Mohammed El-Kurd e Wafa Mustafa: un dibattito su Siria, Palestina e narrazione mediatica

La giornalista e attivista siriana Wafa Mustafa e il poeta palestinese Mohammed El-Kurd si sono confrontati al Festival di Internazionale a Ferrara.

13 / 10 / 2022

L’ultima volta in cui Wafa Mustafa ha visto suo padre è stata il 2 luglio 2013, quando è stato sequestrato e fatto scomparire dal regime siriano di Bashar al Saad: sparizioni forzate e carcerazioni sono azioni tipichedel presidente della Siria di agire nei confronti di attivisti e dissidenti politici; basti pensare che dalla presa del potere, avvenuta nel 2011, ad oggi si contano più di 150mila incarcerazioni.

A seguito della scomparsa di suo padre Alì, Wafa e la sua famiglia sono state costrette a fuggire e rifugiarsi in Turchia prima e a Berlino poi. Da allora la giornalista (all’epoca ventitreenne) non ha più avuto notizie di suo padre e ha iniziato a combattere non solo affinché un giorno possa rivederlo ma anche per cercare di porre fine alle sistematiche sparizioni forzate.

Nel dibattito tenutosi in occasione del Festival di Internazionale a Ferrara, focalizzato in particolar modo sulla situazione di Siria e Palestina, Wafa ha tenuto prima di tutto a chiarire che «in Siria non è in corso una guerra civile, ma una vera e propria guerra nei confronti dei civili. Dopo le rivoluzioni molti Paesi hanno iniziato a guardare alla Siria per i propri interessi; per prima la Russia, e successivamente altri stati come Iran, Usa e Turchia. La guerra contro i civili è tuttora in corso poiché loro hanno deciso che lì avrebbero dovuto svolgersi i loro interessi.  Mio padre è in carcere non per una guerra civile ma perché è stato deciso che lì deve esserci una dittatura».

E sempre come portavoce di un popolo oppresso - stavolta quello palestinese - è poi intervenuto il giornalista e poeta Mohammed el Kurd. Come per Wafa, anche per lui la situazione sociopolitica del proprio Paese è chiara e ben definita: la Palestina sta vivendo da oramai 70 anni violenze sistematiche, persecuzioni e occupazione illecita di territori da parte degli israeliani. «Essere dalla parte giusta della storia - dice Mohammed - è rescindere ogni relazione col governo israeliano e prendere posizioni istituzionali nette nei suoi confronti».

Afghanistan, Siria, Palestina, Yemen, sono solo alcuni dei territori mediorientali dove da anni si consumano guerre e persecuzioni nei confronti di civili. Lo sguardo occidentale, si sa, fatica a trovare (spesso deliberatamente), canali di contatto di solidarietà nei confronti dei migranti provenienti dalle zone appena citate. Grazie alla moderazione della giornalista Catherine Cornet, e all’intervento del politologo francese Olivier Roy nel corso del dibattito si è parlato anche della prospettiva eurocentrica attorno a cui ruota la percezione - e la conseguente sensibilità da parte delle persone – sui migranti; in particolare, si è parlato della costruzione narrativa creata riguardo i profughi ucraini in fuga dal proprio paese e di come la loro storia potrebbe cambiare il nostro sguardo sul Medioriente.

Nonostante, secondo il politologo Roy, alla base delle due situazioni vi siano presupposti diversi - «le forze occidentali in Medioriente non hanno mai invaso per liberare popolazioni o instaurare governi democratici, sono al più decisioni che hanno preso dopo aver invaso. Nel caso ucraino, invece, era già presente un assetto democratico. Inoltre, temiamo pure i russi che minacciano le nostre infrastrutture, come gasdotti e oleodotti, e questo incentivo all’azione, che non abbiamo nei confronti del Medioriente, sta creando un divario ancora maggiore tra noi e i territori mediorientali» - abbiamo assistito a tentativi di convogliare le istanze dei rifugiati di ogni paese, cercando un linguaggio che si facesse portavoce di diritti umani universali.

Un esempio ne è la compartecipazione di Wafa a manifestazioni organizzate da attivisti ucraini, i quali hanno invitato la giornalista siriana parlare e a far conoscere la sua storia al fine di creare una nuova narrazione esente da gerarchizzazioni basate sui paesi di provenienza, smettendo finalmente di fare una distinzione tra rifugiati di serie A (in questo caso gli ucraini, bianchi, civilizzati e democratici) e di serie B (più o meno tutti gli altri, Medioriente, Africa o chicchessia).

