La Tunisia oggi, la voce di Najib Abidi (Asso Chaabi)

La seconda intervista raccolta ad un attivista della sinistra che ci parla della situazione politica nel paese a tre anni dalla primavera di rivolta

18 / 8 / 2014

Il mio percorso politico è cominciato nel sindacato studentesco all'università. Mio zio era comunista, così ho studiato anch'io il marxismo-leninismo e i vecchi metodi della militanza. Nel 2005 entrai in un circolo di riflessione per il rinnovamento del socialismo di nome Communisme Democratique. Nel 2006 il circolo decise di creare un partito politico illegale, il Parti Socialiste de Gauche. Ma nonostante tutto il partito continuò a organizzarsi con i vecchi metodi stalinisti per cui il comitato centrale prende le decisioni e i membri del partito all'interno del sindacato le eseguono. Questo creò dei conflitti interni e nel 2008 il comitato centrale decise di espellermi, perché le mie critiche verso tali metodi stavano diventando piuttosto popolari tra i militanti più giovani.

Così per due anni mi misi a riconsiderare tutto, feci una serie di letture su varie esperienze politiche e venni in contatto con le idee di autogestione e metodi di organizzazione alternativi. Essendo regista, rimasi comunque attivo in ambito culturale. Creammo un cineforum settimanale che però divenne anche un gruppo di discussione su temi politici. Non era facile incontrarsi perché la polizia creava moltissimi problemi. La repressione all'epoca era capillare e una delle pratiche più pericolose era quella di infiltrare partiti e sindacato per manipolare le rivalità tra i vari gruppi. Spesso la sorveglianza sui militanti era diretta, tramite pedinamenti e intimidazioni.

I partiti non sono stati in grado di prevedere che ci sarebbe stata una rivoluzione perché erano chiusi nella teoria, aspettavano che ci fosse una grande classe operaia con un'avanguardia in grado di guidarla. Ma nel periodo antecedente la rivoluzione, scendendo in strada e prendendo le distanze dalle astrazioni teoriche, si sentiva che la rabbia popolare stava aumentando.

Quando le proteste cominciarono a Sidi Bouzid e Thala capimmo subito che era necessario trasferire il conflitto nella capitale. Il regime era molto centralizzato, quindi ipotizzammo che, se fossimo riusciti ad aprire un fronte proprio nel cuore del sistema, le cose sarebbero progredite velocemente. Formammo un gruppo di lavoro di quattro persone: Azyz Amami, Sofianne Chourabi, Slim Amamou e io. (In seguito Amamou avrebbe lasciato il movimento per accettare un posto come ministro della Gioventù sotto i governi Gannouchi ed El Sebsi.) Io andai a Sidi Bouzid con la missione di filmare la protesta e di inviare i materiali ai membri del gruppo a Tunisi, che si occupavano di diffonderli tramite i social network o di mandarli ai giornalisti all'estero per rompere l'embargo mediatico.

Modificammo con Photoshop un vecchio comunicato dell'Ugtt e stilammo un comunicato apocrifo che invitava i membri del sindacato a una manifestazione di solidarietà verso le proteste nelle città dell'interno del paese. La manifestazione si sarebbe tenuta il 27 dicembre 2010 di fronte alla sede dell'Ugtt a Tunisi. Di certo fu nostro complice il fatto che la leadership dell'Ugtt era composta di gerontocrati che non sapevano nemmeno che cosa fosse internet.

Funzionò: la manifestazione vide un'alta partecipazione, anche da parte dei sindacalisti di base. Alcuni membri dell'Ugtt credevano che il comunicato fosse autentico, altri scelsero di disobbedire alla direzione. Era pieno di polizia e ci furono i primi tafferugli e lacrimogeni. Il giorno dopo, i titoloni sulle prime pagine dei giornali annunciavano che il segretario generale dell'Ugtt denunciava l'appello a manifestare come apocrifo, aggiungendo che i falsificatori sarebbero stati perseguiti. Peccato che dopo la rivoluzione perse la poltrona.

