Libia - Il cimitero dei martiri e il disertore di Ijdabiya

27 / 3 / 2011

Saleh Khamis Elanuani era venuto a portar via la famiglia di suo zio dall'inferno. All'ultimo check point controllato dai ribelli l'avevano avvertito dei rischi, ma non aveva altra scelta. Doveva portarli via prima che i miliziani di Gheddafi prendessero il controllo della città. Sono passati tredici giorni da allora e la sua macchina Toyota Camry bianca, è ancora ferma sul ciglio della strada davanti alla moschea della porta est della città. La portiera aperta, crivellata di colpi. Saleh invece giace senza vita in una cella frigorifero dell'ospedale di Ijdabiya. Quando Abdallah gli solleva il lenzuolo dal volto, mi giro dall'altra parte per allontanare dagli occhi l'immagine del cervello che gli esce da dietro la testa. Gli hanno sparato alla nuca. Un colpo solo. Giustiziato. La vita di Saleh è finita così. Abdallah si avvicina e lo bacia sulla fronte. È un martire, dice con un misto di commozione e di sollievo. La verità è che è finita. L'assedio di Ijdabiya, dopo 13 giorni di combattimenti è cessato stanotte.Da due giorni un anziano sheikh della città aveva tentato inutilmente di negoziare una resa con le truppe di Gheddafi. All'ennesimo rifiuto, ieri è entrata in azione l'aviazione degli alleati. Hanno bombardato a mezzanotte. Le postazioni delle milizie di Gheddafi erano tre. Pochi uomini, ma una forza di fuoco incomparabile con quella dell'armata degli insorti. Sul campo, tra la sabbia, abbiamo contato i resti di 29 carri armati, cinque lanciamissili Grad e una ventina di fuoristrada. Innocue ferraglie deformate dalle esplosioni e annerite dal calore. I pezzi di lamiera sono sparsi ovunque. E una folla di curiosi li fotografa e li smonta per portarsi a casa una bomba, una lamiera, una scarpa o il bossolo di un proiettile. Qua e là, stese sul terreno, ci sono delle coperte di lana verdi. Le avevano messe stamattina per coprire i corpi carbonizzati degli uomini di Gheddafi morti nel bombardamento. Almeno una sessantina, secondo i testimoni. Alla fine della giornata però non siamo riusciti a capire dove li abbiano seppelliti. Al cimitero di Ijdabiya, c'è posto soltanto per le tombe dei martiri. Il custode del cimitero della città è un signore sudanese sulla cinquantina, del Kordofan, si chiama Jafira. Posa la carriola e ci accompagna in ciabatte. Le tombe dei martiri sono in fila una dietro all'altra. Scarne come vuole la tradizione: una gittata di cemento, una pietra all'altezza della testa e un'altra all'altezza dei piedi. Ma rese ancora più anonime dal fatto che nessuna ha una lapide, per il semplice fatto che la maggior parte dei martiri sono sconosciuti. I più fortunati hanno una kefya annodata da qualche amico a una pietra. E il nome scritto con un chiodo di ferro nel cemento ancora fresco. Dall'inizio dell'assedio, lo scorso 14 marzo, il custode del cimitero di morti ne ha contati 81. Sia civili che insorti. Uccisi sotto i bombardamenti, o colpiti dai cecchini, dai missili e dalle granate dei carri armati. Gli effetti dei bombardamenti sono ancora visibili. Soprattutto nei quartieri Atlas, 7 October, Sharaa Tarabulus e Sharaa Istanbul. I missili sembrano essere stati lanciati a caso, senza un obiettivo in particolare, soltanto per distruggere e terrorizzare. Vediamo decine di case devastate e addirittura una scuola colpita da un missile e una moschea centrata due volte da un carro armato. Fortunatamente la maggior parte degli abitanti avevano lasciato la città tra lunedì e martedì della settimana scorsa, quando iniziarono i bombardamenti aerei dell'aviazione di Gheddafi sul fronte. Altrimenti il numero di morti avrebbe potuto essere molto più grande. L'ospedale è stato risparmiato, ma tre medici sono ancora dispersi: il neurochirurgo Reda Zuwari, il cardiologo Driss Boushari, e l'anestetista Ali Barq, che fra l'altro è pure cittadino britannico. La loro ambulanza è stata ritrovata crivellata di colpi. E da quel giorno, di loro non c'è più traccia. I medici sono gli unici a essere rimasti in città durante i 13 lunghi giorni dell'assedio, senza acqua né