La potenza di una foto. Fik intervista Mustafa Hassouna

Mustafa Hassouna è l'autore dell'ormai celebre ed iconico scatto "13th attempt to break the Gaza blockade by sea"

28 / 11 / 2018

Lo scorso 6 novembre Fik, un membro del collettivo Sherwood Foto, è stato a Gaza ed ha incontrato Mustafa Hassouna, fotografo palestinese dell'agenzia stampa turca Anadolu (Getty Images). Mustafa è l'autore dell'ormai celebre ed iconico scatto "13th attempt to break the Gaza blockade by sea", realizzato il 22 Ottobre in occasione di una delle manifestazioni legate alla "Grande Marcia del Ritorno" che si succedono dallo scorso Marzo ogni lunedì ad ovest di Gaza City ed ogni venerdì ad est di Khan Younis, e che hanno già fatto registrare la morte di oltre 200 manifestanti e il ferimento di migliaia di persone ad opera dei cecchini dell'esercito israeliano. Appena sei giorni dopo questa intervista, a seguito di un blitz dei mistaravim (corpi speciali infiltrati) israeliani a Khan Younis, intercettato da Hamas e il cui tragico epilogo è stata l'uccisione di 2 militari (un palestinese ed un israeliano) e 3 civili palestinesi ed il conseguente lancio di 200 razzi di rappresaglia dalla Striscia di Gaza verso Sderot; a Gaza si è assistito al più spaventoso e massiccio bombardamento degli ultimi 4 anni, dalla fine, cioè, dell'operazione militare "Margine Protettivo". Il bilancio di tale bombardamento è stato di sei vittime, ancora una volta purtroppo civili, almeno 7 palazzi rasi al suolo, tra cui edifici scolastici e strutture abitative, 200 famiglie sfollate e importanti vie di comunicazione interrotte.

Siamo stati nella Striscia di Gaza a Novembre 2018, poco più di 4 anni dopo l'ultima grande operazione militare israeliana in quei territori, denominata "Margine Protettivo". Per entrare in questa striscia di terra lunga 45 e larga tra 5 e 12 Km, che ospita 2 milioni di persone, di cui 800 mila bambini, ci sono due alternative: il valico di Rafah, attraverso l'Egitto, aperto ormai solo pochi giorni all'anno ed il valico di Erez, attraverso Israele, attraverso il quale si passa esclusivamente se si è in possesso di speciali permessi per motivi umanitari.

Il precario cessate il fuoco in atto nei giorni della nostra permanenza ci ha permesso di poter uscire, con cautela, anche dopo il tramonto ed incontrare Mustafa, che segue queste manifestazioni dall'inizio, di raccontarci la sua esperienza, e ciò che è emerso è il quadro abbastanza nitido di un popolo costretto fisicamente, da undici anni di blocco all'interno di quella che viene definita «la più grande prigione a cielo aperto del mondo», privato dei diritti umani più basilari, martoriato da Israele, dall'Egitto, da Hamas e dagli scontri di politica interna tra i due principali partiti palestinesi, ridotto alla fame e senza alcuna prospettiva per il proprio futuro, il cui unico modo per affermare il proprio diritto alla libertà e rivendicare la propria autodeterminazione è manifestare. Proprio il giorno in cui abbiamo realizzato l'intervista, il protagonista dello scatto è stato ferito ad una gamba, durante una manifestazione.

Fik: Buonasera dalla striscia di Gaza, oggi è il 6 novembre 2018.

È qui con noi Mustafa Hassouna, fotografo per l’Agenzia Anadolu - Getty Images che ha scattato qualche giorno fa una fotografia iconica diventata virale sul web attraverso la condivisione sui social network.

Si intitola “13th attempt to break the Gaza blockade by sea'', cioè ''Il tredicesimo tentativo di forzare il blocco di Gaza via mare'', la tua foto scattata dieci giorni fa che ritrae il giovane ventenne A'ed Abu Amro e che è la sintesi della resistenza Palestinese a ciò che Israele commette da oltre settant'anni senza mai subire sanzioni, spesso invertendo il ruolo tra vittima e carnefice. Che cosa significa oggi vivere e fare il fotoreporter a Gaza?

