La necessità di dire cose scomode

3 / 12 / 2019

Penso che quando si è in un momento di riflessione in una congiuntura come questa, il produttore del testo storico-politico non deve privilegiare la persuasione del pubblico ma la ricerca della spiegazione per sé stesso e per coloro sono impegnati nel processo. Quando tutto ciò ottiene coerenza e attendibilità si può tornare alla spiegazione per tutti gli altri (Luis Tapia).

Non risponderò alla domanda se in Bolivia c’è stato o meno un colpo di stato. A questo punto dovreste aver già assunto una postura al rispetto e poco può fare questo – o qualsiasi altro – testo per cambiarla. Senza entrare nel dualismo in cui questa discussione ci rinchiude, mi domando: possiamo attribuire solo alle forze imperialiste e alla destra boliviana le cause della sconfitta del governo di Evo Morales? Veramente crediamo che il destino delle nostre società e il limite della realizzazione dei nostri progetti politici è completamente determinato dagli interessi esterni?

Dall’altro lato, possiamo affermare con totale certezza che le potenze straniere non sono state implicate nella pianificazione o nel finanziamento degli eventi successi in Bolivia? È una novità che i nostri paesi latinoamericani sono stati e continuano a essere uno scenario di disputa interimperialista?

Questa guerra di posizioni più che rafforzare convinzioni proprie, non aiuta a comprendere ciò che sta succedendo in Bolivia. Ognuno crede e replica unicamente ciò che è più conveniente alla propria postura, annullando qualsiasi altra posizione che dissenta.

Porsi delle domande da un lato è essere golpista, dall’altro e volere che torni Evo Morales. La crepa che sembra si sia aperta negli ambienti accademici, nei media e nelle reti sociali, si è riaperta con i negoziati in corso tra il Movimiento al Socialismo e il Governo di Jeanine Añez che ha già portato al risultato dell’approvazione della “Legge di Regime Eccezionale e Transitorio per la realizzazione di Elezioni Generali”.

Ancora ci fanno male i morti, tutti. Nessuno dovrebbe pagare con la vita l’abuso di potere. Ci fanno male anche le ferite che questo conflitto ha aperto nella società boliviana e che impiegheranno tempo a rimarginarsi. Nelle strade e nelle piazze c’è una calma tesa, la gente rimane pronta a mobilitarsi, in riunioni auto convocate, nei parlamenti delle donne. Lontano da chi stigmatizza la critica, in Bolivia questo è un momento di discussione politica. 

Come siamo arrivati fino a qua?

Il passato 10 novembre ci siamo svegliati con l’annuncio di nuove elezioni di Evo Morales. Poche ore prima, la OEA aveva presentato un report preliminare nel quale denunciava la manipolazione del sistema elettorale e la non validità dei risultati del 20 ottobre. Gli eventi sono precipitati nelle ore seguenti. Quel giorno si è concluso con la rinuncia del presidente che ha denunciato il “golpe civico-politico-militare”. Questo deve essere considerato un punto di rottura nell’analisi. Non l’inizio. È noto a tutti che Evo Morales è arrivato alla presidenza con un ampio appoggio popolare, contadino e indigeno nelle elezioni del 2005. Le mobilitazioni popolari che hanno preceduto quelle elezioni sono state un accumulo di lotte e rivendicazioni che non si esaurivano con la presa del potere: le richieste erano la nazionalizzazione delle risorse naturali e la rifondazione dello Stato plurale e comunitario attraverso un’Assemblea Costituente. Sembrano lontani quei giorni e quei sogni.

Hanno perso la vita trentatre persone secondo i dati ufficiali. Molti di loro vittime della repressione dell’esercito che gode oggi dell’impunità per un Decreto Supremo concesso dall’attuale presidente dello Stato Plurinazionale. Esiste un accerchiamento mediatico e, a volte, un’intossicazione di notizie false diffuse dalle reti sociali che producono una miscela di incertezza, paranoia e rivincita nella società boliviana. 

Come siamo arrivati fino a qua? Ci domandiamo. E questa è una domanda abbastanza scomoda. Per ripensare alla complessità del presente ho fatto ricorso a due intellettuali che hanno avuto la chiarezza - e l'amarezza - per interpretare la realtà sociale e politica del loro tempo in termini di processo storico come René Zavaleta e Sergio Almaraz. Entrambi hanno prodotto le cose più lucide del pensiero nazionalista durante la decade del ’60 quando hanno analizzato le condizioni interne come punto di partenza per spiegare le ingerenze esterne nel golpe di Barrientos del 1964.