elettricità, insieme a un pugno di ragazzi abbracciati a un fucile pur di non dire di essersi arresi. Aytham Abderrahman è uno di loro. Non che avessero molto da fare con i vecchi kalashnikov contro l'artiglieria pesante di Gheddafi. Giusto qualche azione di disturbo, che per lui però ha significato anche riguadagnarsi la fiducia della gente. Sì perché Aytham è un disertore. Sulla maglietta bianca indossata all'incontrario ha ancora stampato il numero di matricola: 557. Fino al 17 febbraio era un membro della milizia di Gheddafi, la famigerata Katiba. Ha 27 anni e aveva iniziato l'addestramento quattro mesi fa, a Gharyan nell'ovest del paese. Gli chiedo come mai avesse sposato la causa di Gheddafi. Mi dice che in realtà era soltanto un modo per guadagnarsi uno stipendio, con cui aiutare la madre e i tre fratelli. Succede così, mi spiega, i ragazzi si arruolano per il posto fisso, e poi è una catena di violenza, se non spari quando te lo ordinano, finisce che sparano loro a te. Lui però quando ha sentito al telefono gli amici di Benghazi e di Ijdabiya che gli raccontavano il bagno di sangue fatto dalle milizie della Katiba, non ci ha pensato su due volte e ha mollato la divisa tornando segretamente a Ijdabiya. A convincerlo a cambiare fronte sarà stata quella storia di suo zio. Il fratello della madre, Mohammed Ali el Hammari, il cui nome è sulla lista dei 1.200 detenuti politici giustiziati la notte del 29 giugno 1996 nel carcere di Abu Salim, a Tripoli. Quando torniamo a Benghazi, il sole è vicino al tramonto. Sulla strada incontriamo migliaia di automobili dirette al sud. Perlopiù curiosi, le prime famiglie che tornano a casa con i bambini affacciati al finestrino e le valigie sul tetto, e tanta solidarietà popolare che viaggia sui camion carichi di coperte, latte, pasta, zucchero, tonno e pane. Incolonnate ci sono anche tre autocisterne d'acqua. La gente spara in aria per festeggiare. E adesso tutti pensano a marciare sulla capitale, sperando che la sconfitta delle milizie di Gheddafi incoraggi la gente di Tripoli a tornare in piazza. Proprio così, perché anche nella capitale il dissenso è diffuso, al contrario di quanto pensano quelli che credono sia tutta una questione tribale. A confermarmelo è un educatore dei boy scout di Tripoli. Un tipo sulla cinquantina, che ha lasciato la capitale dieci giorni fa, quando ha sentito che la guerra arrivava a Benghazi, dove ha tutta la famiglia. A scappare lo ha aiutato un boy scout di Gabes, in Tunisia, che l'ha fatto uscire dal paese e l'ha messo su un volo per il Cairo via Istanbul. Sostiene che tre quarti degli abitanti di Tripoli siano contro Gheddafi, ma che non scendono in strada perché terrorizzati dalla repressione scatenata dal regime contro le prime manifestazioni del 20 febbraio. I morti si sarebbero contati a decine, gli arresti a centinaia. Dagli ospedali avrebbero portato via anche i feriti. E ancora oggi le milizie controllerebbero tutte le strade. E da quando hanno spento internet è impossibile organizzarsi senza essere spiati. Per strada si parla lo stesso, magari con delle espressioni segrete per riconoscersi. L'altra settimana avevano deciso di restare nella moschea dopo la preghiera, come protesta. Ma si sono trovati circondati da agenti in borghese che li hanno invitati a rientrare nelle loro case. Sul disfattismo pesa anche la sconfitta di Zawiya, una città molto vicina alla capitale e dove molti tripolini hanno parenti. Le uniche forme di protesta ormai sono passive. Una sorta di sciopero. Le scuole sono aperte, ma i genitori lasciano i bambini a casa. Chi per protesta, chi semplicemente per paura. Lo stesso dicasi dei lavoratori. C'è chi non va per paura, e chi per dissenso. E infatti in alcuni quartieri le milizie hanno attaccato i negozi che non aprivano. E agli studenti non va meglio. Pare che alcuni ragazzi dell'università Fatah siano stati arrestati soltanto perché avevano dei video delle manifestazioni nei telefonini e sui computer. Inoltre a Tripoli come a Benghazi continuano a rincorrersi le voci sui mercenari africani e sul loro utilizzo da parte di Gheddafi contro la