La partita aperta in Turchia per le future elezioni del 2023

Ad oltre un anno dalla elezioni presidenziali sono iniziate le mosse per la presidenza della Turchia nel centenario della fondazione della Repubblica.

22 / 2 / 2022

Sembra muoversi qualcosa nel panorama politico turco e sembra che questo movimento riguardi da vicino le prossime elezioni presidenziali in programma per giugno 2023, nel pieno dei festeggiamenti per il centenario della Repubblica di Turchia. Gli ultimi anni sono stati dominati in lungo ed in largo dalla pesante ed ingombrante figura di Recep Tayyip Erdogan.

Nessuna figura politica nella storia della Turchia, ad eccezione di Mustafa Kemal “Ataturk”, ha saputo attirare così tanto verso di sé l’attenzione. Parliamo di un personaggio che solca i mari tempestosi dell’arena nazionale e internazionale da oltre un ventennio e che, indubbiamente, ha saputo traghettare la Turchia un ruolo di attore protagonista in tutte le vicende politiche, economiche e sociali dell’area mediorientale e non solo. Ha saputo, con incredibile astuzia ed acume politico, ergere la Turchia e, avendone impersonificato le sorti, la sua figura a faro e ago della bilancia di molte questioni nazionali ed internazionali, dal Mediterraneo Orientale al Caucaso, dai Balcani al Corno d’Africa.

Ad Erdogan va sicuramente dato il merito di aver costruito un paese forte, capace di dire la sua in qualsiasi ambito, di rispondere presente a qualsiasi appuntamento e di aver saputo muovere uomini e mezzi in ogni luogo dove si fosse potuto sfruttare un qualsiasi interesse strategico o un guadagno geopolitico. Su questo argomento non si può dibattere, i fatti parlano per lui: probabilmente ben consigliato da uno staff all’altezza delle sfide che andava incontrando, Erdogan ha saputo infilarsi in ogni situazione critica dove fiutava possibilità di guadagno e di influenza. Ma a che prezzo tutto questo?

Quasi certamente gli ultimi anni che portano alla ricorrenza del Centenario della Repubblica di Turchia verranno ricordati dalla storiografia come una continua erosione costante di diritti politici e civili, di violenza ingiustificata, insomma di un graduale ma continuo decadimento degli stessi principi che avevano fatto muovere i primi passi in politica ad Erdogan e al suo entourage, via via sempre più ristretto. La Turchia, da modello di sviluppo per i regimi della sponda sud del Mediterraneo e per tutti quei paesi che vedevano nel modello di integrazione dell’Islam in politica portato avanti dall’AKP, è diventata ben presto la capostipite dei paesi dove è stata la repressione a far scuola per tutti coloro che vedevano nelle aperture democratiche una via d’uscita dagli status quo. 

Erdogan è riuscito a far dipendere il destino della Turchia e dei popoli che la abitano dalle sue vittorie e/o sconfitte in politica internazionale. Il sistema politico turco, da modello di apertura democratica e di coinvolgimento della religione nella sfera politica, è diventato invece l'esempio per tutti quei sistemi politici in crisi d’identità ed incapaci di sostenersi se non attraverso l’uso della forza e della repressione. 

In questo contesto di totale atomizzazione politica sono tornate a farsi sentire anche le opposizioni, ovviamente in ottica elettorale. Alcuni giorni fa, sei partiti di opposizione si sono riuniti cercando di far confluire su alcuni punti comuni le proposte per le prossime elezioni. Dal documento che ne è uscito si evince che questi partiti, tra cui il CHP principale partito d’opposizione, ritengono che il sistema presidenziale ora in vigore in Turchia concentri troppi poteri nelle mani del Presidente e che l’attuale crisi politica ed economica sia dovuta alla gestione totalmente arbitraria del potere alla continua erosione della democrazia da parte del Presidente stesso che governa sempre di più tramite decreto presidenziale, esautorando di fatto il Parlamento di Ankara. Le critiche di questo documento puntano inoltre il dito contro la mancanza di indipendenza del potere giudiziario, pesantemente colpito dalle purghe post tentato golpe del 2016 e dal fatto che tutte le altre cariche dello Stato siano di fatto pedine che svolgono ruoli di rappresentanza. Va ricordato a questo punto che le opposizioni ci hanno messo solo cinque anni per giungere a tale conclusione e va rimarcato che il Partito Democratico dei Popoli HDP non era presente all’incontro e non ha quindi sottoscritto il documento mantenendo così la sua autonomia politica che lo caratterizza fin dalla sua nascita.

Le opposizioni riunite hanno inoltre indetto una conferenza stampa per il 28 febbraio prossimo, dove sveleranno i loro piani per le prossime elezioni presidenziali: la scelta della data non è casuale perché coincide con l’anniversario del Memorandum del 1997, in cui l’esercito difensore della Costituzione laica, di fatto imponeva lo scioglimento del governo a guida filo-islamista, di fatto predecessore delle idee dell’AKP di Erdogan. Sicuramente un nodo che le opposizioni dovranno sciogliere è quello di chi candidare alla presidenza, ben consci che di fronte avranno il deus ex-machina della politica turca, colui che ha garantito gioie e dolori negli ultimi vent’anni in Turchia, e non solo.

La partita delle elezioni non si gioca solo in politica interna, ovvero in campo amico ma come spesso è accaduto per la Turchia negli ultimi anni, anche la politica estera aiuta a guadagnare consensi o a spostarli. Abbandonata da qualche anno la dottrina che aveva caratterizzato i primi anni dei governi dell’AKP e di Erdogan “zero problemi con i vicini” per sposare una politica diametralmente opposta di “problemi con tutti, vicini e non” si assiste nell’ultimo periodo ad una serie di mosse e riposizionamenti che delineano una nuova rotta per la politica estera turca.

Passati quasi indenni gli uragani delle Primavere Arabe e della guerra in Siria, l’establishment turco sembra essersi reso conto che la politica di potenza, dove si mostrano i muscoli e si agisce principalmente in via militare è più conveniente anche se non ha sempre prodotto i risultati sperati. Va detto e rimarcato che non si sta parlando di una rivoluzione nella visione della politica estera turca ma solo di alcuni accorgimenti che ne delineano un cambiamento importante: la potenza militare rimane come deterrente, piuttosto vengono esportate tecnologie e conoscenze che risultano sempre più fondamentali nei campi di battaglia, e si prediligono accordi ed avvicinamenti con paesi considerati nemici fino a qualche mese fa. Ovviamente tutto ha un suo perché e le elezioni prossime sono sicuramente una motivazione importante.

Le fortune di Erdogan, e quindi quelle della Turchia, sono spesso passate dalla politica estera per la quale per molto tempo ha pagato buoni dividendi alzare la voce, dispiegare le navi e far alzare in volo i bombardieri presentandosi nell’area come potenza capace di decidere le sorti comuni, la Siria ne è esempio perfetto. Ora Erdogan sembra invece più incline all’accordo e al tentativo di ricucire rapporti politici, presentandosi così come l’unico e il solo capace di tenere unita la Turchia: in quest’ottica vanno visti i riavvicinamenti con Emirati Arabi e Israele ed il cambio di politica in Libia.

L’obiettivo di Erdogan è chiaro: vuole confermarsi al comando della sua Turchia e lo vuole fare mettendo tutte le pedine in suo possesso al posto giusto, pronte a garantirgli altri cinque anni di gloria, portandolo così nel pantheon politico turco, al pari di Ataturk ma pronto ad ergersi a più grande di tutti.

La corsa per le elezioni è iniziata e non ci siamo nemmeno allacciati le scarpe.