Libia, tra negoziati, Stato Islamico e possibile intervento militare

Intervista a Michele Giorgio in merito ai colloqui tra i governi di Tripoli e Tobruk, allo Stato Islamico e ai diversi protagonisti della situazione mediorentale.

5 / 3 / 2015

Pubblichiamo di seguito l'intervista a Michele Giorgio, corrispondente dalla Palestina per Il Manifesto e direttore di Nena News Agency.

Oggi sembra un giorno fondamentale, tutti gli organi di stampa internazionale stanno definendo come “decisivi” i colloqui che in queste ore si stanno svolgendo in Marocco per la formazione di un governo di unità nazionale, ma cosa sta succedendo, davvero, in Libia?  

Dalla Libia arrivano notizie importanti, anche se difficilmente verificabili. Si parla della ripresa della città di Derna a seguito di duri combattimenti contro le formazioni dello Stato Islamico ed anche della ripresa da parte delle milizie di Misurata di numerosi pozzi di petrolio occupati nelle settimane e nei mesi scorsi da parte dell'ISIS. Si tratta di notizie in parte vere ed in parte sicuramente ingigantite, ripeto, difficilmente verificabili con precisione. 

Per quanto riguarda i colloqui diplomatici, il tentativo è quello appunto di creare un unico governo nazionale libico, o per lo meno di intesa e alleanza tra il governo islamista di Tripoli e quello filo-occidentale di Tobruk, con lo scopo dichiarato di opporsi all'offensiva dello Stato Islamico. Se questo dovesse effettivamente avvenire, l'occidente avrà trovato quello che dichiara di voler cercare, ovvero un interlocutore affidabile e questo potrà aprire la strada ad un intervento, anche armato, in Libia.

Credi che l'intervento militare sia effettivamente uno scenario probabile nel prossimo futuro? Abbiamo assistito a dichiarazioni contraddittorie nell'ultimo periodo…

Nelle scorse settimane molti capi di Stato e di Governo europei si sono immediatamente affrettati ad indossare l'elmetto (la nostra Pinotti ad esempio è sempre pronta a schierarsi in prima fila quando si sente parlare di ipotesi di intervento) per poi fare una brusca marcia indietro e riferirsi all'ONU. Tuttavia la situazione in Libia resta assolutamente drammatica e si sostiene che l'ONU abbia tempi troppo lunghi e viaggi a velocità ridotta. Si torna ad invocare la rapidità dell'intervento ed in questo scenario il Consiglio di Sicurezza potrebbe anche dare la propria benedizione ad una nuova alleanza internazionale pensando di risolvere con le armi le questioni interne alla Libia, esattamente come nel 2011. Se poi questo intervento potesse essere presentato come un sostegno ad un nuovo interlocutore, ad un nuovo soggetto politico, come il governo libico unico la prospettiva di una nuova guerra sarebbe sicuramente molto probabile.  

Oggi come allora, invece, bisognerebbe guardare e capire le ragioni di un conflitto interno alla Libia allargando lo sguardo ad interessi e strategie anche nel resto della regione mediorientale, come ad esempio tutta la zona tra Siria e Iraq dove lo Stato Islamico ha occupato e controlla grandissime porzioni di territorio, dove prima si è buttata la benzina ed anche il cerino ed ora qualcuno sostiene di voler fare il pompiere usando ancora una volta la forza invece di capire le cause profonde della situazione in tutta quella regione. 

Una regione in cui giocano molti attori.

Si. Molti attori molto diversi tra di loro. Vediamo piccole potenze regionali come Israele, ad esempio, che in questi mesi gioca il ruolo di portavoce anche di paesi arabi con le quali non ha nemmeno relazioni diplomatiche, ma di cui si proclama protettore contro la minaccia nucleare iraniana (minaccia che gli stessi servizi di sicurezza internazionali, tra cui il Mossad stesso, definiscono molto lontana o addirittura inesistente). Vediamo un paese come l'Arabia Saudita impegnata da due anni nella promozione di un nuovo ordine mediorientale che ha incendiato l'Iraq foraggiando la ribellione sunnita ed attraverso anonimi finanziatori ha sponsorizzato anche i gruppi che si sarebbero poi formalizzati nello Stato islamico, salvo chiaramente poi proclamarsi uno dei paesi aderenti alla coalizione internazionale contro l'ISIS.

