“La truffa del Secolo” e il terricidio in Palestina

28 / 5 / 2020

Un paio di settimane fa, mentre dalle nostre parti ci si preparava alla cosiddetta “fase due” di allentamento delle restrizioni legate all’emergenza sanitaria da coronavirus e tutte le attenzioni erano focalizzate sul piano economico di rilancio, il segretario di Stato USA Mike Pompeo atterrava a Tel Aviv alla vigilia della 72ª Nakba indossando una mascherina a stelle e strisce per “benedire” un altro piano: quello relativo all'annessione di una enorme porzione della Cisgiordania. Il Piano Trump, o ”Accordo del Secolo” sarà, infatti, uno dei primi punti nell'agenda del nuovo governo Israeliano che si è appena insediato. Un governo nel quale Netanyahu mostra nuovamente i muscoli, forte dell'appoggio incondizionato da parte degli Stati Uniti e dopo aver conquistato il consenso elettorale di larga parte dell'estrema destra.

Al suo ex sfidante (ed oggi alleato) neoministro della difesa e “primo ministro alternato” Benny Gantz non resta altra scelta che sorridere ed assecondarlo (non che fosse così contrario alla questione!). Il prossimo primo luglio potrebbe essere la data d'avvio ufficiale al processo di annessione delle colonie in Area C, della Valle del Giordano e di Gerusalemme. Non si perde tempo, dunque...e c'era da aspettarselo, in vista delle vicine elezioni presidenziali USA di novembre! Trump avrebbe così rispettato le promesse fatte all'elettorato sionista evangelico e di destra americano ed ai partner dell'investitore -nonché suo genero- Jared Kushner; e dall'altra parte a Netanyahu e ad al progetto sionista Israeliano, un'occasione del genere potrebbe non ricapitare per molto tempo! E da una settimana continua a ribadirlo al mondo intero il premier israeliano ad ogni uscita pubblica, persino uscendo dall’aula di tribunale dove era appena apparso come imputato per i reati di frode, corruzione e abuso di fiducia.

Gran parte dei territori coinvolti sono già occupati dagli insediamenti israeliani, alcuni dei quali, soprattutto nella valle del Giordano, esistono ormai da decenni. Ma c’è un’enorme differenza tra un’occupazione e un’annessione: lo statuto di questi territori è regolato dalla risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza, dunque la potenza occupante non avrebbe il diritto di modificarlo.

Ma in questo momento storico lo stato ebraico sente di poter agire ignorando qualsiasi voce critica. Il 30 aprile la Lega araba ha denunciato il progetto di annessione, ma poiché Israele ha tessuto intricate relazioni con il mondo arabo basate su interessi strategici ed economici comuni, questa presa di posizione lascia il tempo che trova. Stesso discorso vale per l'Unione Europea: gli interessi commerciali ed i rapporti geopolitici dei singoli stati sono più forti delle prese di posizione ufficiali. Si annunciano sanzioni, sembrano esserci delle tensioni diplomatiche, ma possiamo stare certi che assisteremo all'ennesima dimostrazione di immobilismo.

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Anche il dibattito politico interno allo stato ebraico è animato. Certo, la sinistra progressista ha spesso denunciato le violazioni dei diritti umani nei confronti dei palestinesi, ha sempre parlato apertamente di “apartheid”, puntato il dito contro l'assedio di Gaza e le detenzioni amministrative senza capi d'accusa formali. Qualche loro esponente politico nel corso degli anni ha detto anche che i due milioni di palestinesi che vivono in Israele sono tutt'altro che “integrati”: qualsiasi sia il loro ruolo nella società, potete stare certi che essi vivranno sulla loro pelle le peggiori forme di discriminazione! Eppure, anche dalla sinistra israeliana si levano voci -provocatorie, sia chiaro!- di incitamento all'annessione. Gideon Levy, noto giornalista di Haaretz, scrive che l'annessione è il colpo di reni indispensabile per destare l'autorità palestinese, l'opinione pubblica israeliana ed il mondo intero dal torpore nel quale si trova. L'annessione -sostiene ancora- è più reversibile dell'occupazione. Conclude uno dei suoi ultimi articoli chiedendo ai lettori: “è troppo ingenuo o ottimistico credere che la maggior parte del mondo non rimarrebbe silenziosa, e così anche un gran numero d’israeliani? Esiste un’alternativa realistica? E quindi, smettiamo di avere paura e lasciamo che annettano!” Certo, un punto di vista interessante, ma per non cogliere fino in fondo la provocazione, senza lasciare spazio ai fraintendimenti, è indispensabile analizzare nel dettaglio quali sono le mire di Israele in quella porzione di territorio contesa e perché possiamo applicare il concetto di “terricidio” anche in Palestina.

