Lotta contro il coronavirus: se le donne si fermano, le mascherine cadono

8 / 5 / 2020

Proponiamo la traduzione di Jessica Borotto dell'articolo di Manon Legrand, «Lutte contre le coronavirus : si les femmes s’arrêtent, les masques tombent»  (Axelle, N° 228, Avril 220). Axelle[1] è una rivista femminista indipendente belga nata nel 1998 in seno all’associazione femminista Vie Féminine[2]e composta da un collettivo di giornalist* indipendenti. 

Gli appelli alla creazione di mascherine si moltiplicano: per iniziativa dei cittadini, ma anche per richiesta del governo. In tutto il Belgio, le donne, per lo più sarte professioniste o appassionate di cucito, hanno tirato fuori le loro macchine da cucire per far fronte alla penuria di mascherine. Una mobilitazione collettiva e solidale. Una forza lavoro che il più delle volte è gratuita per rispondere alle carenze dello Stato. Le donne hanno un grande cuore. Ma sviluppano anche un certo risentimento

Da quasi un mese ormai tutto il paese palpita al ritmo delle macchine da cucire. Gruppi di solidarietà sono sorti ovunque, da Bastogne a Nieuport, sulla spinta dell'arrivo del Covid-19 e della scarsità di mascherine. La maggior parte delle donne, di tutte le età, sarte dilettanti o professioniste, si sono organizzate, hanno tirato fuori le loro Singer, e cuciono e ricuciono per far si che, dal loro soggiorno o dalla loro cucina trasformati in un laboratorio improvvisato, escano mascherine al fine di proteggere la popolazione, in priorità coloro che sono in prima linea: infermiere, cassiere, personale di case di riposo, agenti di polizia, ecc.

Su Facebook sono stati creati diversi gruppi per riunire le persone di buona volontà e centralizzare le innumerevoli richieste di mascherine. Masque Tissu–Solidarité Coronavirus— Belgique[3] riunisce tutte le iniziative; #sewfreemasks è una di queste, lanciata da due designer. Sandrine Cuzon, una ristoratrice temporaneamente "riconvertita", si occupa della logistica di #Sewfreemasks e consegna le mascherine a negoziant*, farmacist* agent* di polizia, senzatetto e personale in prima linea a Bruxelles e dintorni.

Sandrine Cuzon dice: “L'idea è venuta ai designer una quindicina di giorni fa, in reazione alla carenza di mascherine. Oggi abbiamo una ventina di sarte in azione, molte delle quali professioniste, anche in pensione. Alcune producono venti mascherine al giorno, altre trenta alla settimana, dipende. Siamo sommerse dalla domanda”. Per fornire le mascherine, Sandrine Cuzon gira senza sosta con la sua auto, che è stata trasformata in una merceria mobile. Non si lamenta di questa "nuova vita". “Lavoro almeno quanto prima. È la crisi, dobbiamo agire. Le mascherine sono gratuite. Non siamo un'azienda, ma una catena di solidarietà”, dice.

Empowerment e solidarietà

Anche Charlotte ha iniziato a cucire le mascherine. “Sono costumista di professione, attualmente sono alla ricerca di un lavoro. Data l'attuale situazione economica, è impensabile ottenere un contratto per molto tempo: il nostro lavoro è direttamente legato alle arti dello spettacolo, e quindi al pubblico! Mi sono subito posta la domanda di cosa avrei potuto portare alla società con la mia esperienza, sapendo che dovevo rimanere confinata a casa. Appena ho visto sui media quanto il nostro personale sanitario fosse a corto di mascherine, mi sono detta: ecco, ho trovato!” spiega lei.

Charlotte lavora circa cinque ore al giorno, sette giorni su sette. Le sue mascherine sono per lo più gratuite. “Le do al personale sanitario. Le ho distribuite anche ai negozianti che mi hanno gentilmente ringraziato con un bel panino, frutta o anche prosciutto! È vero che chiedo aiuto a chi può, sotto forma di partecipazione con del tessuto, con degli elastici...".

