Mic check? Eat the bankers for global change!

8 / 10 / 2011

Negli ultimi giorni #OccupyWallStreet è divenuta una delle prime notizie di molte testate internazionali, meno di tre settimane per creare una moltiplicazione di appuntamenti su tutto il territorio statunitense, un coast to coast che ha raggiunto persino la frontiera con il Messico dove anche Tijuana ha indetto un’occupazione.

Come ormai è noto, la rivista canadese Adbusters ha lanciato l’appuntamento settimane fa, tirando un sasso nell’acqua per vedere cosa sarebbe accaduto: il rischio di un triste plof era molto probabile, ma quando non si ha più niente da perdere un tiro a vuoto non è nulla in confronto alla possibilità di un’entusiasmante serie di onde. Il lancio era dovuto ad una semplice domanda: possibile che negli Stati Uniti, dopo ormai quattro anni di crisi, un debito studentesco di gran lunga superiore a quello al consumo, la disoccupazione giovanile al 40%, l’assistenza sanitaria inesistente, salari in caduta libera, non si dà alcuna protesta che possa accendere i conflitti contro l’austerità? Possibile che l’esperienza del Wisconsin sia solo un caso isolato? Inizialmente si è mosso ben poco, qualche decina di persone ha raccolto l’invito per iniziare l’occupazione, pochi e dall’ideologia ben definita: marxisti-leninisti, anti-capitalisti, protagonisti dei movimenti contro la guerra in Vietnam e per i diritti civili degli anni Sessanta, qualche associazione. Nonostante le numerose critiche, più o meno costruttive, avanzate da giornalisti, bloggers o attivisti, tale situazione, piuttosto che indurre molti alla fuga, ha portato alla costruzione immediata di momenti assembleari e gruppi di affinità per raggiungere un obiettivo comune: occupare Wall Street. 

Ma quali sono gli elementi che hanno contribuito al successo dell’occupazione?

Lo scorso anno, abbiamo assistito a diversi tentativi di riproporre il modello delle acampadas spagnole in altre metropoli della vecchia fortezza Europa, purtroppo con scarsi risultati se pensiamo alle poche decine di spagnoli all’estero che avevano occupato la piazza romana, o le poche centinaia che si erano radunate a Trafalgar Square mentre migliaia di giovani e precari occupavano Fortnum&Mason nel cuore della City. Lo stesso obiettivo delle banche era già stato riproposto da US Uncut (gemella dell’omonima inglese) la quale, però, non ha prodotto quell’effetto moltiplicatore proprio di Zuccotti Park, poi ribattezzata Liberty Plaza dagli occupanti. In breve, la riproposizione del modello tout court è stata cestinata in poco tempo persino dal paese della standardizzazione, lasciando il posto ad una proliferazione di desideri e dibattiti, una composizione eterogenea di singolarità sparse, collettivi vari e associazioni che hanno individuato “nell’utilizzatore finale” delle loro vite la controparte da attaccare. 

Guarda il video dei banchieri di Wall Street mentre brindano alla faccia degli occupanti: 

Come scriveva Alberto De Nicola analizzando i riot londinesi di questa estate, i mercati finanziari e i tumulti sono l’alto e il basso delle pratiche di governo. L’obiettivo, nel paese che ha acceso la crisi con la bolla dei subprime, non poteva essere una piazza o una banca, ma l’artefice stesso dello sfruttamento che continua a speculare sull’indebitamento di milioni di persone: “Occupy Wall Street until its ours!” In questo confronto diretto tra potere finanziario e il restante 99% tentano di inserirsi gli obamiani speranzosi di poter restituire al “Yes, we can” un potere di mediazione con lo scopo di ottenere la rielezione alle presidenziali ormai alle porte. È però evidente che, di fronte ad affermazioni come “We’ve had an Arab Spring. Now we’re hoping for an American Fall—and the fall of the American empire” i democratici dovranno fare molto di più che sostenere le ragioni degli occupanti.