È difficile che poche linee di pensiero riescano a condensare un’analisi completa del cosiddetto “Processo di Cambiamento”. Tuttavia, mi interessa segnalare alcuni aspetti che dimostrano la scomposizione delle relazioni tra le organizzazioni sociali e il MAS prendendo come punto di riferimento gli attori mobilitati dopo le elezioni del 20 ottobre.

Composizione delle mobilitazioni: una breve genealogia degli attori.

Si è instaurata l’idea, nell’opinione pubblica nazionale e internazionale, che le mobilitazioni scoppiate dopo il 20 ottobre fossero delle forze politiche e civiche dell’oligarchia dell’Oriente. A partire da questa premessa, l’analisi sembra semplice: la destra ha ideato con successo un piano che con l’aiuto nordamericano e con l’alleanza delle forze di polizia e militari, ha ottenuto la caduta di Evo Morales.

I. Santa Cruz de la Sierra

Lo sciopero generale è iniziato il 22 ottobre ed è stato convocato dal presidente del Comitato Civico Pro Santa Cruz, Luis Fernando Camacho. Vale la pena sottolineare che questa organizzazione riunisce il settore imprenditoriale cruceño, baluardo in difesa degli interessi della oligarchia. A seguito della sconfitta del progetto di autonomia che ebbe il suo punto di maggior splendore nel 2008 e la caduta dei leader Branko Marinkovic e Rubén Costas, le forze civiche e i principali corporazioni imprenditoriali sono scomparse dalla scena politica. Dimostrazione ne è che le mobilitazioni per il rispetto del risultato del referendum che ha detto “No” alla rielezione di Evo il 21 febbraio 2016, hanno visto protagonisti i giovani senza una chiara direzione politica.

L’intenzione del MAS di far coincidere l’inizio del conflitto post 20 ottobre come una lotta etnico-razziale è messa in discussione ricordando l’accordo politico implicito che gli imprenditori e i partiti politici cruceños hanno stabilito con il partito di governo, attraverso di concessioni economiche e normative: la legge numero 337 detta del “perdonazo” per la revisione della Funzione Economico Sociale della Terra; le autorizzazioni ai transgenici nelle coltivazioni di mais, cotone e canna da zucchero; la regolarizzazione dei disboscamenti non autorizzati; la liberalizzazione delle esportazioni; l’accordo con la Cina per l’esportazione di carne ampliando la frontiera agricola e zootecnica sono alcune delle misure che hanno favorito il settore agricolo e industriale.

Luis Fernando Camacho è stato catapultato sulla scena pubblica nel cabildo del 4 ottobre, quando la popolazione, già mobilitata in precedenza per gli incendi nella Chiquitania, si è data appuntamento ai piedi del Cristo Redentore per domandare l’abrogazione dei Decreti Supremi che fanno parte del pacchetto di concessione già menzionati che sono stati la causa di quel disastro ambientale. Il leader civico si è fatto largo tra una eterogeneità di attori che hanno espresso il proprio rifiuto alla politica di impunità del governo di Morales. Questo è stato il germe delle mobilitazioni in difesa della democrazia delle scorse settimane.

Chiunque conosca la città cruceña sa che uno sciopero civico non è possibile se i settori imprenditoriali e dei trasporti urbano e degli autotrasportatori non lo permettono. Ci sarebbe da analizzare anche, a livello nazionale, quei settori considerati bastioni del MAS che non si sono mobilitati per difendere il “processo di cambiamento”. Sarà che le strategie di divisione e cooptazione delle organizzazioni sociali, i candidati imposti dagli operatori di Evo Morales (lasciando in disparte le decisioni delle basi) o le misure a favore degli imprenditori, hanno presentato il conto? «La politica si realizza sulla base di concessioni e tra queste e la sconfitta non ci sono che differenze lievi», spiegava Sergio Almaraz.

Dire che non sono esistite chiare espressioni razziste sarebbe mentire. Ne sanno qualcosa gli indigeni del Territorio Monte Verde che hanno subito intimidazioni da parte dei civicos a San Javier o l’imprenditrice Paola Aguilar che è stata obbligata a chiedere perdono per essere del MAS. In un dipartimento come Santa Cruz, le rivendicazioni regionali si trovano a pochi centimetri dal razzismo. Tuttavia, dire che l’origine e il fondo del conflitto è stato il razzismo è intenzionale. Prova di questo è la conferenza stampa di Álvaro Garcia Linera il giorno 28 ottobre dove mostrava immagini di un indigeno chiquitano picchiato dalla Unión Juvenil Cruceñista nel 2008 o le pubblicazioni dei parlamentari Adriana Salvatierra e Susana Rivero il 31 ottobre quando hanno denunciato “due morti del popolo povero che resistevano agli attacchi della destra”, riferendosi ai due membri della Unión Juvenil morti a causa di colpi di proiettili a Montero in uno scontro con gruppi del MAS. La gestione digitale della psicologia collettiva è stata una risorsa utilizzata da uno e dall’altro lato.