Altri gruppi hanno organizzato appelli per donazioni o raccolte di tessuti ed elastici. La maggior parte delle iniziative sono gratuite. Per avere un'idea del prezzo "giusto", il gruppo Masque Tissu – Solidarité – Coronavirus ha fatto un calcolo approssimativo del costo dei materiali per realizzare una maschera: 3,50 euro.

"Rendersi utili durante il confinamento", "rimanere attive", "fare la propria parte" sono le motivazioni più comuni invocate dalle donne che intraprendono il confezionamento di mascherine. Charlotte dice: 

“Provo una sensazione decisamente positiva nel vedere il riconoscimento, la felicità negli occhi delle persone che vedono che ci sono altre persone che vogliono prendersi cura di loro... Ti senti un po' come una Wonder Woman.” 

Christie dice: “La buona volontà e l'altruismo sono cresciuti in modo esponenziale dall'inizio del confinamento. Intendo continuare così per tutto il tempo necessario.”

Internet è diventata una comunità vivace e rinvigorente per tutte queste produttrici di mascherine. Ci sono tutorial, consigli e astuzie sui social network. Vi si condividono i problemi e le soluzioni. 

A volte è difficile orientarsi tra i diversi modelli di mascherina. Alcune si basano sul modello sanitario FPS[4], altre preferiscono il modello dell'ospedale universitario di Grenoble[5], o quello coreano... Ma tutte queste mascherine chirurgiche "fatte in casa" hanno in comune il fatto di non essere mascherine FFP2, il modello ufficialmente accettato negli ospedali che filtra particelle molto piccole. Tuttavia, le mascherine in tessuto sono essenziali per limitare la diffusione, agiscono come una "barriera meccanica" che aiuta a contenere l'epidemia, come ha ricordato la specialista in malattie infettive Charlotte Martin al set RTBF[6].

Un appello regionale mal digerito

Tutte le sarte con cui siamo state in contatto affermano l'importanza di mobilitarsi e di offrire le proprie competenze per proteggere e curare gli altri. Ma molte di loro sottolineano anche l'irresponsabilità dello Stato. Christie è indignata: “Noi cittadin* dobbiamo compensare l'incompetenza dello Stato con i nostri mezzi, quando milioni di mascherine scompaiono misteriosamente dalle scorte, e gli ordini urgenti per il personale sanitario non arrivano...”[7].

Una settimana fa, la Regione di Bruxelles ha lanciato un appello per cucire le mascherine[8]. “Dieci giorni fa, venendo a sapere che c’erano dei problemi legati alla consegna delle mascherine, la mia compagna, che lavora in un ospedale psichiatrico, mi ha espresso il bisogno fare qualcosa”, spiega Emmanuel Mossay, responsabile dell'economia circolare di EcoRes. Senza esitare, questo "imprenditore sociale", sostenuto dalla Regione, ha costituito un consorzio per avviare una produzione locale di mascherine. Nell'avventura: EcoRes, MAD, Institut Jeanne Toussaint, Dutra, Urbike e Be Connected. Ma anche Travie, una società di lavoro adattato. Travie si occupa del taglio dei materiali, che vengono poi inviati, tramite la cooperativa di ciclo-consegna Urbike, a una rete di 1.500 volontari* che si occupano del cucito finale. L'obiettivo è quello di realizzare fino a 100.000 mascherine protettive. “Inizialmente avevamo immaginato di produrre tutto tramite Travie, ma le nuove misure ne avrebbero permesso solo una produzione limitata”, continua Emmanuel Mossay.

Barbara Trachte, Segretaria di Stato per la Transizione Economica (Ecolo[9]), difende questo progetto sulle colonne di Le Soir[10]: «Sostenendo questa iniziativa, rispondiamo alle esigenze in termini di mascherine, ma inviamo anche un primo segnale forte in termini di ripresa economica che si tratterà di mettere in atto non appena la crisi sarà finita, produrre localmente e in funzione delle esigenze locali non è solo essenziale per l'ambiente e l'economia, ma è anche vitale in caso di crisi. »

Ripresa economica, rilocalizzazione... Sulle spalle delle donne? Tutt* i.le lavoratorici* di questa catena sono pagat*... tranne le sarte - il 5,6% dei 1.500 volontari* sono uomini, secondo le stime iniziali. Eppure, quest'ultimo anello è essenziale. Annabelle, sarta professionista, è indignata: 

“Perché non pagare le sarte? Sembra che, ancora una volta, la nostra professione sia vista come un passatempo domenicale...”