Rashid Khudiri, nelle parole raccolte da Michele Giorgio per Nena News, afferma: “aspettiamo un netto peggioramento della nostra condizione quando sarà realizzata l’annessione. Israele assorbirà il territorio senza garantirci diritti e accesso alle risorse naturali. Con ogni probabilità, avremo maggiori difficoltà a spostarci e subiremo un incremento delle demolizioni di case, delle strutture per i nostri animali e delle misure repressive. Il mondo deve intervenire per fermare Trump, il piano americano è contro la legge internazionale!”

Se il problema principale non fosse la tragedia di un popolo espulso con la forza dalle proprie abitazioni, e giornalmente insultato e deriso, bisognerebbe poi puntare il dito su un altro tema, sul lungo periodo, e per il Mondo intero, più preoccupante, ovvero il modello di sviluppo economico israeliano, in parole povere: con l'annessione cosa diventeranno quei territori, che ne sarà della Cisgiordania? Si è posto il problema dello sviluppo della Cisgiordania secondo le metodologie israeliane, Zafrir Rinat, in un eccellente articolo su Hareetz, dal titolo “ Israele progetta la zona industriale della Cisgiordania che distruggerebbe un ecosistema unico. I leaders dei coloni accolgono con favore la mossa, che è stata pianificata per anni e creerebbe continuità urbana sulla Linea Verde, mentre gli attivisti ambientali avvertono di conseguenze inenarrabili”

L'amministrazione civile israeliana, la parte dell'esercito responsabile per le questioni civili in Cisgiordania, ha promosso un piano per costituire una vasta zona industriale a cavallo della linea verde che causerà gravi danni a un'area ecologica unica. Accolto con favore dai leader dei coloni, il progetto, chiamato "Porta di Samaria", è anche visto come un modo per facilitare un maggiore afflusso di ebrei israeliani in Cisgiordania, ma sta affrontando l'opposizione di residenti e gruppi ambientalisti, che insistono sui rischi in serbo non solo per la natura ma anche per le falde acquifere.

Una commissione di pianificazione avanzata ha deciso alcune settimane fa che il progetto potrebbe essere presentato al pubblico, per dare la possibilità di avanzare obiezioni prima che esso venga avviato. Piccolo problema: i gruppi ambientalisti non sono rappresentati nelle commissioni di pianificazione nei territori occupati.

Il piano prevede la costruzione di una parte significativa della zona industriale vicino a un letto del fiume Yarkon, in una zona considerata uno dei corridoi ecologici in Israele e un'area nota per la sua fauna selvatica

"L'istituzione di una zona industriale porterà alla distruzione totale di un sistema naturale che funziona così straordinariamente bene e bloccherà un corridoio ecologico", afferma la Società israeliana per la protezione della natura.

I capi del consiglio israeliano locale in Cisgiordania hanno accolto il progetto, considerandolo l'ultimo passo verso la creazione di un'area contigua costruita tra la Cisgiordania e Israele. Yossi Dagan, capo del consiglio regionale della Samaria, dopo una riunione della commissione di pianificazione, ha dichiarato che "la zona industriale Gates of Samaria potrebbe “cambiare l'equazione” e portare un milione di ebrei in Giudea e Samaria". Si fa in questo caso riferimento al rimpiazzamento etnico e culturale al centro della politica di Israele.