La Siria è un paese spaccato in più parti, Damasco riesce ancora a controllare la zona centrale anche se duri combattimenti sono ancora in corso sul fronte meridionale. Il Nord del paese è in mano all'ISIS o al “Fronte al-Nusra”, ramo siriano di Al-Qaida, che nei giorni scorsi ha sbaragliato la milizia Hazzm, il principale punto di riferimento statunitense ed occidentale nel nord della Siria a riprova di quanto sia sbagliata la strategia occidentale che si ostina a finanziare ed armare bande mercenarie nell'impossibile tentativo di trovare l'alleato in grado di spazzare via Assad in un baleno. Poi ci sono i turchi, che da un lato si dichiarano contro il Califfato, ma che poi non muovono un dito. Kobane, a pochi metri dal confine turco ha dovuto liberarsi da sola grazie al coraggio dei combattenti curdi, mentre Erdogan ed il governo turco mantiene una posizione ambigua contro il terrorismo. Una posizione che usa sia contro i curdi che contro il governo di Damasco. 

Sembra che l'occidente non sia in grado di imparare dai propri errori. Come si fa a non vedere come formazioni tipo Al-Qaida o l'ISIS sono il frutto di una politica aggressiva e miope in quelle regioni?

Obama stesso sembra incapace di perseguire altre strategie. L'obbiettivo occidentale in medio Oriente è sempre stato il controllo, il dominio, ottenuto con l'esercizio della forza. Quando è stato abbattuto Saddam, un dittatore che con il pugno di ferro schiacciava la maggioranza sciita del paese, le forze anglo-americane hanno regalato il paese agli sciiti che da subito hanno iniziato ad adottare politiche dure contro la minoranza sunnita innescando una situazione esplosiva. Alle  forze che con soldi e armi in Medio Oriente agiscono dietro le quinte (l'Arabia Saudita ed il Qatar, ad esempio) venne lasciato ampio margine di manovra. Quando scoppiarono le prime proteste nelle zone irachene a maggioranza sunnita l'Arabia Saudita fomentò e finanziò le rivolte con il preciso scopo di destabilizzare il paese contro l'ipotesi di abbandono da parte di USA e Gran Bretagna, contribuendo notevolmente alla nascita delle formazioni islamiste che avrebbero poi fondato lo Stato Islamico. Senza minimizzare le responsabilità del regime di Damasco, ma le conseguenze di questa politica sono quelle oggi visibili in Siria. Che ci siano interessi per nulla legati alla democratizzazione (concetto assolutamente sconosciuto nell'Arabia Saudita che viola costantemente diritti fondamentali senza che nessuno in occidente dica qualcosa) e alla liberazione siriana è del tutto evidente.

E poi c'è l'Egitto…

Esatto. Lì era salito al potere un governo ed una presidenza islamista che aveva instaurato buone relazioni con l'occidente. Ricordiamo le aperture da parte della Fratellanza Musulmana assolutamente accolte dagli Stati Uniti in primis che aveva addirittura regalato qualche F-16 al governo dei Fratelli musulmani. Ma quando questo Islam politico cooperante con l'occidente veniva rovesciato da un sanguinosissimo colpo di stato provocando migliaia di morti nell'estate 2013 è chiaro che la parola passa inevitabilmente alle formazioni più radicali e sanguinarie che oggi occupano buona parte del Sinai e che si proclamano affiliate o aderenti allo Stato Islamico.

Tutto ci parla del completo fallimento delle strategie occidentali e degli alleati arabi in tutti questi anni di conflitto. Non solo non si vogliono affrontare gli errori, ma si vogliono ripetere identici,  come ci apprestiamo a fare in Libia dove tra qualche settimana o qualche mese si prospetta un nuovo intervento armato che avrà naturalmente nel mirino la salvaguardia dell'export delle estrazioni petrolifere libiche e per quanto riguarda l'Italia c'è tutta la partita immigrazione e la volontà di fermare una presunta ondata di migranti che anche le organizzazioni internazionali sulle  migrazioni considerano “sostenuta” ma non certo “allarmante”.