Ci sembra che sia stato occultato quanto le sarte, come le infermiere, le cassiere o gli spazzini, svolgano una funzione essenziale durante questa crisi. Si stanno impegnando con il cuore e con l'anima per produrre uno degli strumenti essenziali per il retrocedere della pandemia. Tuttavia, molte di queste professioniste si trovano in una situazione socioeconomica precaria. Lo Stato avrebbe potuto scegliere di farle lavorare e sostenerle, se non altro per onorare il loro lavoro, che non è secondario ma necessario.

Anche Philine, studentessa in Costume per lo Spettacolo e coinvolta con il suo compagno nella produzione di mascherine dopo la chiamata regionale, testimonia: “So che è la cosa giusta da fare, perché fuori ci sono persone che ne hanno bisogno, e poi ti dici che fai quello che puoi mentre sei rinchiuso. Ma trovo estremamente frustrante che questa sia la migliore soluzione trovata dai governi del Belgio: ricorrere ad una manodopera non qualificata, non retribuita, senza alcun controllo sanitario, dopo aver tagliato il budget sanitario nel corso degli anni. È scandaloso che non ci siano soldi da investire per riconvertire temporaneamente una fabbrica tessile la quale produrrebbe molto di più e molto più velocemente di noi, in condizioni migliori.”

Emmanuel Mossay risponde che era stata presa in considerazione la richiesta di cucitrici professionali. Ma anche messa da parte... per "ragioni logistiche". “Le professioniste avrebbero dovuto lavorare da casa, senza attrezzature adeguate. Questo sistema avrebbe richiesto molta logistica e ottenuto risultati molto inferiori e meno rapidi rispetto alla massiccia rete di volontari*...”. La sua argomentazione è anche finanziaria: “Più basso è il prezzo, meglio è. Sono i soldi del governo e quindi i soldi dei contribuenti”, sottolinea. Maggie De Block[11], che, come ha rivelato Paris Match il 28 marzo[12], ha rinunciato a tre milioni di mascherine FFP2 e dieci milioni di mascherine chirurgiche che avrebbero potuto essere consegnate in Belgio questa settimana, contava su questo lavoro gratuito?

Emmeline Orban, segretaria generale della piattaforma francofona per il volontariato, minimizza: “Ci sono volontari anche in altri servizi pubblici, come il CPAS[13], ecc. Questo è un momento di crisi, quindi è necessario uno sforzo collettivo e non è il momento di discutere. È dopo che dobbiamo farlo, e fare in modo che gli appelli ai volontari non diventino un'abitudine.”

Un esercito di piccole mani

Lo sforzo collettivo è portato avanti da un gran numero di persone. A Liegi, un gruppo di donne sans papiers confezionano mascherine[14]. Così come i.le detenut* di diverse carceri del paese[15]. Rinomat* designer si sono mess* al lavoro[16]. E anche alcun* sterratorici*[17] si sono convertiti nella produzione di mascherine, ciò che la stampa non ha mancato di elogiare. Per quanto riguarda i gruppi di volontari*, si cerca di motivare le truppe. Per esempio, tramite concorsi: "Cuci le mascherine?! Bravo e grazie! Questo concorso fa per te! Pubblica una tua foto con la tua mascherina fatta a mano in un commento di questo post, e magari vinci una speciale busta da cucito". Si possono leggere anche messaggi degni di una competizione sportiva: "Quante mascherine hai già cucito? Detieni già un record? Quando arriverai a 10.000?" E la comunicazione a volte assume un carattere marziale: "Unitevi all'esercito dei fabbricanti di mascherine Do It Yourself!"

Le donne che confezionano le mascherine sono un esercito di piccole, efficientissime e generose mani. 

