La sconfitta di Kaboré

8 / 2 / 2022

Un articolo di Rahmane Idrissa, originariamente pubblicato su New Left Review, e tradotto per Global Project da Marco Miotto. Nella notte del 24 gennaio scorso l’esercito burkinabé ha occupato il palazzo presidenziale di Ouagadougou e deposto il Presidente Roch Marc Kaboré, in carica dal 2015. A guidare il golpe il “Movimento Patriottico per la Salvaguardia e la Restaurazione”, il cui leader, il colonnello Paul Henri Sandaogo Damiba, è diventato Presidente del Burkina Faso e capo delle forze armate del Paese. Nelle ore frenetiche del colpo di Stato, tra arresti violenti e colpi di arma da fuoco per le strade e sui veicoli presidenziali, anche Kaboré è stato prelevato e condotto in arresto in un luogo segreto.

Lentamente ma inesorabilmente i media internazionali stanno costruendo una nuova opinione comune: i colpi di stato sono tornati in Africa. Al Jazeera ha definito il 2021 come “l’anno in cui i golpe militari hanno fatto ritorno sulla scena in Africa”; in seguito al putsch in Sudan la BBC ha fatto una domanda retorica sul fatto che le “acquisizioni di potere da parte dei militari” fossero in ascesa “in Africa”. La CNN ha evidentemente risposto affermativamente a questa domanda, dato che il suo quesito era sul perché i colpi di stato stessero “facendo ritorno in Africa”. Questo è solo un esempio campione proveniente dai canali mediatici più grandi e la parola d’ordine cerca di mettere ordine anche aldilà della sfera mediatica internazionale, nei centri di studi e nel mondo accademico.

Ovviamente, in questo caso la parola “Africa” è una generalizzazione. Nelle 54 nazioni del continente, sono emersi negli ultimi anni cinque o sei eventi che corrispondono alla descrizione di un golpe militare. Due di questi sono accaduti nello stesso paese (Mali) e uno è più simile a un golpe costituzionale, piuttosto che a un golpe militare (Chad). Quello che colpisce è il fatto che che tutti questi eventi, con l’eccezione di uno, sono accaduti nella stessa regione, in Africa Occidentale. Quello che decisamente colpisce è che sono accaduti nell’Africa Occidentale francofona. L’eccezione è il Sudan e i casi in Africa Occidentale sono Mali, Guinea e Burkina Faso. Un dettaglio finale: in tutti e tre i casi non si parla di un “ritorno”. Negli ultimi quindici anni – una finestra temporale forse troppo ampia per i media – colpi di stato sono accaduti in Guinea (2008), in Mali (2012) e in Burkina Faso (2015). Il Niger, che non figura nella recente ondata, ha subito un colpo di stato in quel periodo (2010) ed è sfuggito a un altro tentativo di golpe solo lo scorso anno.

Tutto questo senza contare un tipo di golpe che generalmente sfugge ai media – il colpo di stato costituzionale, anche questo una specialità dell’Africa Occidentale francofona, la quale ne ha subito una serie incominciando in Niger nel 2009. (Il Ciad, menzionato sopra, è un’illustrazione poco chiara del fenomeno). I colpi di stato costituzionali si configurano come modificazioni brutali della costituzione o – come nel caso del Niger del 2009 – di abolizione della costituzione stessa così che il presidente in carica possa ottenere un nuovo mandato, nonostante il divieto costituzionale. Fatta l’eccezione della Costa d’Avorio, questi golpe costituzionali sono finiti male dovunque ci sia stato il tentativo di attuarli, due volte grazie ad un colpo di stato militare (Niger 2010, Guinea 2021), due volte grazie alla resistenza popolare (Senegal 2012) e all’insurrezione (Burkina Faso 2014).

Il più recente di questi “colpi di stato africani”, quello del Burkina Faso, dovrebbe essere compreso all’interno di tale contesto. La maggior parte dei golpe nell’Africa Occidentale francofona si sono svolti nel contesto del conflitto fra politici, determinati a rimanere al potere a qualunque costo, e cittadini, che aspirano ad essere veri cittadini, cioè un popolo governato dalle leggi, da libere elezioni e dalla partecipazione politica – due ambizioni diametralmente opposte. Tuttavia non tutti i colpi di stato rientrano in questa descrizione: i golpe in Mali e in Burkina Faso ci raccontano una storia diversa. In altre parole la descrizione di “colpo di stato militare” non è molto di aiuto, dato che i colpi di stato militari portano con se significati molto diversi fra di loro. Degli ultimi tre golpe nell’Africa Occidentale francofona quello in Guinea si inserisce nel contesto del conflitto democratico, essendo una risposta al colpo di stato costituzionale diretto dall’ex presidente Alpha Condé. Tuttavia in Mali e in Burkina Faso i golpe sono entrambi golpe di “sconfitta”, cioè sono colpi di stato in risposta a sconfitte di guerra. Ma persino in questi due casi ogni golpe è accaduto in contesti nazionali molto specifici e le loro conseguenze non saranno le stesse fra loro.