rivoluzione. La questione in realtà è più complessa di quello che sembra. Da un lato è certa la presenza dei mercenari, dall'altro non è chiaro che peso abbiano sulle milizie di Gheddafi. All'ospedale del fronte di Ijdabiya ad esempio, il dottor Suleiman Rafaly di mercenari ne ha visti soltanto tre. Il suo è un approccio scientifico. Di libici neri ce ne sono molti, soprattutto nelle regioni di Sebha e Kufra. E senza un documento, non basta vedere un nero per essere certi che sia straniero. E lui di documenti di stranieri ne ha trovati soltanto tre: due di chadiani e uno di un maliano, nient'altro. La questione non è soltanto statistica, perché sulla fondatezza di queste notizie si gioca la pace sociale di un paese dove vivono centinaia di migliaia di cittadini africani. Soprattutto sudanesi, chadiani e nigerini, ma anche nigeriani, ghanesi, somali, eritrei. Gente che nel clima di violenza generalizzata e di regolamenti sommari dei conti, adesso rischia di ritrovarsi tra due fuochi. Oggi mi è capitato per la prima volta di vederlo con i miei occhi. Eravamo bloccati nel traffico alle porte di Ijdabiya. Quando hanno cominciato a sparare in aria ma in modo più nervoso del solito. Quando mi sono avvicinato alla mischia, ho visto un tipo con un fucile puntato contro il parabrezza di una macchina. Dentro c'erano quattro ragazzi: tre sudanesi e un libico. Li hanno fatti scendere. La folla si è messa a dargli dei mercenari. Già stamattina ne hanno fatti prigionieri dieci mentre tentavano di scappare nel deserto. I tre si sono difesi alla meglio, dicendo che vivono a Ijdabiya da anni e che stanno con la rivoluzione. Ma sulla fronte grondavano sudore. Per fortuna che alla fine a spegnere gli animi sono arrivati alcuni loro amici libici che si sono messi a gridare di lasciarli stare, che è gente del quartiere e che qui li conoscono tutti. E alla fine li hanno lasciati tornare a casa. Però mi chiedo: e se fosse accaduto altrove? Magari in una città dove nessuno li conosceva? Sarebbero finiti in galera senza prove? Dopotutto si mormora che tra i presunti mercenari arrestati a Benghazi i primi giorni della rivoluzione, non tutti fossero mercenari, ma che al contrario vi fossero finiti in mezzo ragazzi che non c'entravano niente. Che semplicemente si trovavano al posto sbagliato nel momento sbagliato e soprattutto col colore sbagliato della pelle. Forse è per quello che i sudanesi di Ijdabiya se ne sono andati quasi tutti prima che arrivasse la guerra in città. Sono partiti sugli autobus diretti a Kufrah, e da lì hanno continuato il viaggio nel deserto a ritroso. Direzione Khartoum, al sicuro. In piazza a Benghazi, i ragazzi della rivoluzione sono bravi a fare i distinguo, dicono che i lavoratori sudanesi e chadiani sono brava gente, che non c'entrano niente con i mercenari e che tutti li rispettano. La stessa società libica è molto mista, e non c'è grande differenza tra bianchi e neri. Ma sulla linea del fronte gli animi sono troppo caldi per ragionare. E il razzismo ancora fortemente presente in una società che per chiamare i neri del sud del Sahara usa ancora la parola 'abid, che in italiano suona tipo servo, schiavo. La Libia che verrà dovrà lavorare anche su questo e non fare sì che il patriottismo diventi una trappola razzista. Tripoli è vicina, ma il grosso del lavoro deve ancora cominciare e inizierà solo dopo la fine della dittatura, quando si tratterà di liberare il proprio immaginario e ricostruire il proprio futuro.

In questi giorni molti mi hanno accusato di miopia, ma io ho fiducia in questi ragazzi. Quella della loro generazione è una sfida per la libertà. Appesa alla spilla che mi hanno regalato in piazza il mio primo giorno a Benghazi, durante una manifestazione per la no fly zone. Su c'è disegnata la bandiera della Libia liberata. L'ho indossata sulla maglia durante tutti i giorni di questo viaggio. Finché oggi l'ho regalata a mia volta a Breig, un ragazzo di 17 anni scampato all'assedio di Ijdabiya, che quella generazione rappresenta. E gli ho augurato buona fortuna. Domani riparto.

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