Troppo generose? Le parole delle donne mobilitate testimoniano i sacrifici[18] fatti da alcune di loro in questo spirito di solidarietà. Tanto più che il confinamento ha già sconvolto e complicato la loro vita quotidiana, con, ad esempio, la gestione dei bambini che non vanno più a scuola. “Uso le mie lenzuola, perché non ho più tessuto”, scrive uno di loro. “Altre 50 mascherine finite oggi, anche se è difficile con i miei gemelli”, pubblica un'altra. Un'altra donna racconta la storia di “una povera signora in pensione che è stata aggredita su un gruppo di persone in Facebook perché vendeva a 2 euro ogni maschera”. Essendo una pensionata, voleva solo recuperare il prezzo della materia prima perché dispone di pochi mezzi; le sarebbe stato risposto che allora non avrebbe dovuto confezionare mascherine.

Non è facile dire di no.

L'impegno...fino all'esaurimento? Emmeline Orban spiega: “Le donne che producono le mascherine lo fanno di propria iniziativa. Anche se ciò può aggiungere un carico mentale[19] nel loro quotidiano. Penso che questa attività possa fare bene ad alcune di loro, ma c'è anche il rischio che la persona si trovi in una tensione tra il "voglio aiutare" e il "non pongo limiti". Bisogna evitare il burnout del volontariato[20] e di cadere nella trappola di voler essere la buona madre, la buona volontaria, la buona lavoratrice, ecc.” Non c'è una formula magica che permetta alle volontarie di non esaurirsi in prima linea. “Bisogna imparare a dire stop, a dire no.”

Ma come si può dire di no quando si è incoraggiat* a contribuire allo sforzo nazionale, e colpevolizzat* per non averlo fatto, per non aver contribuito abbastanza? Quando un superiore "offre" questa riqualificazione temporanea? Quando si è un* detenut*? Quando si ha l’impressione di "dovere" qualcosa alla società, sensazione che è esacerbata nel caso in cui si disponga di sovvenzioni sociali, ciò che a volte è visto come un lusso piuttosto che come un diritto.

Emmeline Orban avverte: “Chi prende l'iniziativa deve anche tenere a mente un grande principio: non mettere i volontari dove non si metterebbero i dipendenti! L'organizzazione deve anche essere in grado di dire ai volontari che possono tirarsi indietro.” Ma questa possibilità di "dire no" non è menzionata nella lettera inviata a* volontar* dalla Regione di Bruxelles. 

“Quando avete finito di cucire tutte le mascherine in questa scatola, contattateci.” E se non ci si riuscisse?

Emmanuel Mossay ci assicura che le persone possono chiamare e dire che non saranno in grado di raggiungere gli obiettivi richiesti. Inizialmente, i.le volontari* ricevono kit di 50 mascherine. Da raggiungere "idealmente" in una settimana. Le seguenti confezioni contengono il materiale per 200 mascherine. "Ci siamo detti che le persone che sarebbero rimaste nel progetto ci avrebbero preso la mano", spiega Emmanuel Mossay. Purtroppo, il messaggio non sembra essere ben accolto da* volontari*.

Una di loro spiega che le è stato chiesto per telefono se potesse lavorare otto ore al giorno... Un'altra ci dice che non è stato fatto alcun accenno ad un possibile ritiro, ad un limite di qualsiasi tipo. Alcune sono preoccupate: “Mi è stato detto di non richiamare perché le linee sono sature. Mi è stato spiegato che avrei dovuto firmare un documento alla consegna della prima scatola, senza dirmi di cosa si trattava. Ma infondo, non so quante scatole mi si chiederà di assicurare, né per quanto tempo sarò impegnata nel volontariato.”

Una gestione umana "deplorevole", secondo Rebecca (nome di invenzione), che scoraggia le donne: “Finisco per gentilezza le mascherine che mi sono state inviate e poi tornerò all’intento iniziale, che era quello di cucire le mascherine con la mia piccola scorta di stoffa per chiunque me lo chieda. Questo mi insegnerà a fidarmi delle istituzioni, io che sono piuttosto abituata alle piccole iniziative dal basso.”

