“Monitoriamo le violazioni di tutte le parti in conflitto in Yemen, è questo che ci permette di restare operativi e di mantenere credibilità”. Intervista ad Osamah Alfakih

3 / 1 / 2021

Dopo sei anni di conflitto, sono pochi gli attori della società civile che riescono a portare avanti il proprio lavoro in Yemen. Tra questi, l’organizzazione Mwatana per i diritti umani, che da oltre dieci anni è attiva nella denuncia delle violazioni commesse prima dal governo e, negli ultimi anni, dalle diverse parti in conflitto. Abbiamo parlato con Osamah al-Fakih, direttore dell’Unità Media, Comunicazione e Advocacy di Mwatana, che ci ha raccontato cosa voglia dire operare in un paese in guerra.

Cos’è Mwatana?

È un’organizzazione indipendente yemenita per la difesa dei diritti umani. Il nostro lavoro si sviluppa su tre assi. Primo, documentiamo le violazioni dei diritti umani commesse da tutte le parti in conflitto, facendo report sulle uccisioni di civili, il bombardamento di scuole e di ospedali, tortura. Secondo, offriamo assistenza legale alle vittime di detenzione arbitraria, sparizione forzata e tortura. Terzo, siamo attivi a livello internazionale con attività di advocacy ed informazione.

Quando è nata?

È stata fondata nel 2007 come Hewar Forum, ma allora non aveva il permesso ufficiale per operare perché fortemente critica del regime di Ali Abdullah Saleh [presidente dal 1978 al 2012, NdT]. Nel 2013 Mwatana ha finalmente ottenuto il permesso per operare, ma si trattava ancora di una realtà molto piccola. Basti pensare che quando io li ho raggiunti, nel luglio del 2015, eravamo in sette. A distanza di cinque anni da allora, contiamo oggi uno staff di un centinaio di persone concentrato a Sana’a, ma presente in quasi tutti i 22 governatorati del paese.

Da quando ti sei unito ad essa, l’organizzazione ha dovuto operare in uno stato di guerra. Cosa vuol dire lavorare in tale contesto? Riuscite a collaborare con altri attori della società civile?

Operare è ovviamente molto difficile, collaborare lo è altrettanto. Come ho scritto altrove, se guardiamo alla società civile yemenita nel suo complesso, credo che si sia molto deteriorata a partire dalla rivoluzione del 2011. Bisogna però dire che già prima di quell’anno la situazione non era positiva: a fianco degli attori indipendenti c’erano molte organizzazioni ed associazioni create dai partiti – sia di quelli al governo che di quelli all’opposizione – che eclissavano gli sforzi dei primi nel promuovere principi di giustizia sociale e diritti umani. Questo ha caratterizzato anche la fase di transizione post-2011: in quegli anni la partigianeria di parte della società civile ha contribuito enormemente a fare in modo che le forze partitiche che erano all’opposizione durante il regime di Saleh trasformassero la rivoluzione da una rivolta popolare in una disputa politica tra loro e lo stesso Saleh.

La situazione non sarà migliorata dopo anni di guerra.

No, ovviamente è peggiorata. È sempre più difficile trovare attori indipendenti dal momento che, come dicevo, molti hanno deciso di allinearsi con una o l’altra delle parti in conflitto. Oltre alla maggiore polarizzazione politica, c’è poi da considerare il fatto che durante questi anni di guerra lo spazio pubblico – e qui parlo anche della stampa e dell’attivismo in generale – è stato duramente colpito e ridimensionato. È per questo che molte associazioni ed organizzazioni hanno deciso di chiudere, mentre altre sono state costrette a farlo dai gruppi armati.

Hai definito Mwatana come un’organizzazione indipendente. Cosa vuole dire essere indipendenti in uno paese in guerra e come siete riusciti a mantenere tale condizione?

L’abbiamo mantenuta grazie a due scelte che ci siamo imposti. Da una parte, nel 2015 abbiamo adottato un codice di condotta che aveva alla base principi come la neutralità e il rifiuto della violenza. Quando assumiamo nuovo personale verifichiamo quindi che abbia un profilo indipendente. Dall’altra, sempre a partire dal 2015 abbiamo lavorato sul monitoraggio di violazioni di diritti umani e atti di violenza commessi indistintamente da tutte le parti in conflitto. Questo ci ha salvati perché ci ha dato credibilità agli occhi dei vari schieramenti, facendogli capire che non stavamo dalla parte di nessuno.

Non dev’essere facile lavorare in quel tipo di contesto.

