Malaysia - La corsa a ostacoli di un paese al bivio

Kuala Lumpur perde terreno rispetto alle dinamicissime Indonesia, Vietnam, Laos e Thailandia. Il governo promette riforme ma privilegia i «bumiputra» e alimenta lo scontento delle altre componenti della società. Il mix di populismo e dirigis

25 / 7 / 2010

People first, performance now. La gente al primo posto, la produttività ora. È lo slogan della campagna governativa «1Malaysia» varata dal Primo Ministro Najib Tun Razak, in carica dall'aprile dello scorso anno. 1Malaysia, nell'ideologia di governo, è il segno del nuovo corso, di quel cambiamento che per realizzarsi ha bisogno del consenso popolare e della ripresa di un'economia che dopo la crisi di fine 2008 stenta a ripartire. Un pacchetto di stimoli da 67 miliardi di ringgit (circa 16,5 miliardi di euro) non è bastato a sostenere la crescita del Paese che nel 2009 ha visto il Pil perdere l'1,7% rispetto all'anno precedente. Con il decimo Piano quinquennale di Sviluppo Economico, il governo punta ad attrarre nuovi investimenti, in calo negli ultimi dieci anni. Dalla crisi asiatica del 1997, la Malaysia sta progressivamente perdendo il proprio appeal su investitori privati e stranieri che le preferiscono realtà più dinamiche come Indonesia e Vietnam, o anche Laos e Thailandia. «Il governo - afferma William Leong Jee Keen, deputato del Parti Keadilan Rakyat, il Partito della Giustizia del Popolo, il maggiore partito di opposizione - non sta creando le condizioni per attrarre investimenti stranieri e privati, perché l'economia è ancora imbrigliata dai privilegi di cui godono i bumiputra». Quello dei privilegi di cui gode l'etnia maggioritaria del Paese, composta dai malays e dalle altre etnie minori indigene, è il nodo cruciale da sciogliere per rimettere in moto il Paese. Dal 1970, con il varo della New Economic Policy, ad opera di Abdul Tun Razak, padre dell'attuale Primo Ministro, i bumiputra (parola che significa «principi del territorio») hanno goduto di agevolazioni fiscali e di contratti favorevoli rispetto ai cinesi e agli indiani, etnie minoritarie. Gli aiuti del governo si sono tradotti in prestiti a basso interesse, mutui a tasso agevolato e incentivi per la formazione all'estero (Inghilterra, soprattutto). Anche il mercato azionario vede i bumiputra in netto vantaggio rispetto agli altri cittadini. Per essere quotata in Borsa una società deve avere un presidente malay, così come malay deve essere almeno il 30% del capitale. Nonostante l'occhio di riguardo del governo per gli autoctoni, ancora oggi, l'economia malaysiana vede protagonisti indiscussi i cinesi. «Najib - spiega Ong Ooi Heng, capo del settore Ricerche dell'opposizione - assicura una maggiore re-distribuzione del reddito con la nuova manovra, ma in realtà non dice nulla di concreto sull'abolizione delle quote a favore dei bumiputra». Gli obiettivi posti dal governo per il nuovo corso sono ambiziosi: un tasso di crescita compreso tra il 4,5% e il 5,5% entro il 2015, spese per lo sviluppo per 230 miliardi di Ringgit (circa 56,8 miliardi di Euro) e nuove infrastrutture che prevedono tra l'altro la creazione di un nuovo distretto finanziario a Kuala Lumpur. Obiettivi irrealistici per l'opposizione, che giudica con sospetto l'ingerenza del potere politico in economia. «La campagna 1Malaysia e il Decimo Piano di sviluppo - afferma senza giri di parole William Leong - sono segnali che stiamo andando verso una deriva comunista, perché è lo Stato che mette in moto l'economia e allo stesso tempo cerca consenso attraverso una campagna di pura propaganda». Gli osservatori stranieri vedono nella miscela di populismo e dirigismo del governo di Kuala Lumpur la risposta non dichiarata alla crisi di consenso che alle ultime elezioni ha visto l'Umno, lo United Malays National Organization, il principale partito dello schieramento di maggioranza, vincere ancora una volta la sfida elettorale, ma perdere seggi a favore dell'opposizione radunata attorno al Parti Keadilan Rakyat di Anwar Ibrahim che non ha mai smesso di denunciare la corruzione endemica del governo delle altre forze politiche della maggioranza.Scontata la condanna a sei anni di carcere per corruzione, accusa poi rivelatasi falsa, e riconquistato un seggio al Parlamento, Anwar è tornato a guidare le forze che si oppongono al governo Najib. Il ritorno di Anwar sulla scena politica nazionale ha ridato vigore a un'opposizione formata da partiti molto diversi, per non dire in netto contrasto tra loro, come il Democratic Action Party, Dap, di impronta democratica e laica, e il Pas, il Parti Islam se-Malaysia, che mira alla creazione di uno Stato Islamico. Anwar sfida il governo sui grandi temi della libertà di stampa, dell'indipendenza del potere giudiziario dalla politica e della giustizia sociale, minacciata dall'Isa, il famigerato Internal Security Act che permette la detenzione di qualsiasi cittadino a tempo indeterminato anche senza prove a suo carico.Proprio contro l'Isa, nel luglio 2009 a Kuala Lumpur ventimila cittadini hanno sfilato in una delle più grandi manifestazioni di protesta contro il governo. Dopo la repressione della rivolta da parte della Polizia, seicento di loro sono finiti in carcere. Manifestazioni come questa sono il segnale che il malcontento della popolazione ha raggiunto il livello di guardia e che misure importanti in materia di equità e sviluppo non sono più rimandabili, pena la perdita di competitività sul piano economico e di consenso su quello politico. I giovani di Kuala Lumpur lo hanno capito da tempo: in molti casi, chi ha potuto studiare all'estero, ha poi deciso di rimanerci. La fuga di cervelli dalla Malaysia è un fatto assodato, ma in vertiginoso aumento negli ultimi anni. Nel 2007 erano 140mila i cittadini malaysiani che avevano deciso di lasciare il Paese. Il numero degli emigrati è più che raddoppiato nei due anni successivi. Singapore, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Canada, Gran Bretagna, le mete preferite. Non sono solo condizioni di vita migliori e salari più alti a determinare la fuga dei cervelli: tra le motivazioni degli emigrati c'è anche la ricerca di una tolleranza religiosa spesso negata in patria. Dal 2008 l'Islam in Malaysia, denuncia Amnesty International, ha accelerato il suo processo di politicizzazione. Le conversioni verso altre religioni sono state punite con il carcere dalle corti islamiche presenti nel Paese. Ma non c'è posto per istanze sociali nel nuovo corso malaysiano. I nuovi imperativi sono: "crescita", "sviluppo", "qualità della vita". Il tentativo è quello di potere nascondere ancora una volta sotto il tappeto i conflitti sociali, in nome di una ritrovata prosperità. Per non perdere il sostegno popolare Najib gioca la carta della ripresa economica e del nazionalismo, cercando allo stesso tempo di non scontentare lo zoccolo duro dei suoi sostenitori, quei malays che da quaranta anni godono di maggiori attenzioni rispetto alle altre etnie. E dalle zone strategiche della capitale il suo sorriso lieve chiede una fiducia che per la prima volta nella storia recente del Paese sembra essere messa seriamente in discussione.

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