Contare le ore e presentare il conto allo Stato

Per non "dimenticare" tutto questo "lavoro gratuito" una volta superata la "crisi", Annabelle suggerisce alle sarte di contare le ore piuttosto che le mascherine, attraverso l'hashtag #jecomptemesheures. “Queste donne lavorano senza contratto, senza retribuzione. Non sono assicurate: se hanno un incidente, non sono coperte. Non ci saranno contributi, le ore di lavoro non contano. E se loro stesse non contano le ore, chi lo farà? Il conteggio delle ore è un modo per valutare il regalo fatto da* volontari* allo Stato, che paga per gli ordini effettuati in Cina o in Turchia, ma non esita a sfruttare la forza lavoro locale.” Locale... e massicciamente femminile.

Mentre l'idea di contare le ore non ha avuto molto successo - in nome della solidarietà e dell'urgenza - molte delle donne che hanno testimoniato per Axelle intendono chiedere una risposta dallo Stato dopo questa crisi. “È bello - dice - vedere questa solidarietà nazionale, vedere tutte le persone costrette a cucire per salvare delle vite, fermarsi alle 20 per applaudire[21] lo staff medico e le "prime linee". Ma è un insulto che spetti alla popolazione venire a ripulire il disordine creato da leader incapaci di organizzarsi. Mi dà anche un certo malessere vedere gli ospedali chiedere donazioni alle persone per poter funzionare!” protesta Philine.

Un rivelatore di ingiustizia

La macchina da cucire non è quindi solo il "nuovo simbolo della solidarietà"[22]. È anche rivelatrice delle ingiustizie di un sistema ammalato. “Le infrastrutture non reggono la crisi sanitaria globale che l'1% della popolazione pensa di poter curare a colpi di miliardi di euro. Non sono contenta del disordine e dei morti, ma sono soddisfatta nel vedere i nostri leader rendersi conto dei loro errori”, dice Marie (nome di invenzione), sarta dell'Opera di Parigi. Anche lei dedica la sua vita quotidiana alla realizzazione di mascherine.

Per lei, questa pandemia evidenzia anche l'importanza delle professioni svalutate, compresa la sartoria: “[i nostri dirigenti politici] Non hanno abbastanza per nutrirci, o per prendersi cura di noi. Eppure, hanno i soldi. Ma non sono i soldi che lavorano, sono i corpi. E se non ci saranno più soldi, rimarranno corpi, donne e uomini da nutrire e curare. Sono contenta di poter fare con le mie mani mascherine in tessuto, presto saranno fatte con tende da doccia o strofinacci. Cucire non è più un lusso, o un'attività domenicale...È una necessità: in casa, nell'arte, e oggi più che mai negli ospedali.”

Gli stilisti e le stiliste di moda, gli operai e le operaie tessili, come tutte le altre "manine" della cura e della confezione - lavori necessari, invisibili ieri e applauditi oggi - avranno più che mai il diritto di esigere risposte concrete. Annabelle insiste : “Registrando il numero di uomini, di donne, di professionist*, di non professionist*, quanti giorni, quanti incidenti sul lavoro, ecc. sarà possibile studiare il fenomeno. Per un sociologo o uno storico, senza questi dati, temo che queste persone e il loro lavoro rischino semplicemente di dissolversi nel nulla, di essere dimenticat* come se non fossero esistit* o come se fossero stat* solo un dettaglio della storia della pandemia.”

Un excursus storico può illuminarci. Joseph Joffre, un generale francese della Prima guerra mondiale, fece una battuta nel 1915: “Se le donne che lavorano nelle fabbriche si fermassero per venti minuti, gli Alleati perderebbero la guerra!” Dichiarò inconsapevolmente il grande sciopero guidato dalle "munitionnettes"[23] - circa 500.000 donne che lavoravano nelle fabbriche di armi - e dalle "midinettes"[24] (il nome dato alle sarte) nel 1917; questa "avanguardia proletaria dimenticata dal proletariato" pretese condizioni di lavoro e salari migliori. Se vogliamo far girare la metafora marziale di una "guerra" contro il virus, immaginate per un momento che oggi tutte le persone impegnate nella realizzazione delle mascherine - e più globalmente tutte le eroine mascherate, al fronte, per combattere questa pandemia - smettano, per venti minuti, le loro attività?