Al contempo, altri elementi hanno contribuito a qualificare Liberty Plaza come qualcosa di differente dalla semplice riproposizione del modello acampadas, permettendo la stessa moltiplicazione degli #Occupy in tutto il territorio statunitense. Innanzitutto, the people of 99%, si sono riappropriati della possibilità di dibattito pubblico sulle proprie condizioni di vita attraverso la rottura del controllo sociale e la costruzione di una sorta di sentimento del comune ben esemplificata dalla pratica del “mic check”. A New York, oltre ad essere vietati assembramenti da più di 12 persone e l’uso di qualsiasi struttura, come le tende, è anche vietato ogni tipo di amplificazione: come è possiible poter fare un’assemblea in centinaia di persone senza megafono? mic check è il grido che risuona come una litania per prendere parola e, quando una persona afferra l’invisibile microfono dopo averne verificato il funzionamento, “mic check, mic check!” tutti i partecipanti all’assemblea ripetono le sue parole per farle arrivare anche ai più lontani ascoltatori. Una pratica che include immediatamente tutti coloro che decidono di prender parte all’occupazione, un senso di affinità e coinvolgimento che afferma la continua possibilità di resistenza e organizzazione, laddove è vietato persino discutere in un luogo pubblico. Sebbene gli occupanti ripetano costantemente che si tratta di un movimento orizzontale e senza leader, fuori da ogni romanticismo idealizzante, la forza del mic check porta anche notevoli ambivalenze e problematiche: non è per tutti facile appropriarsi dell’impercettibile microfono e la necessità di poter dire solo poche parole alla volta rende praticamente impossibile un dibattito reale al di fuori dei più esigui working groups, quindi, è difficile comprendere come si può costruire un processo decisionale ampio e condiviso. Questi due elementi costituiscono una sfida continua che, negli ultimi giorni, è stata raccolta per tramutarsi in nuova forza. In poche parole, Brooklyn Bridge e not-only-white. 

Le manifestazioni a New York sono a dir poco avvilenti! Prima di tutto, si cammina in migliaia sul marciapiede cercando di evitare lavori in corso, scansando turisti e passanti, mentre quattro elicotteri ti volteggiano sopra la testa, una schiera di poliziotti - davanti dietro e a lato del corteo - ti riprende in ogni istante, camionette ad ogni angolo, una fila serrata di poliziotti in scooter ti impedisce di mettere anche un solo piede fuori dal marciapiede, mentre altri servizievoli mandriani in divisa agitano ininterrottamente le mani per far circolare il branco di manifestanti. Appena si è aperta una possibilità di fuga, tra due spartitraffico posti all’inizio del Brooklyn Bridge abbastanza larghi da far passare una manciata di persone, ma proibitivi per gli scooter, una gioia liberatoria si è diffusa nel corteo e centinaia di manifestanti hanno iniziato la loro occupazione temporanea su uno dei simboli più noti della grande mela: “This is what democracy looks like!” gridano le prime file di studenti, disoccupati, slut- walkers e precari incordonati. “We are beautiful!” rispondono dietro, mentre decine di persone scavalcano le inferiate che dividono il marciapiede dalla strada del Brooklyn Bridge. Inventare nuove pratiche politiche nella larghezza di un marciapiede è quasi impossibile, ma quando tale spazio diventa ampio quanto un ponte si ha una moltiplicazione dirompente delle possibilità e, dopo decenni di contenimento e controllo, un’esplosione di gioia al grido di “Let’s get free”

A questo punto pagine e pagine di articoli si sono sprecate, ne potevano davvero fare a meno, per comprendere se la polizia ha avvisato o meno i manifestanti, agitando addirittura lo spettro della trappola premeditata. I video parlano chiaro, se solo alcuni sono riusciti a sentire la buffa dichiarazione letta da un poliziotto che intimidava l’arresto, la risposta collettiva è stata del tutto chiara: “Whose bridge? Our bridge!” Se ogni rottura della legalità è violenza, allora gli occupanti di Liberty Plaza l’hanno praticata con entusiasmo e consapevolezza, non rinnegando nulla, nemmeno dopo le kettle della polizia, quasi 800 arresti, ore sotto la pioggia in attesa dei bus- gabbia, oltre all’arresto di ragazzini tra i 10 e i 13 anni che hanno partecipato all’occupazione. 

Nelle dieci ore successive siamo stati oggetto di un’estenuante, e quantomai ridicola, burocrazia carceraria: fila per essere ammanettati; attesa sotto la pioggia per salire sui bus; attesa al buio con ironica musica dance da sabato newyorkese; richiesta dei dati personali; fila per scendere dal bus; fila per tagliare le manette di plastica e mettere quelle in ferro; fila per lasciare gli oggetti; fila per essere perquisiti; fila per togliersi le manette; fila per un’altra raccolta dei dati; sette ore in cui 24 persone, in una cella da 5 mq, si alternavano per star sedute dato che non c’era abbastanza spazio; nuova richiesta dei dati; accesa contestazione per la mancanza di acqua e cibo che solo dopo ci sono stati portati; consegna dei ticket con le accuse; fila per uscire con mani dietro alla schiena; altro controllo dei dati; fila per riprendere gli oggetti. In tutto ciò, nonostante l’evidente tentativo di svilire l’entusiasmo e intimidire i manifestanti, nessuno degli arrestati ha pensato di aver sbagliato o ha rimpianto la felice marcia verso Brooklyn, anzi, dopo la liberazione molti sono immediatamente tornati a Liberty Plaza dove, nel frattempo, gli occupanti hanno deciso di sostenere le spese legali con i fondi raccolti nelle settimane precedenti: i rumors parlano di almeno 26 mila dollari donati in poco più di due settimane.  