Il contesto, in entrambe le nazioni, è quello di un’intensa crisi di sicurezza innescata da una guerra di logoramento asimmetrica condotta dai Jihadisti, vagamente affiliati a Stato Islamico e Al-Qaida, contro gli stati del Sahel centrale (Burkina Faso, Mali e Niger) – in Mali e Niger dal 2012 e in Burkina Faso dal 2015. Il Mali è stato sconfitto sin dall’inizio ed è stato salvato solo grazie all’intervento francese con l’Operazione Serval (inizio 2013). Ma, da allora, i Jihadisti hanno sviluppato una strategia di guerra di logoramento che ha avuto un impatto devastante in tutti e tre gli stati, effettivamente rimuovendo lo stato da grosse fasce di territorio, tra cui i distretti che circondano la capitale del Niger, l’intero Nord e centro del Mali – più o meno metà della superficie totale del paese, seppur scarsamente popolato – e più di un terzo del territorio in Burkina Faso.

“Rimuovere lo stato” in questo contesto significa concretamente che queste regioni sono zone di guerra, dentro le quali la vita normale è diventata impossibile. Le popolazioni subiscono uccisioni di massa o sono soggette a tributi da pagare ai jihadisti, o ad altri gruppi armati, e le forze di difesa e di sicurezza nazionali vengono severamente degradate. Dal momento che questo processo non è nuovo, ma si è sviluppato lentamente ed inesorabilmente nel corso degli anni, sconfitta è l’unica parola per descrivere questi fatti, una sconfitta strisciante. I regimi sconfitti posano sempre su un terreno instabile – una chiara lezione di storia per tutto il mondo. Avendo perso la pazienza, i popoli del Sahel si sono rivoltati contro i loro regimi in Mali e in Burkina Faso, sebbene non in Niger, dove la rabbia bolle nella sua regione più colpita (nell’Ovest) ma non altrove. Le popolazioni del Sahel, inoltre, si sono rivoltate contro i francesi, che sono stati coinvolti nel conflitto sin dai giorni dell’Operazione Serval – poi rinominata Operazione Barkhane – ma ugualmente inefficaci, riuscendo solamente ad inasprire il risentimento superficiale che molti africani francofoni nutrono nei confronti del vecchio colonizzatore. Nel dicembre dello scorso anno un convoglio logistico dell’Operazione Barkhane partito dalla Costa d’Avorio e destinato nel Mali settentrionale è stato attaccato dal popolo adirato quando il convoglio ha attraversato il Burkina Faso e il Niger occidentale.

Di fronte al fallimento dei governi eletti i popoli desiderano, apertamente o segretamente, l’assunzione del potere da parte dei militari, dal momento che il popolo attribuisce il fallimento dei governi agli imbrogli e alla corruzione con cui i leader eletti conducono la cosa pubblica. Pienamente consapevoli di ciò, i governanti diventano sospettosi delle forze armate e questo non giova in tempi di guerra. Questo è il coacervo di problematiche da cui – prevedibilmente – è derivato il golpe in Burkina Faso.

Delle tre nazioni del Sahel il Burkina Faso era la nazione in cui la politica prometteva di più. Più dei maliani e dei nigerini, i burkinabe hanno sentimenti nazionali e patriottici. Nel Mali, i cittadini del Nord vivono letteralmente in un paese diverso rispetto ai cittadini del Sud; il Niger è diviso fra nigerini orientali, che tuttora cavillano su come i nigerini occidentali hanno monopolizzato il potere nei primi trent’anni di indipendenza, e nigerini occidentali che ora si sentono una minoranza vilipesa. Tali geopolitiche interne distruttive, seppur presenti anche in Burkina Faso, sono colmate in Burkina da un forte senso di destino comune che ha portato ad eventi unici come la deposizione del presidente Maurice Yaméogo da parte del popolo nel 1966, la rivoluzione di Thomas Sankara del 1983 e la deposizione del presidente Blaise Compaoré nel 2014. Nel 2015 il popolo ha sconfitto un golpe che aveva l’intenzione di ristabilire la presidenza di Compaoré. Sono gli eventi guidati dai cittadini nel 2014-2015, da cui deriva il rovesciamento del regime costituzionale il 24 gennaio di quest’anno.