Un ringraziamento ad Annabelle, che ha contribuito notevolmente alla realizzazione di questo articolo, e a tutte le donne che hanno accettato di testimoniare.

** Pic Credit: CC Anestiev/Pixabay


[1] https://www.axellemag.be/a-propos/

[2] http://www.viefeminine.be

[3] https://www.facebook.com/diymaskattack/

[4] https://faitesvotremasquebuccal.be/pdf/masquebuccal_20200318_v2.pdf?fbclid=IwAR0GFNA8583EeWQ13t6HUHWOSbBuX-54g_4jEHTK2pkMdrrZWFvE67g50eQ

[5] https://www.ledauphine.com/sante/2020/03/19/les-masques-verites-et-rumeurs-expliquees-par-le-chu-grenoble-alpes?fbclid=IwAR04v_HevksAHHgnwmpDP7PfM7xENzvGBVAzhrS1xvh_AuyfKEDrRQrwCyI

[6] https://www.rtbf.be/auvio/detail_mathieu-invite-dr-charlotte-martin-specialiste-des-maladies-infectieuses-a-lhopital-saint-pierre?id=2595813

[7] https://parismatch.be/actualites/societe/385685/pourquoi-maggie-de-block-a-t-elle-renonce-a-3-millions-de-masques-ffp2

[8] https://plus.lesoir.be/288725/article/2020-03-20/penurie-de-masques-region-bruxelloise-recherche-couturiers-benevoles-pour-lutter

[9] Partito ecologista belga  

[10] https://plus.lesoir.be/288725/article/2020-03-20/penurie-de-masques-region-bruxelloise-recherche-couturiers-benevoles-pour-lutter

[11] Ministra della salute

[12] https://parismatch.be/actualites/societe/385685/pourquoi-maggie-de-block-a-t-elle-renonce-a-3-millions-de-masques-ffp2

[13] CPAS: sta per centro pubblico di azione sociale (centre public d’action sociale), è l’istituzione responsabile degli alloggi sociali, di sovvenzioni economiche e di servizi sociali di vario genere.

[14] https://www.rtbf.be/info/regions/liege/detail_liege-sans-papiers-elles-confectionnent-des-masques-solidaires?id=10460191

[15] https://www.rtbf.be/info/societe/detail_coronavirus-en-belgique-les-prisons-produisent-des-masques-mais-necessitent-de-machines-a-coudre-supplementaires?id=10462818

[16] https://bx1.be/dossiers/coronavirus/le-styliste-jean-paul-lespagnard-vous-apprend-a-coudre-vos-propres-masques/

[17] https://www.dhnet.be/regions/bruxelles/des-ouvriers-du-batiment-recycles-en-couturiers-de-masques-de-fortune-5e7ba159d8ad58163167b733

[18] http://www.denoel.fr/Catalogue/DENOEL/Mediations/La-Femme-et-le-Sacrifice

[19] https://www.axellemag.be/emma-bedeaste/

[20] https://www.axellemag.be/burn-out-militant/

[21] Flashmob organizzato spontaneamente da* cittadin* in Belgio dall’inizio del confinamento, in riconoscimento del lavoro del personale medico-sanitario. Questo tipo di riconoscimento è stato costantemente rifiutato e criticato dai lavoratori stessi e dai collettividi Santé en lutte, perché contribuisce ad alimentare la narrazione di “medic* e infermier* eroi.ne* nazionali”. Questa narrazione occulta in modo subdolo che l’assenza di protezioni, le cattive condizioni di lavoro negli ospedali, i turni spossanti, la carenza delle strutture e del personale sanitario siano responsabilità dei governi recenti.

[22] https://plus.lesoir.be/289502/article/2020-03-23/coronavirus-la-machine-coudre-nouveau-symbole-de-la-solidarite

[23] Termine derivato dal francese «munition», ovvero munizione, con cui si designavano le operaie impiegate nella produzione di armi nella Prima guerra mondiale

[24] Operaie tessili e lavoratrici della sartoria.