento di donne attivo in Mozambico. “Ti farebbe piacere?” “Definitely!” ha risposto entusiasta. “Ci provo”. Mentre scrivo, le leader di Maputo di cui avevo il numero stanno cercando di attivare le loro colleghe di Nampula. Spero che almeno una di loro parli inglese.