Il golpe è popolare. Contrariamente ai suoi colleghi in altre nazioni francofone nella regione, il presidente estromesso Roch Kaboré è stato eletto, e successivamente rieletto, in seguito a elezioni comparativamente libere e corrette. Anche se il suo governo inevitabilmente aveva critici e oppositori, dal 2015 la politica burkinabe era la più liberale dell’Africa Occidentale francofona in termini di libertà dei cittadini e di rispetto per l’opposizione. Ma la crisi di sicurezza è diventata un peso insostenibile. La crisi di sicurezza è diventata la priorità assoluta di Kaboré, il quale ha indossato il mantello di ministro della difesa, oltre alla presidenza, ma senza una strategia apparente e senza che le riforme accompagnassero questa presa di posizione. Arrivati al 2022, più di 1,5 milioni di burkinabe sono stati costretti ad abbandonare l’Est e ill Nord del paese– che è il terreno di gioco del gruppo Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslim (JNIM, “Gruppo per il Supporto all’Islam e ai Musulmani) affiliato ad Al-Qaida – e più di 2.000 persone sono morte in innumerevoli attacchi alla popolazione. Le forze armate hanno incontrato molte battute d’arresto, l’ultima delle quali nella località di Inata, al confine tra Mali e Burkina Faso, ha scatenato la rabbia in tutto il paese, dopo che sono emersi dettagli in cui i gendarmi assediati si sono rintanati ad Inata senza scorte di cibo e senza supporto logistico. Sono stati costretti a cacciare per procurarsi cibo, nonostante il governo sostenesse di aver allocato al settore della difesa ingenti risorse. Nello shock nazionale, 53 gendarmi sono stati uccisi nell’attacco e la base militare è stata completamente distrutta dagli Jihadisti, che si sono presi il tempo di filmare la loro impresa.

Il settore della difesa del Burkina Faso aveva chiaramente bisogno di essere riformato, ma nessuna riforma era disponibile. All’inizio del 2021 il presidente francese Emmanuel Macron, frustrato si è spinto a dichiarare alla stampa – in via ufficiale – che il presidente Kaboré si rifiutava di riformare il suo esercito per paura di un golpe militare. Anche molti nell’esercito burkinabe credevano a questa affermazione. Quando poi il golpe è andato realizzandosi, i fautori del golpe hanno fatto circolare programma di riforme in sei punti che essi ritenevano indispensabili per la guerra contro i Jihadisti. È emerso in seguito che questa richiesta di riforme, che ha portato alcuni a credere che “l’ammutinamento” fosse solo “unionismo khaki”, una manovra che i fautori del golpe hanno utilizzato per ingannare il governo affinché potessero agire nell’oscurità. Tuttavia queste richieste sono state significative, soprattutto perché chiedevano le dimissioni di alcuni dei vertici vicini a Kaboré; queste richieste erano state espresse nei mesi precedenti dai giovani ufficiali, ma sono state ignorate in un contesto in cui l’esercito era profondamente diviso lungo linee generazionali.

Inoltre la popolarità del colpo di stato è basata su miti preoccupanti. Molti in Burkina Faso credono che il vecchio despota Blaise Compaoré avrebbe gestito meglio la crisi jihadista. Vi è una convinzione infondata – un tempo condivisa dallo stesso Kaboré – che il regime di Compaoré avesse legami con alcuni gruppi jihadisti che proteggevano il Burkina dagli attacchi terroristici. Il fatto che il primo attacco terroristico in Burkina – un “classico” bombardamento cittadino che ha colpito Ouagadougou nel gennaio del 2016 – accadesse dopo il fallito golpe pro Compaoré del 2015, ha dato adito alla credenza che “i terroristi” pensavano di avere campo libero in Burkina Faso dato che il loro “alleato” era stato definitivamente eliminato dai giochi. In realtà i Jihadisti minacciavano il Burkina Faso sin dal 2013, data l’alleanza con la Francia, una decisa scelta politica del regime di Compaoré (quando è stato deposto l’anno seguente, è stato portato via dalle forze speciali francesi). Consapevole dell’intenso sentimento antifrancese che corre nell’opinione pubblica burkinabe, Kaboré ha accettato l’aiuto francese ma ha mostrato di limitarlo al minimo. Ciononostante, Kaboré ha accettato l’aiuto e questo ha rappresentato un peccato mortale per le sezioni più rumorose dell’opinione pubblica burkinabe. La Francia si è rivelata incapace di sconfiggere i jihadisti, nonostante abbia le risorse di un grande esercito occidentale. Questa impotenza risulta sospettosa e ha dato adito a teorie, rinforzate dai misfatti francesi del passato (veri o immaginari), per cui il vecchio colonizzatore usi i militanti allo scopo di destabilizzare il Sahel per prendere il controllo delle indicibili ricchezze che giacciono nel sottosuolo della regione.