Lo strumento del mic check è una sfida continua al processo di costruzione di nuova democrazia, ma soprattuto, interroga la composizione stessa dell’occupazione. La middle-class declassata, bianca, “too big to fail” ma comunque abbastanza grande da essere indebitata per il resto della vita, è, al momento, la protagonista indiscussa. Allo stesso tempo, sia la radicalità della manifestazione del primo Ottobre, (proprio il giorno successivo è nato il blog: people of color#OccupyWallStreet) sia l’entusiasmo di giovani black e brown hanno rapidamente cambiato il colore di Liberty Plaza. Un esempio per tutti è la lezione che Hena e Manissa hanno dato ad un ragazzo bianco durante la stesura della  "Declaration of the Occupation"del 29 settembre. Una versione precedente della dichiarazione faceva apparire la “human race” come un’universale astorico, eliminando le relazioni di potere e gerarchie tra le diverse race. Un breve corso di storia del colonialismo, della schiavitù e razializzazione è stato il primo intervento di due ragazze brown che, “mic check” alla mano, hanno modificato il testo introducendo pubblicamente il problema della linea del colore.  

Laddove, la corruzione e il potere della finanza gestiscono le singole vite, costruendo confini e frammentazione, quando non esiste più alcuna rappresentanza nella “Land of the fees and home of the slaves!” la rabbia gioiosa del “Whose streets? Our streets!” riafferma la possibilità di creare uno spazio condiviso e radicale. Che sia l’Egitto di Mubarak o la terra dell’American Dream dove l’unica risposta è la violenza degli spray urticanti o il controllo che riduce all’immobilità poco importa, anzi, sta proprio qui la vertigine della crisi su cui si può costruire il global change: non c’è democrazia post-occidentale senza la diffusione di tumulti transnazionali. 

I gruppi di lavoro si sono moltiplicati, fino ad arrivare agli attuali trenta working groups che si susseguono nella piazza con un brulicare di slogan e proposte d’azione, la libreria pubblica dell’occupazione aumenta sempre più di volume, ogni giorno c’è un’assemblea che raccoglie le istanze di ogni gruppo e due walk out nel distretto finanziario. Liberty Plaza è ora più di uno spazio, perché è la possibilità stessa della proliferazione di nuove pratiche che eccedono lo spazio stesso, è più di un luogo perché rifugge sempre il rischio di trasformarsi in ghetto o coordinamento burocratico. Il cartello portato da un veterano dei marines la dice lunga sulle possibilità di alleanze e cambiamento radicale che l’hashtag #Occupy può creare nella società statunitense: “È la seconda volta che lotto per il mio paese, è la prima volta che conosco il mio nemico.” 

La manifestazione del 5 ottobre, partecipata da più di venti mila persone e lanciata da circa sessanta sigle tra sindacati, associazioni e studenti delle università newyorkesi, si unisce all’occupazione di Wall Street segnando l’apertura di una nuova fase. La risposta della NYPD, invece, rimane la stessa: quando centinaia di persone hanno tentato di manifestare al di fuori del sidewalk, la polizia ha utilizzato manganelli e pepper spray arrestando almeno una ventina di giovani.

Non siamo di fronte al riot londinese, né alla primavera araba, ma le sfide che Liberty Plaza sta raccogliendo con entusiasmo segnano il netto rifiuto delle politiche di austerità e del controllo sociale, la tensione a lanciare slogan chiari e inclusivi ma non universalistici, la diffusione di proteste disponibili alla radicalità che non intendono fermarsi, piuttosto, prefigurano la possibilità di un nuovo paesaggio di trasformazione. Nessun programma, ma visions e solutions che lanciano un messaggio chiaro: “Start the war! Eat the rich!”

Claudia Bernardi, Unicommon - Roma

Scarica l' intervista di Claudia Bernardi da NY a cura di CitizenU

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