Mustafa: Vivere a Gaza, al di là dell’essere un fotoreporter, un medico o qualsiasi altra figura, è sempre un’esperienza differente rispetto agli altri luoghi della Terra. Ma, nello specifico, essere un fotografo che vive in prima linea, in modo da immortalare la realtà e farla vedere all’esterno, è molto pericoloso. Il fotografo può essere una figura-obiettivo, può essere un bersaglio, può essere ucciso.I cecchini dell’esercito israeliano (schierati al confine con la striscia di Gaza, ndr), infatti, non ti guardano come un fotografo o un giornalista, ma come un Palestinese. Ribadisco infatti che, vivere in Palestina, a prescindere dalla figura professionale che ricopri, è completamente diverso rispetto agli altri posti.

F: Sappiamo, infatti che, durante la Grande Marcia del Ritorno, tra le centinaia di persone uccise e le migliaia di persone ferite, ci sono stati diversi feriti fotografi e giornalisti, oltre che medici e paramedici…

Tornando all’immagine: la tua foto è stata accostata immediatamente, anche da molti studiosi di origine araba, al celebre dipinto “La libertà che guida il popolo” del pittore francese E. Delacroix, grazie alla diffusione sui social network questa foto ha avuto un’ampia visibilità, un’intensa condivisione, ed in pochi giorni è stata vista e ricondivisa da milioni di persone in tutto il mondo. Le due immagini, che rievocano lo stesso irrefrenabile senso di libertà e patriottismo, in realtà propongono due messaggi diversi. Le due opere avvincenti raccontano lo stesso concetto di indipendenza dei popoli e l’importanza dei diritti umani; c’è, però, una netta differenza: il pittore francese celebrava, col suo quadro, una vittoria già avvenuta; la tua fotografia, Mustafa, invece non può far altro che riprendere qualcosa in atto di compimento. Dopo mesi dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno e, come detto, numerosi morti e feriti, possiamo ancora parlare in questo momento di una forte mobilitazione popolare qui a Gaza o si sta riducendo all’azione di piccoli gruppi?

M: Ci sono ancora movimenti popolari, non si stanno riducendo. A prescindere dalla questione politica, il popolo che va lì (a manifestare ai pericolosi confini ad est di Khan Younis e sulle spiagge a nord della Striscia,ndr), collocandosi in un posto in cui si è estremamente esposti, a diretto contatto col pericolo, lo fa perché si sente oppresso, perché sente che i propri diritti umani sono stati calpestati troppe volte e troppo a lungo. Le manifestazioni servono a richiamare l’attenzione sul desiderio di riappropriarsi dei propri diritti di essere umano. La mobilitazione andrà avanti a oltranza, finché ci sarà questa situazione di ingiustizia. Nel momento in cui ci sarà nuovamente giustizia, e verranno ripristinati i più basilari diritti umani, con la possibilità per il popolo palestinese di poter vivere come tutti gli altri popoli del mondo, non ci sarà più bisogno di queste fotografie. Questo è un parere non politico, ma da fotografo.

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F: Hai visto una riduzione nella partecipazione popolare o c’è ancora una forte partecipazione della gente? (Numericamente…)

M: è ancora alta la mobilitazione.

F: A Gaza vi sono molteplici violazioni dei diritti umani, qui da undici anni è presente una situazione di apartheid, e lo chiamiamo così senza paura di sbagliare sostantivo.