Mor Gilboa, un attivista di "Climate for Peace", ha affermato che "il governo militare nei territori ha creato per decenni un elenco numeroso e deplorevole di modifiche sull'ambiente. Il piano ignora la natura allo stesso modo in cui ignora i diritti dei palestinesi in questi territori che non appartengono a Israele ai sensi del diritto internazionale ".

Ecopeace, un'organizzazione ambientalista di attivisti israeliani, palestinesi e giordani ha espresso preoccupazione per il fatto che il parco danneggerebbe le sorgenti d'acqua e i pozzi sotterranei e danneggerebbe idrologicamente l'intera area.

Nulla di nuovo sotto il sole, dovremmo dire, questo sviluppo tecnologico osannato da più parti nel Mondo, è solo la prassi di uno Stato razzista, quello israeliano (è inserito oramai nella costituzione, quindi non è un'idea di chi scrive ma una ratifica di legge, si veda in proposito, Gideon Levy che applica metodi di sviluppo insostenibili dal punto di vista etico e ambientale.

Già da molti decenni, proprio in quei territori, nella Valle del Giordano, bambini e adulti palestinesi lavorano per pochi dollari al giorno e senza contratto né sicurezza.

Come sottolinea un recente rapporto di Human Rights Watch, la nota organizzazione internazionale impegnata per i diritti umani, le colonie prosperano grazie al lavoro sottopagato dei palestinesi e al lavoro minorile. A questo si sommano ulteriori illegalità: le colonie israeliane sono costruite in Cisgiordania, occupata in violazione del diritto internazionale. In merito invece alla consuetudine di utilizzare lavoro minorile riportiamo un breve passaggio tratto dalle interviste di Hrw: la maggior parte dei bambini intervistati afferma di lavorare con i pesticidi. “Non sanno molto delle sostanze chimiche che trattano, ma degli effetti sì. Soffrono di giramenti di testa, nausea, irritazioni agli occhi ed eruzioni cutanee”.

I ragazzi che lavorano nei vigneti dove si usa il pesticida Alzodef, vietato in Europa dal 2008, si riconoscono dalle desquamazioni dell’epidermide. I bambini palestinesi lavorano 6-7 giorni alla settimana, per 8 ore al giorno, anche nelle serre a temperature che si avvicinano ai 50 gradi. Portano carichi pesanti e usano macchine pericolose. Secondo uno studio del 2014 sugli infortuni tra i minori palestinesi che lavorano il 79% aveva subito un infortunio sul lavoro nei precedenti 12 mesi. E tutto questo per una paga di meno della metà di quella minima garantita dalla legge israeliana e senza assicurazione sanitaria e altri benefit, assicurando così maggiori guadagni alle aziende agricole delle colonie.

Fondata in Cisgiordania nel 1968 Argaman, secondo il diritto internazionale, è un insediamento illegale che nel 2017 contava 128 coloni. Per la fondazione della colonia le autorità israeliane confiscarono 120 ettari di terra dai villaggi palestinesi circostanti. Qui si coltivano datteri e altri prodotti, lo stipendio giornaliero dato ai palestinesi che lavorano in queste terre è di 60 shekel (17 dollari), infinitamente inferiore al salario minimo israeliano.

Gli insediamenti israeliani incombono sulla valle dei colli, un flusso di liquami scorre costantemente sotto. Il terrificante impatto delle colonie sull’ambiente è visibile ovunque. Nelle valli Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus si raccolgono le acque reflue mal gestite da residenti israeliani nei vicini insediamenti illegali di Ariel e Barkan.

Secondo un rapporto del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono in queste valli sono esposti a “acque reflue non trattate [che] contengono virus, batteri, parassiti e metalli pesanti e tossici [che] sono pericolosi per la salute umana e per gli animali”. Le acque reflue non trattate hanno un grave impatto sulla salute pubblica ma le sostanze chimiche riversate dalle fabbriche vicine rappresentano se possibile una minaccia ben peggiore.

