Le riforme sociali e del lavoro in Spagna

Il goverrno Rajoy ha apllicato diligentemente le ricette economiche della Troika creando una situazione sociale insostenibile di cui la manifestazione di Madrid è una prima risposta coordinata.

26 / 3 / 2014

La imponente manifestazione di Madrid ha posto in discussione con la forza della piazza, dei numeri e della determinazione le politiche economiche della Troika come non si vedeva da lungo tempo. Vincente Navarro fa un esame degli effetti delle poltiche economiche imposte a livello sociale e produttivo che stanno alla base della grande manifestazione di Madrid.

La Spagna, sotto pressione della Troika (Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea) è passata attraverso tre grandi riforme del mercato del lavoro, presentate al pubblico come necessarie al fine di ridurre il livello scandalosamente alto della disoccupazione: 25% in generale e 52% tra i giovani.

La Spagna, e la Grecia, sono al vertice della classifica della disoccupazione. Dall’inizio della crisi, sia il governo socialista (PSOE) sia quello conservatore (PP) hanno perseguito riforme mirate a quella che hanno chiamato “deregolamentazione del mercato del lavoro”, presupponendo che il problema dell’elevata disoccupazione fosse creato da troppe rigidità del mercato del lavoro. Si diceva che i sindacati hanno protetto troppo i posti fissi al costo di rendere troppo rischioso per gli imprenditori assumere nuovi dipendenti. In conseguenza – era detto – gli imprenditori hanno paura di restare legati ai nuovi assunti senza essere in grado di licenziarli di nuovo quando diminuisca la loro necessità di manodopera.

L’assunto è diventato un dogma e come tutti i dogmi è stato sostenuto dalla fede piuttosto che da prove scientifiche. Con un chiaro atteggiamento apostolico sia il governo Zapatero (socialista) sia il governo Rajoy (conservatore) hanno reso sempre più facile agli imprenditori licenziare dipendenti. E in effetti essi hanno licenziato migliaia e migliaia di lavoratori. Ma gli imprenditori non hanno assunto lavoratori in numero pari a quelli licenziati. I risultati sono chiari per chiunque voglia vedere la realtà per quella che è, piuttosto che per quella che affermano che sia.

La disoccupazione, anziché diminuire, ha continuato ad aumentare più rapidamente, per inciso, rispetto a prima delle riforme. Ad esempio, all’ultimo trimestre del 2011 al quarto trimestre del 2013, sono stati distrutti 1.049.300 posti di lavori, con un aumento della disoccupazione di 622.700 persone. Il numero dei disoccupati è oggi di 6 milioni di persone, il 47 per cento dei quali non riceve alcuna indennità di disoccupazione (a causa, in parte, dei tagli a questo tipo di assicurazione che hanno accompagnato l’ultima riforma del mercato del lavoro).

Oltre alla crescita della disoccupazione, un’altra conseguenza della riforma è stata un rapido deterioramento delle condizioni di lavoro. Il lavoro precario (definito dai sindacati “lavoro di merda”) è andato crescendo molto rapidamente. In effetti la maggior parte dei nuovi posti di lavoro rientra in questa categoria.  Il 90 per cento dei nuovi contratti ha avuto per oggetto lavoro temporaneo, con solo l’8 per cento di contratti a tempo indeterminato. Un altro risultato delle riforme è stato l’allungamento del periodo di disoccupazione. Sei disoccupati su dieci sono rimasti senza lavoro per più di un anno, un’autentica tragedia. Di nuovo, un altro record nella classifica della disoccupazione (a pari merito con la Grecia).

Questi sono in effetti i risultati prevedibili di quelle riforme che sono state applaudite dalla Troika. Riforme presentate come necessarie per ridurre la disoccupazione. E, come segno di cinismo, sono presentate tutt’oggi come necessarie per risolvere l’alta disoccupazione, anche se il fallimento dell’obiettivo è evidente. Queste riforme hanno ottenuto il contrario di quanto, in teoria, dovevano ottenere.

Gli obiettivi reali delle riforme sociali e del mercato del lavoro

Ma queste riforme sono riuscite a conseguire i loro obiettivi nascosti (mai citati sui media o nei circoli dove ci si esprime con garbo). Le riforme hanno avuto un impatto enorme sui salari: un declino del 10% in due anni. Nessun altro paese della UE a 15 (a parte la Grecia) ha visto una riduzione così spettacolare. Questa riduzione è stata in realtà ciò che la Troika e i governi spagnoli avevano in mente quando hanno imposto tali riforme (uso il verbo ‘imposto’ perché queste riforme non esistevano nelle piattaforme elettorali dei partiti al governo, socialisti o conservatori).