Chi invece è poco più che un concentrato di ipocrisia quando si parla di diritti umani è la comunicazione mainstream, dai quotidiani ai social network, nessuno escluso: tra gli altri, recente è un rapporto di Meta dove chiaramente viene comunicato che scene di violenza nei confronti dei palestinesi sono state arbitrariamente oscurate, e a tal proposito Mohammed si esprime così: «non è una questione di ignoranza, i politici sanno bene cosa accade in Siria e Palestina, ma “dormono” col sionismo e hanno scelto di non partecipare. Il linguaggio dei diritti umani diventa quindi ideologico e un’etichetta che possono mettere e levare a loro piacimento. Nei media mainstream viene ignorata la colonizzazione, non si dice che le basi militari vengono costruite, ad esempio, sopra villaggi di beduini. Non si dice perché non si ha interesse nel difendere i territori dei palestinesi, mentre conviene l’espandersi d’Israele».

Riguardo gli effetti della comunicazione mainstream si è espressa anche Wafa: «sin dall’inizio del regime di Assad sono state negate le proteste. Nel 2011 io ero a Damasco a protestare, ma tornando a casa nella tv del regime hanno mostrato immagini dicendo che non erano proteste, bensì persone che ringraziavano Dio per la pioggia. Inizialmente si negava l’esistenza delle proteste, successivamente si diceva che esistessero ma che a prenderne parte fossero solo dei terroristi. E questo lo credono anche nel resto del mondo. Un milione di persone era in strada a protestare, ma la narrazione era tipo "sì ma in Siria non possono essere civili, sono terroristi". Non potete immaginare quanto sia forte e d’impatto questa narrazione. Quotidianamente devo convincere le persone con cui parlo sui social di non essere una terrorista, che mio padre non era un terrorista. Ciò avviene ogni giorno, non solo quando se ne parla sui grandi media. L’occasione dell’Ucraina è un’occasione per dire «guardate è vero, avviene». Noi non chiediamo all’occidente di salvarci, ma di evitare di dire che hanno ucciso terroristi quando in realtà erano civili. Questo è un mio diritto e io non consentirò loro di privarmi di questo».

Al termine dell’incontro, per fugare ogni dubbio riguardo la sua posizione, Mohammed ha detto «il mio nemico, dopo Israele, è il New York Times». Il commento si riferiva in particolare a come è stata trattata la recente scomparsa della giornalista palestinese (con passaporto inglese) Shireen Abu Akleh. A maggio, la giornalista è stata uccisa nel corso di un’operazione militare israeliana, ma prima che ne venisse data conferma da parte dei media si è dovuto aspettare che fosse lo stesso stato di Israele a dirlo: «della morte ha scritto (riferendosi al New York Times, N.d.A) che non si sapevano le cause. Dopo mesi i media ammettono di sapere come è stata uccisa perché lo ha confermato lo stato israeliano, ma noi lo sapevamo e dicevamo da mesi. Questa situazione è dovuta anche da una caduta dei corrispondenti esteri. Loro lavorano otto ore e poi vanno a sorseggiare del vino. Noi siamo sempre lì: per voi sono titoli di giornale, per noi no. Ci devono essere cambiamenti nella stampa mainstream, è inaccettabile aspettare mesi per sapere la verità quando la situazione è chiara. Amnesty International e Human Rights Watch hanno dichiarato che Israele è illegale e pro-apartheid. Ci sono voluti più di 20 anni perché venissero scritte le relazioni e ci sono pure lacune perché le organizzazioni si sono rifiutate di ascoltarci. Arrivano decenni dopo a confermare cose che già sapevamo. I corrispondenti devono fare un passo indietro e capire che non sono loro gli esperti».

Termina infine il discorso ricordando anche di quanto accaduto dopo la morte di Shireen: durante il funerale, infatti, la bara è stata caricata da militari israeliani e quasi fatta cadere a terra.

E se nemmeno i morti vengono lasciati in pace, non c’è da stupirsi se Mohammed prova rancore nei confronti di una narrazione a cui poco interessa avere una giustizia.