Tali sentimenti e le pressioni che creano nel campo politico hanno già spinto il Mali nelle braccia della Russia. I maliani, per lo meno quelli che abitano nel Sud, vedono la Russia come il giusto deterrente contro il paese che loro considerano come il vero nemico, la Francia. Bandiere russe vengono sventolate alle manifestazioni di massa organizzate dalla giunta militare a Bamako per ottenere il consenso popolare – recentemente contro le sanzioni punitive imposte dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS). Bandiere russe sventolavano nel giubilo popolare conseguente al colpo di stato a Ouagadougou – ma nulla suggerisce che siano state fornite dal nuovo potere. L’opinione pubblica burkinabe da tempo si ispira al Mali. Due giorni prima del golpe, una manifestazione in supporto al “popolo del Mali” era stata vietata dal governo di Kaboré e le bandiere russe probabilmente erano già pronte per l’occasione. Alcuni sospettano che siano fornite da tirapiedi russi. L’instabilità dell’Africa francofona e la paranoia antifrancese presente in molte di queste nazioni è un vantaggio geopolitico che la Russia è felice di sfruttare nel contesto dell’emergente Guerra Fredda 2.0 contro l’Occidente.

Anche se un agente del gruppo mercenario Wagner – fondato dal “cuoco di Putin” Yevgeny Prigozhin – ha già twittato che erano pronti a rispondere a un appello da Ouagadougou e di aiutare dove la Francia “ha fallito”, non è chiaro se il Burkina Faso prenderà la strada del Mali (e della Repubblica Centrafricana, ora quasi interamente uno “Stato Wagner”). In quanto al sistema politico il Burkina Faso è stato molto meno danneggiato dalla crisi del Sahel rispetto al Mali. Kaboré non era un bersaglio di passioni animate – sfruttate al massimo da politici populisti come Choguel Maïga (ricompensato con il ruolo di primo ministro) o da demagoghi religiosi come Mahmoud Dicko – come quelle che hanno deposto l’ex presidente del Mali Ibrahim Boubakar Keïta nell’Agosto 2020. La rabbia era mirata all’incompetenza di Kaboré, non alla sua corruzione, e la democrazia presidenziale del Burkina Faso non permette la rimozione del capo del potere esecutivo mediante un voto di sfiducia. Per ora la giunta a Ouagadougou rivendica il ruolo di Lucio Quinto Cincinnato, non – come la giunta in Mali – quello di Giulio Cesare: ovvero vogliono essere i salvatori in tempo di guerra, non dittatori opportunisti. La figura di spicco nella giunta militare in Burkina Faso, il 41enne tenente colonnello Paul-Henri Damiba, è l’autore di una monografia sulle “risposte incerte” (dove incertaines è forse meglio tradotto come “poco chiaro”) degli eserciti dell’Africa Occidentale contro il terrorismo, che si legge in parte come una tesi di laurea e in parte come una profonda – e fredda – analisi del ruolo passivo e obsoleto degli eserciti del Sahel, attribuito loro dai governi degli stati del Sahel. Deplora inoltre la mancanza di “strategie di difesa nazionali”. Ho sentito precisamente la stessa rimostranza, fra gli ufficiali del Niger i quali – consapevoli dei sospetti nutriti dai loro governanti – divagano per sommi capi, a voce bassa, in materia. (Non oso mai incalzarli).

La prima mossa politica della giunta militare di Ouagadougou è stata di discutere con il governo Kaboré i termini su cui si potrebbe cooperare – in netto contrasto con la caccia alle streghe e l’acrimonia che ha seguito i colpi di stato in Mali. La classe politica e le organizzazioni di società civile si aspettano di partecipare pienamente al processo politico innescato dal colpo di stato, e nel suo primo discorso pubblico Damiba ha insistito che il Burkina Faso “ora più che mai ha bisogno del supporto dei suoi partner”, promettendo un rapido ritorno al governo costituzionale. Se l’ECOWAS è saggia, sfrutterà questo auspicio e farà del Burkina Faso un esempio su come mettere fine a un “golpe di sconfitta”. Ma chiaramente lo sviluppo più importante per la nazione – e la regione – sarà se questa azione renderà efficace la lotta contro i jihadisti.