Secondo un report di B’Tselem del 2017, lo Stato di Israele stava sfruttando la terra palestinese, quella che ora sarà oggetto della futura annessione, per il trattamento di vari rifiuti creati non solo negli insediamenti illegali ma dall’interno della linea verde. Nel rapporto, si dice che le zone industriali dell’insediamento di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti gestiti da Israele nella Cisgiordania occupata e nella Gerusalemme est.

Le zone industriali di Ariel e Barkan trattano il petrolio usato e i rifiuti elettronici pericolosi. Molte persone dei villaggi circostanti hanno accusato malori, e soprattutto sono state colpite da cancro, per Abdulrahman Tamimi, medico dell’unico ospedale di Salfit, la correlazione è chiara. “Le persone di questi villaggi particolari [vicino agli insediamenti industriali] hanno le stesse caratteristiche, le stesse malattie”, ha spiegato.

Il volto pulito delle colonie, è quello che si presenta agli occhi incapaci di capire cosa esiste dietro un regime di occupazione: all’interno delle colonie ci sono tutti i servizi necessari, e il panorama è quello tipico di un outlet all’aperto, con piante, architetture e stili di vita che possono ricordare da vicino la Florida. I centri commerciali hanno prezzi molto bassi, riforniti secondo economie di scala e fornitori che lavorano per tutte le colonie. Le casette a schiera sono in netto contrasto con il panorama e la vita che si trova all’esterno, fatta ancora di piccoli insediamenti rurali, e case sparse dei pochi beduini che ancora non sono stati cacciati da quelle terre, ma che da luglio, grazie a questa ennesima violazione dei trattati internazionali, non vedremo più.

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Superati i controlli, le sbarre e l’esercito, entrando in questi grandi set cinematografici costruiti nel deserto, i nostri occhi evidenzieranno la contrapposizione tra il benessere e la presunta povertà degli allevatori (palestinesi) che pascolano le loro pecore, dovremo invece valutare il terrificante impatto culturale, ambientale ed economico delle colonie sul territorio, e provare a recuperare la storia di quelle terre, ricche di risorse e in perfetto equilibrio fino ad un secolo fa.

Le colonie non sono lì per caso, non lo sono mai state, un passo fondamentale di Neve Gordon, nel suo libro “L'occupazione israeliana” ci ricorda e ci fa comprendere appieno il ruolo di questi insediamenti illegali sin dalla nascita dello Stato di Israele, con un’analisi impeccabile che non lascia spazio ai dubbi sulla volontà, sin dagli inizi del governo laburista, di utilizzare i coloni irregolari, fintamente osteggiati, come metodo di espansione dello stato sionista. “In Lords of the Land, Idith Zartal e Akiva Eldar mostrano che i dirigenti laburisti come Simon Peres, Yitzhak Rabin, Yigal Allon e Moshe Dayan erano in massima parte favorevoli al progetto degli insediamenti. Pertanto, l’idea che il governo laburista e i coloni appartenessero a fazioni ideologiche opposte è vera solo se si è interessati alle differenze tattiche”. “La maggior parte dei resoconti tende a presentare il progetto degli insediamenti come un’impresa extra-governativa condotta dal movimento dei coloni in aperto contrasto con la politica del governo. In realtà la stragrande maggioranza degli insediamenti fu istituita dai diversi governi israeliani, e anche quelli apparentemente costruiti contro la volontà del governo dai circoli ebraici religiosi ottennero in definitiva l’autorizzazione dal governo e il suo supporto finanziario.”

