L’America Latina col fiato sospeso in attesa dell’emergenza

16 / 3 / 2020

Com’era purtroppo prevedibile, nel fine settimana sono cominciati ad aumentare sensibilmente i casi di positività al coronavirus nel continente latinoamericano. Il primo caso “latinoamericano” è stato registrato il 26 febbraio in Brasile, seguito due giorni dopo da un nuovo caso in Messico. Da quel momento, la diffusione del virus ha continuato a crescere, prima lentamente e ora con un leggero e preoccupante aumento. Ad oggi, il paese più colpito, secondo i dati ufficiali [1] è il Brasile con 200 casi confermati e quasi 1500 casi sospetti, tra cui anche il presidente Bolsonaro (dichiarato positivo al primo tampone e in successivamente guarito dopo il secondo tampone effettuato), seguito dal Cile con 155, Perù 86, Argentina 56, Panama 55, Colombia 54, Messico 53, Ecuador 37, Costa Rica 35, Venezuela 17, Bolivia 11 Repubblica Dominicana 11, Martinica 10, Giamaica e Uruguay 8, Paraguay 7, Guyana Francese e Honduras 6, Porto Rico 5, Guyana e Cuba 4, Guatemala, Saint Martin, Aruba e Trinidad & Tobago 2 e infine Saint Vincent & The Grenadines, Guadalupe, Saint Lucia, Cayman, Curaçao, Antigua & Barbuda e Saint Barthelemy 1 caso. Le persone decedute al momento e sempre stime ufficiali sarebbero 7, due in Argentina ed Ecuador e una rispettivamente a Panama, Guatemala e Guyana. Quasi tutti i primi contagi sono avvenuti da persone provenienti dall’Europa e in particolare dall’Italia.

Le reazioni degli Stati di fronte a quella che nei giorni scorsi l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato essere una “pandemia”, hanno un denominatore comune con l’Europa, ovvero una iniziale lentezza all’insorgere dei primi casi per poi, quasi ovunque, ricorrere a misure estreme con l’inesorabile avanzare dell’epidemia. Altra similitudine con l’Europa è ovunque una strategia nazionale che non tiene conto delle incontrollabili connessioni che inevitabilmente il mondo globalizzato porta con sé. Prova ne è che una delle più diffuse misure prese dai governi latinoamericani, a volte ancora prima della comparsa del primo caso, è stata quella, inutile, della chiusura delle frontiere o della quarantena per le persone provenienti dai paesi più colpiti, come l’Italia, la Cina o l’Iran. Una misura questa, insufficiente, dal momento che, come tutti ormai sappiamo bene, il periodo di incubazione del virus è mediamente di 14 giorni, vale a dire, il virus potrebbe essere già all’interno degli Stati che hanno deciso di adottare questa misura protezionista.

Il meno preoccupato di tutti sembra essere il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador che nei giorni scorsi ha risposto così durante la consueta conferenza stampa della mattina a chi gli chiedeva la posizione del governo di fronte all’emergenza Coronavirus: «Non c’è nessun problema, potete abbracciarvi». Al di là della battuta poco felice del presidente, il Messico ha cominciato a prendere misure di precauzione minime contro il possibile dilagare dell’epidemia, considerando che per il paese non è ancora arrivato il momento di misure più drastiche. José Luis Alomía Zegarra, Direttore Generale di Epidemiologia, qualche giorno fa ha dichiarato che «di questi 15 persone contagiate abbiamo 253 contatti identificati. Non esiste al momento alcun rischio di trasmissione secondaria» [2]. Giusto qualche ora più tardi, si è però aperto un nuovo focolaio nel sud est del paese con l’annuncio di ulteriori nuovi casi di positività al virus che hanno portato il totale a 41.

In altri paesi, come Peru e Argentina, la risposta delle istituzioni sembra arrivare solo in queste ore, forse con colpevole ritardo e in modo parziale. Nei due paesi appena citati, i rispettivi presidenti hanno imposto la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado fino a fine marzo, annullato e vietato eventi con più di 300 persone (in Perù per i prossimi tre mesi) e infine l’obbligo di quarantena per le persone che arrivano da Spagna, Italia, Francia e Cina. 

Anche in Guatemala e a El Salvador, i due presidenti Giammattei e Bukele hanno optato per la chiusura delle frontiere, ancor prima che il virus facesse la sua apparizione, a tutti coloro che provengono dalle zone maggiormente colpite in queste settimane. Bukele inoltre ha annunciato la l’allerta rossa e la quarantena per 30 giorni in tutto il paese con la chiusura delle scuole e delle università per tre settimane. Nelle ultime ore, dopo una tesa battaglia con il parlamento dove non ha la maggioranza, Bukele ha ottenuto di imporre lo “stato d’eccezione” che gli permetterà ora di schierare le forze armate nelle strade per far rispettare i divieti imposti. Sulla scia di Bukele anche Porto Rico che ha decretato il coprifuoco notturno in tutta l’isola. In Guatemala intanto, le misure proposte da Giammattei non hanno potuto evitare, come era facilmente prevedibile, la comparsa del primo caso di positività. 

Un altro paese che rischia molto è il Venezuela. Giovedì scorso Maduro ha dichiarato l’emergenza sanitaria, ancor prima dell’annuncio dei primi due contagi, ha sospeso i campionati sportivi, chiuso le scuole e vietato gli eventi con assembramenti di persone. Sulla capacità del paese di affrontare una più che possibile epidemia su larga scala incombono due fattori molto importanti: il primo, come denunciato dallo stesso Maduro è l’impossibilità di acquistare tamponi e materiale sanitario per via delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti alle aziende che vendono prodotti al Venezuela, e il secondo motivo è la caduta del prezzo del petrolio, passato da 48 a 24 dollari al barile, che potrebbe far precipitare l’economia venezuelana e impedirgli di investire risorse nella risoluzione dell’emergenza.