Come nel caso delle riforme dell’ex cancelliere Schroeder in Germania (prese a modello dal resto della UE  a 15), lo scopo delle più recenti riforme del mercato consisteva nel ridurre il potere dei sindacati e nel tagliare i salari, cose, entrambe, percepite come misure chiave per aumentare la competitività (un altro elemento della riforma è assumere che alti salari siano causa del presunto declino della competitività dell’economia spagnola, anche se i dati dimostrano che i salari spagnoli sono tra i più bassi della UE a 15).

Anche se la produttività del lavoro è andata crescendo prima della crisi a un tasso molto più elevato dell’aumento dei salari, la Troika e il governo spagnolo continuano a insistere che questi ultimi sono ancora troppo alti. Il reddito da lavoro, in percentuale del reddito nazionale, è sceso in misura spettacolare nel periodo 2009-2013, raggiungendo la percentuale più bassa di sempre (52%). Contemporaneamente è aumentato enormemente il reddito al vertice o in prossimità del vertice. Oggi la Spagna ha una delle più vaste disuguaglianze dell’OCSE. Il 20 per cento della popolazione con il reddito più alto (i super-ricchi, i ricchi, gli abbienti e le classi professioniste) incassa più di sette volte più del 20% al fondo della scala del reddito (prevalentemente lavoratori non specializzati). In quest’ultimo gruppo due milioni di famiglie non hanno neanche un membro che lavora. E tra quelli che lavorano, quasi il 15% è povero, poiché il livello dei salari è così basso che non sono sufficienti a far uscire dalla povertà.

Ma dove il dramma appare con intensità brutale è tra i bambini. La povertà in questo gruppo (tre volte più elevata della media UE) è andata crescendo rapidamente a partire dal 2011, raggiungendo quasi il 30% (2.500.329 bambini vivono in famiglie povere). Il numero totale dei bambini in Spagna è 8.362.305. La Spagna, che una delle spese familiari più basse nella UE a 15, ha visto una riduzione delle stesse del 18 per cento in un periodo in cui i bisogni erano maggiori. Il 24 per cento di questi bambini in queste famiglie povere non è in grado di mangiare frutta o verdura ogni giorno. Il 42 per cento non può partecipare a eventi speciali fuori di casa, il 38% ha problemi di consumo di una dieta normale, e via di seguito.

La distruzione dello stato sociale

Un altro componente del dogma è la convinzione che lo stato sociale sia cresciuto fuori controllo e stia rovinando l’economia. Di nuovo, i dati dimostrano che la Spagna ha una delle più basse spese sociali pro capite della UE a 15. Nonostante questa realtà, i governi hanno continuato a tagliare tali spese. Nei servizi di assistenza sanitaria (la Spagna ha un Servizio Sanitario Nazionale) c’è stato un taglio di 12.832 milioni di euro. E’ stato pari a una riduzione del 18,21 per cento della spesa per l’assistenza sanitaria, con un taglio di 55.000 posti di lavoro dal 2009, il che è stato un attacco frontale alla sopravvivenza del Servizio Sanitario Nazionale spagnolo.

Una conseguenza di questi enormi tagli è stata una notevolissima crescita dell’assicurazione sanitaria privata, l’apertura del Sistema Sanitario Nazionale a ogni tipo di assicurazione, fondi speculativi e capitale di rischio. Tutti, assieme al sistema bancario, hanno enorme influenza sullo stato spagnolo. Uno dei tagli maggiori è stato in Catalogna dove il Ministro della Sanità, che era stato presidente dell’Associazione degli Ospedali Privati e della Società della Sanità Associata, ora ha l’incarico di smantellare il sistema sanitario pubblico.

Ciò cui stiamo assistendo in Spagna è un sogno per le forze conservatrici (grandi imprenditori e banche) che sono state le forze dominanti sullo stato spagnolo. Stanno ottenendo quello che hanno sempre voluto: una riduzione dei salari, una forza lavoro molto impaurita, sindacati deboli e smantellamento dello stato sociale. E lo stanno facendo con la scusa che non c’è alternativa. Dicono addirittura che non amano operare queste riforme ma che devono farlo perché le autorità europee le stanno costringendo a farlo. Non sorprendentemente la popolarità dell’Europa sta declinando rapidamente. L’ottantadue per cento degli spagnoli afferma che non ama questa Europa. L’Europa che per molti anni (e moltissimo durante la dittatura) era vista come il sogno (cioè, un modello di democrazia e di benessere) è diventata un incubo.

Originale: Social Europe Journal

traduzione di Giuseppe Volpe