Non lo è mai quando lavori in mezzo a gruppi armati ed il tuo vicino è l’Arabia Saudita. E infatti negli anni alcuni nostri membri sono stati aggrediti, detenuti arbitrariamente e privati dei propri documenti. Tali attacchi sono stati commessi soprattutto da parte degli Houthi. E devo dire che, dopo l’internazionalizzazione del conflitto nel 2015, non mi sento al sicuro. Io personalmente ogni giorno mi sveglio non sapendo se arriverò a fine giornata o se verrò aggredito.

Se la collaborazione con attori yemeniti è complicata, siete però riusciti a costruire una solida rete internazionale.

Sì, anche con l’italiana Rete Disarmo. Tutto è iniziato nel 2016, quando abbiamo documentato un bombardamento aereo saudita. Come sempre abbiamo cercato di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili, rintracciando superstiti, testimoni e le famiglie delle vittime. In quel caso, abbiamo scoperto che parte dei componenti della bomba erano state fabbricate in Italia. Da allora abbiamo lavorato con la Rete Disarmo e lo European Center for Constitutional and Human Rights per bloccare l’export di armi verso i paesi che partecipano alla guerra in Yemen, primi fra tutti Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Se guardiamo al caso italiano, l’impegno della rete ha dato alcuni frutti.

Sì, nel 2018 abbiamo chiesto alla Procura di Roma di indagare sulla responsabilità dell’azienda produttrice di quei componenti e dell’autorità italiana che si occupa delle esportazioni militari [si tratta rispettivamente della RWM Italia S.p.A. e dell’Autorità per le autorizzazioni sui materiali d'armamento. Per maggiori informazioni si rimanda ad un comunicato della Rete Disarmo, NdT]. Il caso è stato archiviato, ma abbiamo fatto appello e la nuova decisione dovrebbe uscire a gennaio 2021. Inoltre, è notizia del 22 dicembre che la Commissione Esteri della Camera ha votato una risoluzione che, tra le altre cose, chiede che venga prorogata la sospensione della concessione di nuove licenze per bombe italiane destinate ad Arabia Saudita ed Emirati. E devo dire che questo è il risultato del nostro impegno congiunto.

La società civile di altri paesi può quindi fare qualcosa per lo Yemen?

Siamo tutti consapevoli dell’ipocrisia degli stati e dei loro doppi standard nel rispetto dei diritti umani. È quindi molto importante che, da una parte, la società civile italiana continui a fare pressione affinché il blocco all’export di armi continui. Dall’altra, penso sia utile che la società civile si mobiliti per chiedere al governo di spingere, a livello internazionale, per avviare investigazioni internazionali in Yemen sulle violazioni dei diritti umani e per tenere le parti in conflitto maggiormente responsabili delle violazioni che commettono.

È notizia di qualche giorno fa che il governo internazionalmente riconosciuto del presidente Abed Rabbo Mansur Hadi e il Consiglio di Transizione del Sud abbiano raggiunto un nuovo accordo sulla formazione di un esecutivo misto. Se le due parti si dovessero definitivamente accordare [processo che va avanti da oltre un anno, ovvero dall’accordo di Riyadh sulla condivisione dei poteri tra le forze del Sud ed il governo di Hadi, NdT], verrebbe meno uno degli assi del conflitto yemenita, ovvero quella che è stata definita la “guerra civile dentro la guerra civile”. Una soluzione fortemente incoraggiata dall’Arabia Saudita dal momento che ri-compatterebbe il fronte governativo, che Riyadh sostiene, in chiave anti-Houthi. Credi in questi passi avanti?

Ci spero, come spero che sia solo un passo preliminare verso un altro, ovvero la formazione di un tavolo di negoziato tra gli stati regionali che intervengono in Yemen. Credo che per arrivare alla fine del conflitto serva prima che Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Iran trovino un accordo e spingano gli attori locali [quindi soprattutto Houthi e governo internazionalmente riconosciuto, NdT] a trovare una soluzione politica al conflitto.

Soprattutto quando si parla di guerre, si tende a ragionare in termini di parti in conflitto. Cosa succede però al livello dei civili, di chi non ha preso le armi?

Vivono la normalità della guerra, che è fatta di violenza, fame, malattie, difficoltà economiche, perdita di valore della moneta. E ciò vale per tutte le persone comuni. Per spostarsi nel paese, viaggiando ad esempio da Sana’a ad Aden, si ritrovano a dover passare dai checkpoint delle diverse parti in conflitto, dove gli vengono rivolte le stesse domande: perché ti sposti, dove vai, chi visiti. I civili, siano essi Houthi o del Sud o chi vive nei territori del governo, sono tutti uguali e non vedono l’ora che tutto questo finisca.