Decisioni simili sono state prese anche dal governo de facto in Bolivia che ha sospeso tutti i voli da e per l’Europa, imposto la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado fino a fine marzo e proibito gli eventi con più di mille persone. A seguito della comparsa dell’11 caso, la presidente Añez ha annunciato che nelle prossime ore verranno prese ulteriori misure per cercare di arrestare la diffusione del virus. A preoccupare è la situazione inadeguata degli ospedali: nei giorni scorsi una protesta degli operatori sanitari e di “vecinos” di Santa Cruz, hanno costretto la prima paziente colpita da coronavirus a peregrinare per 7 ospedali prima di riuscire a essere ricoverata. I manifestanti si sono detti preoccupati per il possibile dilagare dell’epidemia e per la mancanza di materiale sanitario e di strutture preparate ad affrontare l’emergenza. Il governatore di Santa Cruz, Ruben Costas, ha dovuto far intervenire la forza pubblica per disperdere le proteste e permettere il ricovero della paziente [3]. Il Tribunale Supremo Elettorale nel frattempo ha reso pubblico che al momento non ci sono motivi per posticipare le elezioni presidenziali che dunque vengono confermate per il 3 maggio prossimo.

Sebastian Piñera, in Cile, non si è mosso fino a quando i casi confermati sono arrivati a 155. Nei primi giorni, aveva annunciato solo uno stato di preallarme, l’allerta sanitaria e di aver irrigidito i controlli alle frontiere ma arrivati a questo punto ha annunciato dal 18 marzo la quarantena con punizioni severe per chi disobbedirà al divieto di uscire. Tutto questo mentre nelle strade continua la protesta. Per il “supermarzo” sono state annunciate quasi ogni giorni manifestazioni in tutto il paese che a questo punto potrebbero essere annullate.

Quanto meno particolari le misure anti virali prese in Nicaragua dalla coppia presidenziale Ortega-Murillo: il partito di governo, il FSLN, sabato scorso ha indetto la giornata di mobilitazione nazionale “Amor en tiempo de Covid19” per solidarizzare con tutti i popoli colpiti dal virus. Migliaia di persone sono scese nelle strade di tutto il paese che, è giusto ricordarlo, al momento non ha ancora avuto nessun caso di positività.

L’emergenza vera e propria nel continente probabilmente deve ancora arrivare: secondo le previsioni degli esperti e della OMS, il picco del contagio avverrà nelle prossime due settimane, e solo verso fine marzo si riuscirà a capire la portata del problema nel continente. Le ricadute di una diffusione capillare potrebbero essere devastanti in primo luogo per l’inadeguatezza di quasi tutti i sistemi sanitari non in grado di poter reggere l’emergenza (non pensiamo solo alle città sviluppate, ma anche alle migliaia di comunità indigene distanti ore da strutture ospedaliere degnamente equipaggiate) o non accessibili come in Cile dove la sanità è privatizzata. Un altro motivo di preoccupazione è l’impossibilità di ricorrere a misure di prevenzione come lo “smart working”, tanto discusso qui da noi ma inapplicabile in economie povere basate principalmente nel lavoro informale nelle strade, di cui l’America Latina è piena e unica possibilità lavorativa di sostentamento che potrebbe diventare veicolo per la diffusione rapida del virus soprattutto nei grandi agglomerati urbani.

Altro tema da non sottovalutare, è la condizione della popolazione migrante: a Tijuana, Tecún Umán, in tutte le altre frontiere “calde” o nelle polverose carreteras che attraversano il continente, sono ancora migliaia le persone che aspettano il permesso o l’occasione giusta per poter attraversare la frontiera. E mentre aspettano sono costrette a vivere in campi o strutture fatiscenti con condizioni igieniche pessime e dove l’epidemia potrebbe facilmente propagarsi. Proprio in questi giorni, nonostante l’incombere dell’emergenza circa 300 hondureños sono partiti da San Pedro Sula (è la terza carovana migrante del 2020). L’insorgere del virus in situazioni tanto complicate sarebbe oltremodo deleterio per queste popolazioni, impossibilitati a muoversi per la chiusura delle frontiere e doppiamente a rischio della propria vita, sia per la violenza e la fame dalla quale cercano di fuggire, sia per l’impossibilità di difendersi di fronte al virus.

L’entrata del virus nel continente infine, colpirà inevitabilmente anche le rivolte che abbiamo osservato in questi mesi e che continuano in questi giorni, soprattutto in Cile, nonostante l’apparizione dei primi casi. Oltre al Cile, anche in Colombia, Argentina, Messico, Haiti, tra gli altri, gli avvenimenti legati alla diffusione del virus obbligheranno a rimodulare le manifestazioni se non a cancellarle e certamente diverrà uno strumento politico per impedire che il messaggio di cambiamento che portano con sé si propaghi. A rischio a questo punto, sono anche due tra gli appuntamenti più rilevanti e importanti programmati per quest’anno, vale a dire le elezioni presidenziali in Bolivia e il referendum per approvare la nuova costituzione in Cile, con tutto il corollario di manifestazioni che portano con sé.

[1] https://arcg.is/1CvfOe 

[2] https://www.sinembargo.mx/12-03-2020/3747214

[3] https://eldeber.com.bo/169386_finalmente-internan-en-el-hospital-san-juan-de-dios-a-la-paciente-con-coronavirus