Credere quindi che a Santa Cruz si è mobilitata la destra per togliere l’indio dal potere non solo è oscurare famiglie intere, artisti e attivisti ambientali che sono scesi in strada, ma anche non permetterci di vedere che il MAS ha operato come una forza politica che ha generato le condizioni perché si potessero ricomporre le strutture di dominazione.

II. Chuquisaca

Il 2 ottobre nella città di Sucre, la Central Obrera Departemental (COD) iniziava uno sciopero della fame. Alla testa della protesta Carlos Salazar, e quella misura estrema è stata una delle tante che chiedevano la soluzione della scarsità di acqua potabile in varie zone di periferia. Nel 2017 a Sucre, ma anche a Cochabamba, La Paz, Potosí e Tupiza c’è stata una grave crisi per la mancanza di questa risorsa che è considerata oltretutto un diritto umano secondo la Costituzione Politica dello Stato. Le cause vanno dalle condizioni climatiche fino alla priorità nell’utilizzo dell’acqua per le attività minerarie. La cosa certa è che il problema persiste e le lunghe file dietro ai camion cisterne non sono terminate. «Stanno consegnando il governo alla destra per mancanza di gestione e incapacità», segnalava Salazar iniziando lo sciopero della fame.

Nel 2018 la dirigenza operaia chuquisaqueña ha protestato con i propri leader nazionali per essere caduti in un sistema clientelare e mafioso che, lontano da favorire le necessità dei lavoratori, si era convertito in operatore politico del MAS. «Stiamo sottomettendoci politicamente al silenzio e a non dire ciò che succede nel paese», hanno detto nel novembre passato quando hanno denunciato che la Central Obrera Boliviana (COB) aveva proclamato il binomio Evo-Álvaro nonostante la base avesse chiesto che fosse un operaio a essere il vice di Morales. 

L’acqua non era l’unico reclamo. Tra le domande più impellenti, oltre a quelle per il settore educativo, per la provvigione di medicinali per la Caja de Salud e le migliori condizioni lavorative, c’era anche la difesa del giacimento di gas di Incahuasi. Il conflitto era nato a partire dalla discussione dei limiti territoriali tra i dipartimenti di Chuquisaca e Santa Cruz che ha messo in discussione l’ubicazione del giacimento di Incahuasi e, di conseguenza, il pagamento delle regalie generate per il suo sfruttamento.

La disputa per i benefici economici del grande giacimento di gas, che entrò in produzione nel 2016, ha scatenato una serie di mobilitazioni, principalmente dei settori popolari di Chuquisaca, che riponevano lì le loro speranze di sviluppo. Le autorità del MAS hanno provato a negoziare con milionari investimenti nell’esplorazione di idrocarburi per il dipartimento, ma di fronte al loro rifiuto, hanno definito questi gruppi affini alle opposizioni, come di consueto.

Il conflitto si è spostato goffamente all’ambito giudiziario e istituzionale quando il Ministro della Giustizia ha annunciato la sospensione e il procedimento penale per un giudice di garanzia che decise di procedere al pagamento delle royalties in favore di Santa Cruz, interpretando una sentenza del Tribunale Costituzionale. I magistrati denunciarono l’intromissione e la mancanza di indipendenza degli organi dello Stato. 

Alla fine, Incahuasi rimase in mano al forte dipartimento di Santa Cruz, anche se considero opportuno chiarire che il giacimento è sfruttato da un 90% da imprese multinazionali e per un 10% di partecipazione di YPFB, percentuale sufficiente per evidenziare due problemi che persistono in Bolivia: il regionalismo e le rendite.

Nella lotta per Incahuasi si è consolidato anche il Comité Cívico de Defensa de los Intereses de Chuquisaca (CODEINCA). Il suo rappresentante, Rodrigo Echalar, è docente del fronte troskista della Unión Revolucionaria de Maestros (URMA) che ha assunto la presidenza civica nel 2017 con l’obiettivo dell’indipendenza politica dai partiti. Nei primi giorni delle mobilitazioni post 20 ottobre, ha costituito il blocco del sud assieme ai Comitati civici di Oruro, Potosí, Tarija, Chuquisaca e al comitato civico popolare di Cochabamba. Sono stati loro i primi a radicalizzare le proteste e a esigere la rinuncia di Morales di fronte alle evidenze di frode elettorale.

