Lottare contro il cambiamento climatico «tocca a tutti, in proporzione
differente certo, ma tocca a tutti perché (noi paesi “poveri”) siamo i
più colpiti». Con queste parole, il presidente messicano Felipe Calderón
ha inaugurato la cerimonia di celebrazione della Giornata mondiale
dell’ambiente dello scorso 5 giugno. E, incitando i presenti «ad
accelerare il passo» in tale direzione, ha continuato: «Il Messico ha
rotto il paradigma e il pregiudizio secondo i quali la lotta per frenare
il cambiamento climatico è solo una questione dei paesi sviluppati».
Calderón ha inoltre criticato coloro che «nell’ambito internazionale
prendono decisione senza la consapevolezza del cambiamento climatico,
nonostante le tragedie causate dall’aumento di inondazioni, uragani e
tornado». Infine, orgoglioso, ha aggiunto: «Il governo (messicano) va
nella giusta direzione nella difesa dell’ambiente: in dieci anni, dal
1990 al 2000, si perdevano 350 mila ettari di boschi all’anno; oggi se
ne perdono solo (sic) 155 mila».
Belle parole: mentre il presidente parlava così però, il Messico di
sotto, quello delle comunità indigene e della popolazione delle aree
rurali messicane, continuava a vivere un’altra realtà. Il 2 giugno, per
esempio, il Comitato «Salviamo Temacapulín, Acasico y Palmarejo», che si
oppone ormai da diversi anni alla costruzione della diga El Zapotillo
nello stato occidentale di Jalisco, ha ricevuto un colpo importante alla
sua battaglia. La diga, prevista sul Rio Verde, allagherà circa 12mila
ettari di terre nelle tre municipalità citate, costringendo a evacuare
oltre mille abitanti permanenti e altri 3.000 stagionali. Dopo anni di
scontro – anche fisico – tra le comunità colpite dal progetto e le
autorità messicane dei diversi livelli di governo, era riuscito a
istituire un tavolo di dialogo. Difficile per le continue pressioni, ma
pur sempre un dialogo. E invece, inaspettatamente, il 2 giugno, tre
giorni prima che Calderón rivendicasse la «giusta direzione» verso cui
si muove la politica ambientale messicana, il ministero degli interni ha
sospeso il dialogo. «Il progetto El Zapotillo si farà», non ci son
santi. In barba non solo alle rimostranze delle comunità colpite, ma
soprattutto dei danni ambientali previsti da numerosi studi realizzati
in merito.
Allo stesso tempo, è scoppiata l’ennesima protesta contro l’industria
mineraria, principalmente in mano delle imprese multinazionali canadesi.
Le comunità indigene huicholes, del nord del paese, riunite nel Fronte
di Difesa Wirikuta Taamatsima Waaha, esigono l’immediata cancellazione
dei 22 permessi concessi dallo Stato messicano all’impresa First
Majestic Silver Corp. I permessi, denunciano gli indigeni, permettono
all’impresa canadese l’esplorazione e lo sfruttamento «a cielo aperto»,
pratica industriale mineraria che ha abbondantemente dimostrato la sua
capacità distruttiva non solo di ampi territori ma anche delle risorse –
soprattutto idriche – che vi si trovano.
Ed allora, vale la pena ricordare quanto si diceva in Messico qualche
mese fa, giustamente prima della riunione di Cancún. Andrés Barreda,
accademico dell’Università Nazionale Autonoma del Messico e membro
dell’Assemblea Nazionale Vittime Ambientali, diceva che «in Messico il
vantaggio competitivo sul piano degli investimenti stranieri non è più
il salario. Su questo, la Cina ci batte ampiamente. Piuttosto si tratta
della deregulation ambientale». La possibilità di poter inquinare e
distruggere l’ambiente senza limite alcuno, è una condizione che non ha
prezzo. Dighe, miniere, ma anche industria chimica e agroindustria
dilagano senza limite alcuno nel paese. È questa la «giusta direzione»
di cui parla il governo messicano?
Messico - Ipocrisia ambientale in Messico
10 / 6 / 2011