Se l'Egitto è sull’orlo di una guerra civile lo si potrà comprendere nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, certo è quella di ieri sarà un passaggio di riferimento, nel bene e nel male, per l’ampiezza e profondità delle lacerazioni sociali prodotte.

Mattanza in piazza e caos istituzionale

di Bz
9 / 7 / 2013

In Egitto quella di ieri è stata una giornata tesissima: dal primo mattino sulle agenzie si rincorrevano le notizie degli scontri in corso tra manifestanti ed esercito davanti al quartier generale della Guardia Repubblicana, prima 30 morti di cui 3 bimbi, poi 35, 40, nei telegiornali serali saliti a 70, infine, quest’oggi, si da la versione ufficiale di oltre 50 morti e 500 feriti: una strage che segna uno spartiacque nelle tumultuose vicende della ‘primavera araba egiziana’ come già era avvenuto un’altra ‘primavera’, 2 anni fa, quella siriana, il cui seguito è sotto gli occhi di tutti.

L’establishment dell’Egitto è sull’orlo di una crisi: dopo la liberatoria ripresa di parola nelle piazze del Cairo e delle altre città della moltitudine metropolitana, dopo il golpe delle esercito – vero grumo di potere economico e politico - che ne ha declinato a suo uso e consumo le spinte, le vie d’uscita alla deposizione di Morsi si sono accavallate, fino a scomodare uno dopo l’altro i ras politici, cresciuti con Sadat, Mubarak all’ombra degli accordi filo americani ed occidentali seguiti alla guerra del Sinai con Israele a garanzia di uno sviluppo economico tutelato dall’esercito. Tali sono El Baradei, el Din, il presidente ad interim Mansour, estratti dall’esercito nella nomenclatura dell’accreditamento internazionale ma se questo ha tranquillizzato le governace del potere non ha pacificato le piazze, anzi ha prodotto il ricompattamento di tutto il blocco politico/partico islamico, al Nour – espressione dei salafiti – è ritornato a fiancheggiare i Fratelli Mussulmani di Morsi, al punto che l’esercito ha buttato la maschera: attraverso il suo portavoce ha dichiarato a reti unificate che non verranno tollerate altre manifestazioni  e che si terrà un referendum sui punti controversi della Costituzione provvisoria, punti che sono stati il pretesto per la deposizione militare di Morsi ed entro 6 mesi nuove elezioni. Basterà questa promessa, questa minaccia? Non lo pensiamo.

Se l'Egitto è sull’orlo di una guerra civile lo si potrà comprendere nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, certo è quella di ieri sarà un passaggio di riferimento, nel bene e nel male, per l’ampiezza e profondità delle lacerazioni sociali prodotte. L'esercito ha sparato all'alba di ieri contro una manifestazione di sostenitori del deposto presidente Morsi che voleva invadere la caserma della Guardia Repubblicana dove si ritiene sia trattenuto, facendo una mattanza. Il partito Libertà e Giustizia di Morsi (espressione dei Fratelli musulmani) ha lanciato un appello alla sollevazione popolare. Due soldati in mattinata sono stati catturati dai partigiani dell'ex presidente e costretti a fare una dichiarazione pubblica contro le forze armate. La mattanza avviene all'alba, e come succede sempre in guerra, ognuno la racconta a modo suo. Per l'esercito, un "gruppo terrorista armato" dà l'assalto a una caserma della Guardia repubblicana. Un ufficiale rimane ucciso, una sessantina di militari feriti, sei dei quali in modo grave. Soldati e poliziotti reagiscono con le armi e riescono a impedire agli assalitori di invadere la caserma, mettendoli in fuga ma facendo, contemporaneamente, vacillare tutto il lavorio di accreditamento ed aggiustamento politico operato fino ad ieri dall’establishment di potere a braccetto con l’esercito.

Quello che si sta declinando in Egitto ma che con differenze e peculiarità proprie investe tutto il mondo arabo è un processo di transizione, di rivoluzione sociale che può essere paragonata – mutate mutandis – alla rivoluzione europea del 1848, con le diverse declinazioni nazionali che la ha caratterizzata, come ci ricordato con grande sintesi Toni Negri nell’incontro al Sherwood Festival, ieri notte.

L’implosione dei cardini societari nel mondo arabo, dalla famiglia alla gestione del potere, passando per produzione e redistribuzione del reddito, della destrutturazione in atto, della ineludibile richiesta di giustizia e libertà che animano le rivolte e i tumulti metropolitani – soprattutto – del mondo arabo islamico: una uscita segnata dall’imposizione teocratica islamica non può, con tutta evidenza, essere la risposta adeguata alle spinte sociali emerse, la potenza dei social net, l’esigenza politico economica della globalizzazione stessa la negano.

Certamente non si può sorvolare sul portato di 1400 anni di islamismo con la mutazione antropologica sociale propria che inducono le fedi religiose così come la paura del cambiamento nella vita vissuta concretamente: i passaggi elettorali in Tunisia, in Egitto, hanno sottolineato come sia difficile dismettere il plafond di certezze conosciute e ribadite a fronte dei una possibile trasformazione sociale, altrettanto antropologica e paradigmatica, radicale.

La conservazione è una garanzia, il conosciuto una sicurezza ma non per le giovani generazioni arabe.

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