Ed è Neve Gordon che ci disse, molti anni fa, come sarebbe andata a finire la battaglia in Cisgiordania, nell'indifferenza del Mondo:

Dichiarare che Israele intendeva annettere le due regioni o anche pubblicare un piano esplicito sul modo in cui intendeva popolarle di ebrei avrebbe provocato senza dubbio la condanna internazionale e la massiccia resistenza palestinese. Questa è stata una delle ragioni per cui il governo israeliano ha rappresentato spesso i coloni ebrei come cittadini ribelli, anche mentre trasferiva milioni di dollari per sostenere il loro comportamento “ricalcitrante”. Far sembrare di non essere in grado di controllare i coloni ha consentito allo Stato, in caso di critiche, di assolversi dalle responsabilità attribuendo le confische a iniziative illegali compiute da gruppi di cittadini ideologizzati. E’ stato quindi politicamente vantaggioso presentare l’occupazione come temporanea e la creazione d’insediamenti come arbitraria. Per contro, in Cisgiordania, e nella striscia di Gaza, Israele ha eseguito una confisca graduale utilizzando il diritto ottomano e il Mandato britannico, i regolamenti dei sistemi giuridici giordano ed egiziano e le ordinanze militari emanate dai comandanti israeliani. Anche se il diritto internazionale umanitario obbliga il potere occupante a proteggere la proprietà degli abitanti sotto occupazione vietandone l’esproprio, Israele ha utilizzato diversi meccanismi giuridici per confiscare ampie porzioni della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. La maggior parte dichiarata proprietà di un assente o proprietà appartenente a uno stato o a un agente nemico.”

L'occupazione non è solo insostenibile eticamente, lo è anche ecologicamente: i principali effetti collaterali per ora si sono riverberati sulla sola popolazione palestinese, il nemico che riusciva, da solo, a far dimenticare la corruzione, I servizi sanitari scadenti, I problemi sociali insiti tra gli ebrei israeliani. Ora, dopo l'annessione, anche quella terra diventerà l'ennesimo pezzo di uno stato che applica l'apartheid sistematico. Israele sembra non aver calcolato, che la stessa terra che ospita liquami non depurati, scorie e materiale ad altissimo impatto ambientale, è la tanto bramata Terra promessa sulla quale, probabilmente, andranno ad abitare prossimamente cittadini ebrei che avranno il compito di costruire nuove colonie, di allontanare il nemico palestinese, vivendo però su cumuli di terra contaminata da oggi e per i secoli a venire.

È stato stimato che circa l’80% dei rifiuti prodotti dalle colonie israeliane viene scaricato in Cisgiordania. Si sa che anche diverse industrie israeliane e l’esercito scaricano rifiuti tossici in terreni oggi palestinesi. Inoltre negli ultimi anni Israele ha sistematicamente trasferito fabbriche inquinanti in Cisgiordania, per allontanare I palestinesi residenti, e creare lì un polo industriale. Lo ha fatto costruendo cosiddette “aree industriali”, che non solo utilizzano manodopera palestinese a buon mercato, ma rilasciano le loro scorie tossiche nell’ambiente. Israele ha anche proseguito la sua decennale pratica di sradicare gli ulivi e gli alberi da frutto palestinesi, questa strategia, mirata a recidere il legame dei palestinesi con la loro terra, ha provocato non solo la perdita delle risorse vitali per migliaia di agricoltori palestinesi, ma anche l’erosione del suolo e l’accelerazione della desertificazione di zone della Palestina occupata.

Secondo uno studio condotto dall’Ufficio dell’Ambiente dell’Amministrazione Civile Israeliana in Cisgiordania, i coloni generano ogni giorno circa 145.000 tonnellate di rifiuti domestici. Nel solo 2016, 83 milioni di metri cubi di acque reflue hanno attraversato la Cisgiordania. Quel numero sta aumentando costantemente e rapidamente.

La verità è che i palestinesi si sono dimostrati molto più “qualificati” per coesistere con la natura piuttosto che “sfruttarla”. Il costo di questo sfruttamento, tuttavia, non viene pagato solo dal popolo palestinese, ma anche dall’ambiente. Le prove sono sotto i nostri occhi e accentuano ulteriormente la natura coloniale ed egoista del progetto sionista e dei suoi fondatori, che continuano a dimostrarsi totalmente privi di una visione strategica e sostenibile per il futuro della “Terra Promessa”.