In quel periodo tutti gli studenti erano in vacanza, ma quando rientrarono il terreno era pronto e la protesta esplose spontaneamente. L'11 gennaio ci furono disordini all'università e i corsi vennero sospesi, il 12 venne dichiarato il coprifuoco. Entrambe le cose favorirono la ribellione. L'11 e il 12 gennaio ci furono grandi scontri a Citè Ettadhamen, un gigantesco quartiere popolare nell'hinterland di Tunisi. Io c'ero, fu la cosa più impressionante della mia vita. Per la prima volta vedevo la vera violenza rivoluzionaria delle classi subalterne contro lo stato, dopo averla studiata tanto a lungo sui libri. I ragazzi del quartiere affrontarono il piombo delle forze dell'ordine con pietre, bastoni, molotov, tutto quello che potevano trovare. C'era come un sesto senso che creava una solidarietà più potente della paura della morte. Ci furono quattro martiri in quell'occasione. Le uccisioni fecero infuriare ancora di più la gioventù e gli scontri continuarono nei giorni seguenti.

Dopo le dimissioni di Ben Ali, i giovani di Sidi Bouzid decisero di dare vita a un presidio permanente alla Casbah di Tunisi, a cui si unirono i rivoluzionari di Tunisi e di altre città. Creammo un'organizzazione sul posto: la comunicazione, la sicurezza, ecc. Ogni sera c'era un'assemblea plenaria per coordinare le iniziative. Inizialmente l'Ugtt non aderì, ma poi anche il sindacato appoggiò al presidio. Credo che sia stato un errore accettare la loro partecipazione, ma eravamo molto provati e i media e l'establishment continuavano a tentare di marginalizzarci, nonostante i numeri del presidio aumentassero. Avevamo bisogno di più risorse, e pensammo che se eravamo riusciti a portare l'Ugtt sulle nostre posizioni, voleva dire che avevamo vinto noi. Ma di fatto l'Ugtt utilizzò il presidio della Casbah per avere una carta in più nelle sue trattative con lo stato, e questo ebbe l'effetto di moderare l'entusiasmo mettendo come principale obiettivo della rivoluzione l'elezione di un'assemblea costituente. Penso che all'epoca sarebbe ancora stato possibile ottenere risultati più radicali. Forse avremmo dovuto lanciare un appello per l'occupazione delle sedi istituzionali in tutti i governatorati e la creazione di comitati rivoluzionari per la gestione del territorio. Ma all'epoca semplicemente non ci pensammo.

Durante la rivoluzione gli islamisti non si sono fatti vedere. Ma da tempo gli americani avevano elaborato la strategia di usarli per sostituire le vecchie élite nord africane, che stavano progressivamente perdendo legittimità. Così è nato il concetto di “islam moderato”, sul modello turco. L'idea era che gli islamisti moderati fossero in grado di garantire più stabilità rispetto alle dittature semi-laiche, senza danneggiare gli interessi occidentali. In questo modo Ennahda ha avuto il beneplacito di Washington nel periodo post-rivoluzionario.

È dura fare un'analisi della situazione attuale. È inquietante a dirsi, ma non abbiamo conquistato niente. Molti dicono che almeno ora abbiamo la libertà d'espressione, ma è tutto uno show. Possiamo parlare quanto vogliamo ma nei fatti nulla cambia e nel dibattito mainstream si parla solo di mutamenti superficiali. Il problema profondo è che la sfida politica si gioca solo al livello elettorale, quello della classe politica, mentre noi volevamo trasformare la società tunisina in un laboratorio politico aperto e basato sull'autogestione. Non sto dicendo che bisogna tornare al sistema di Ben Ali, ma abbiamo bisogno di una ricchezza culturale, artistica e intellettuale rivoluzionaria in grado di strappare il dibattito politico ai grandi media, ai partiti e al denaro.

È con questo scopo che abbiamo fondato l'Asso Chaabi. All'inizio volevamo creare una radio libera, ma poi abbiamo optato per uno studio gratuito di registrazione, per promuovere soprattutto la cultura di strada dei giovani di Tunisi. Lo scorso inverno abbiamo organizzato l'Angar, un grande festival di rap internazionale con artisti un po' da tutto il mondo arabo. Ormai l'hip hop in Tunisia è diventato una vera e propria arte popolare, è la musica della nuova generazione. Collettivi come il nostro sono gli unici che contrastano l'influenza dei salafiti nei quartieri poveri, dove siamo sempre ben accetti.

L'esperienza della rivoluzione tunisina ha dimostrato che non basta essere forti sulle strade, perché quando la situazione si calma il potere è in grado di tornare a gestire la società. Credo che lavorare sulla cultura sia necessario per creare le condizioni per cambiamenti più radicali, perché se non c'è una cultura rivoluzionaria non è possibile fare azioni rivoluzionarie sostenibili. Il modello dei centri sociali e degli squat può essere interessante anche per noi. Dobbiamo concentrarci sui giovani per trasmettere contenuti che siano politici, ma con molta creatività e autonomia.