Vorrei lasciare per un attimo la parola a Saher che, nonostante in questa occasione si sia prestato come interprete-traduttore, nella vita, qui a Gaza, svolge la professione di cardiochirurgo. Visto che vivi questa situazione quotidianamente, quali sono le mancanze a Gaza? A partire dalle 4 ore al giorno di elettricità, l’acqua potabile che non esiste, (il 97% dell’acqua ha la qualità dell’acqua di fogna), la mancanza di salari, di lavori…

S: Secondo me hai elencato già molti dei problemi più rilevanti, ma ad ogni modo, qui a Gaza il problema è che c’è innanzitutto un blocco, un limite alla libertà di movimento, sembra di stare in una prigione ad aria aperta…

F: … la più grande prigione a cielo aperto del mondo potremmo dire…

S: Sì, non puoi muoverti liberamente, questo diritto umano nella striscia di Gaza non esiste, oltre a mancare tutte le cose essenziali per avere una vita dignitosa… L’elettricità non c’è 24 ore su 24: a volte l’abbiamo per 4 ore, altre volte, addirittura, solo per 2 ore al giorno L’acqua potabile come hai detto prima…

Come medico, posso riferire che abbiamo scarsità di medicine, di farmaci, di strumenti. Io lavoro come cardiochirurgo utilizzando il minimo indispensabile e alle volte cercando di arrangiarmi ed adeguarmi alla necessità del posto, spesso arrabattandomi per riuscire a fare qualcosa.

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F: Poi bisogna anche dire che l’esercito di Israele, più che mirare ad uccidere, mira a ferire per creare invalidi permanenti, in modo da gravare sul costo dell’assistenza sociale e sanitaria. A partire dall'inizio della Grande Marcia del Ritorno, l’esercito israeliano ha utilizzato dei proiettili a frammentazione, proibiti dal diritto internazionale e dall’etica di guerra. Quando tali proiettili colpiscono il bersaglio, si frammentano, fratturando in mille pezzi l’osso…

S: Sì, le ferite da questi proiettili rendono vano qualsiasi tentativo di chirurgia ricostruttiva, per cui il paziente arriva in ospedale solo per l’amputazione.

F: tornando alla nostra fotografia, (la parentesi andava fatta e poi magari sarà approfondita) ... Forse proprio per l’impatto emotivo e per il suo essere forte e contemporaneamente iconica, la tua foto ha suscitato reazioni contrastanti. C’è chi ha scritto che il paragone (quello con l’opera di Delacroix, ndr) sia un elogio alla violenza e chi invece ha commentato che celebrare un manifestante di Gaza, di certo legato ad Hamas, sia una follia.

Dal suo canto, il giovane protagonista della foto, che tra l’altro è stato ferito proprio 24 ore fa (5 novembre, ndr) alla gamba, durante una manifestazione al confine marittimo, ha dichiarato: “Non vado alle proteste per farmi fotografare, ma questo mi incoraggia a continuare a manifestare, la bandiera che avevo è la stessa che porto a tutte le proteste a cui ho partecipato, questa bandiera per me è importante. Reclamiamo il nostro diritto di ritornare alle nostre terre, protestiamo per la nostra dignità e per la dignità della futura generazione.”

La Grande Marcia del Ritorno, che è cominciata nel marzo 2018, va avanti ogni venerdì ed ogni lunedì qui ai confini con Israele. Le rivendicazioni riguardano l’applicazione della Risoluzione ONU 194 del 1948. Come credi che evolverà la situazione?  Vuoi raccontarci qualche aneddoto particolare di queste manifestazioni che segui da quando sono iniziate?

M: La cosa che più mi ha impressionato, più che un aneddoto, è che questi ragazzi vanno al confine nonostante tutto, come il soggetto della foto di cui stiamo parlando, e a cui hanno sparato alla gamba. Mi chiedo continuamente perché tutta questa insistenza, nonostante conoscano così bene il serio pericolo al quale si espongono. Sono arrivato alla conclusione che questi ragazzi sono talmente disperati che cercano di reclamare a gran voce il loro desiderio di avere un minimo di diritti umani, non per forza il 100%... ma almeno il minimo indispensabile che potrebbe garantirgli una vita che valga la pena di essere considerata dignitosa.

F: … è il loro modo di gridare al mondo “Esistiamo”… “Reclamiamo diritti”, come tutti i popoli in rivolta contro le oppressioni per garantire l’esistenza alle future generazioni sono pronti a donare la propria…

M: … più li opprimi più resistono. La resistenza viene continuamente alimentata.

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F: Credi che il giornalismo, in senso ampio, stia aiutando la causa Palestinese? Pensi che si potrebbe fare di più, anche in vista del fatto che recentemente gli USA hanno interrotto i fondi all’UNRWA?

M: Fare il giornalista è una fra le professioni socialmente più utili ed importanti. Il ruolo del reporter, per me, consiste nel trasmettere immagini vere, senza aggiungere altro. In passato, il governo israeliano pilotava le informazioni delle televisioni e delle agenzie giornalistiche: le notizie che non dovevano arrivare, non arrivavano o arrivavano distorte. Ora, con i nuovi mezzi di comunicazione sociale, è diventato molto più facile; non solo una foto, o un reportage, ma qualsiasi cosa su internet, su Facebook, può arrivare a diffondersi in tutto il mondo […]. C’è qualche altra cosa che si può fare? Beh, personalmente, come fotografo palestinese, più di quello che faccio attualmente, non si può fare. Basterebbe trovare, delle volte, una porta per riuscire a far passare un’informazione che può avere un grande impatto sull’opinione pubblica. Sono abbastanza coinvolto emotivamente nel mio lavoro, anche perché sono palestinese, quindi naturalmente portato ed interessato anche ad ascoltare il mio popolo. Le immagini sono veritiere e rappresentano quel che succede, senza mediazioni. Perciò, attraverso la visione e l’analisi dell’immagine fotografica, ciascuno può ricavare il proprio giudizio, e si possono raccontare delle realtà che, in passato, venivano occultate.

È per questo motivo che trovo il mestiere di reporter parecchio rilevante: se prima non sentivo parlare quanto desideravo della questione palestinese, perché mi sembrava che l’informazione fosse filtrata attraverso espedienti politici; ora, grazie a questo lavoro, posso dare il mio piccolo contributo, anche attraverso un’immagine del genere che ha un impatto emotivo e, di riflesso sociale, enorme; trovo che questo sia importantissimo.

Si può fare di più aiutando non il giornalista in sé, come persona, ma il giornalismo internazionale, dando alle persone la possibilità di esprimere un pensiero libero da influenze e pregiudizi, in modo da poter osservare la realtà.

F: Dalla la democratizzazione dell’informazione e dalla diffusione capillare dei social network, deriva purtroppo anche una manipolazione, cosa che avviene soprattutto attraverso i social… da noi ad esempio c’è la diffusione di fake news volte a canalizzare il consenso politico e dunque i voti. L’occupazione sionista invece le utilizza per fare informazione per i propri interessi… cosa ne pensi? Come Comunità internazionale potremmo far qualcosa per evitare la diffusione di bufale, fake news e notizie manipolate riguardo l’occupazione sionista nei Territori Palestinesi?

M: In una situazione di guerra anche mediatica, il modo migliore per far arrivare le informazioni corrette in Europa e in Occidente, sarebbe la creazione e l’individuazione di luoghi (fisici e virtuali, ndr), di centri, di punti di riferimento. Se un Palestinese parla con un altro Palestinese della questione palestinese, non servirà una mediazione culturale, se invece ne parla con un europeo, è importante scegliere come parlarne. In Europa (in Occidente in generale, ndr) bisogna scegliere di parlare di vita anziché di morte, perché la mentalità è diversa, le immagini di sangue non fanno più impressione, si cambia pagina, si cambia canale; se  invece mostri un ragazzo con un arto amputato che cerca di vivere una vita normale, avrà un impatto diverso: si parla, in questo caso ancora di vita. I Palestinesi, qui a Gaza, fotografano, registrano, conservano del materiale, ma per la diffusione degli stessi nella comunità internazionale vi è la necessità di focolai di diffusione intelligente e consapevole in Europa. Da europei bisogna parlarne con altri europei, con la mentalità europea, di quella vita e della voglia di diritti; non solo della morte e del sangue.

(Con la collaborazione di Associazione Ya Basta Êdî Bese​ e Sherwood Foto​)

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