Tra le loro rivendicazioni troviamo: il recupero delle risorse naturali dalle multinazionali; gli investimenti per garantire un’educazione gratuita; il rispetto dei territori, diritti e dignità per i popoli indigeni e contadini; piena validità dei diritti del lavoro conquistati dalla classe operaia; e rifiuto alla repressione criminale delle proteste, contro le persecuzioni politiche, sindacali e giudiziarie dei dirigenti. Rivendicazioni che difficilmente possono essere catalogate di destra. «Questo governo sta ripetendo tutte le vecchie pratiche che ha criticato. È un governo neoliberista che svende la patria, sta regalando le nostre risorse naturali come il litio di Potosí, Tariquia e Chiquitania», denunciava Echalar nel cabildo aperto di La Paz il 31 di ottobre.

Ricordiamo inoltre che gli ayllus (famiglie) della Nazione Qhara Qhara – che hanno marciato solo pochi mesi fa reclamando il riconoscimento della propria autonomia indigena senza essere ascoltati dal governo del MAS – hanno fatto parte delle mobilitazioni del dipartimento di Chuquisaca. La lettera che hanno inviato a Evo Morales il 28 ottobre gli chiedeva: «Signor Presidente, dal profondo del nostro cuore e con grande rammarico ti diciamo, dove ti sei perso?». La Nazione Yampara dello stesso dipartimento in quei giorni si pronunciava così: «Evo si è rivelato essere più bianco di chi ha la pelle bianca».

III. Potosí

Quando è arrivato il giorno delle elezioni, Potosí era mobilitata già da mesi. Nel dicembre del 2018, Morales ha promulgato il Decreto Supremo numero 3738 con il quale disponeva la creazione dell’impresa mista YLB ACISA, tra la nazionalizzata Yacimientos de Litio Boliviano (YLB) e l’impresa tedesca ACI System Asociadas per lo sfruttamento del litio del Salar del Uyuni.

Quando a inizio del 2000 Evo abbracciava l’agenda sociale della nazionalizzazione delle risorse naturali, mai avrebbe osato firmare un accordo a porte chiuse per 70 anni con condizioni così sfavorevoli per la Bolivia. Con un investimento di 700 milioni di dollari, il governo di Morales prometteva la produzione di batterie al litio, ma aggravava l’estrattivismo esportatore con un accordo di sfruttamento di idrossido di litio senza il trasferimento delle tecnologie, che avrebbe avuto bisogno di ulteriori 130 milioni di dollari di investimento. «Quindi, l’involucro non funziona più e il potere viene sostituito dalla lacerazione», ci ricorda Zavaleta.

I potosinos hanno considerato questa norma come illegale e di svendita, tipica dei tempi neoliberisti, e per questo hanno iniziato una serie di misure di pressione comprendenti scioperi della fame e blocchi civici tra gli altri che il governo del MAS non ha considerato.

Il Comitato Civico Potosinista (COMCIPO) con la presenza massiccia di lavoratori, maestri, imprenditori e indigeni hanno iniziato uno sciopero civico il 7 ottobre per protestare contro il Decreto Supremo 3738, esigendo la deroga della legge mineraria, il giudizio delle responsabilità nei confronti delle autorità dello Stato che hanno realizzato contratti lesivi per lo Stato, e l’abrogazione del Decreto Supremo 3973 in solidarietà con le vittime degli incendi della Chiquitania. Le decisioni prese nel cabildo nella città di Uyuni ha determinato il giudizio negativo al binomio Evo-ÁLVARO ed è stato sciolto solo il giorno precedente alle elezioni per permettere ai potosinos di andare a votare.

Anche i cooperativisti potosinos della Federación de Cooperativas Mineras de Potosí (Fedecomin) si sono uniti alle proteste. Il 30 ottobre, le basi hanno cacciato la dirigenza e convocato a una manifestazione nel ponte della Dignità di Villa Imperial: «Siamo stati manipolati dalle nostre istituzioni che volevano darci un colore politico», hanno dichiarato. Il giorno seguente hanno marciato fino alla città di Potosí per aggiungersi alla lotta del popolo potosino che rivendicava nuove elezioni e la difesa della democrazia, manifestando la propria indipendenza da qualsiasi partito politico e dal COMCIPO.

Di fronte a questa situazione che cominciava a straripare, Evo Morales si è riunito il 2 novembre con la dirigenza dei minatori cooperativisti per soddisfare le richieste di attrezzature e di espansione delle aree di lavoro, segnalando su twitter il suo «ringraziamento per l’impegno politico». Il giorno seguente ha disposto l’abrogazione del Decreto Supremo 3738 sull’industrializzazione del litio.

Nonostante gli intenti di Morales, il presidente del COMCIPO, Marco Pumari, ha dichiarato che la difesa del litio era una giusta rivendicazione del popolo potosino e che non determinava la fine delle mobilitazioni. Allo stesso tempo, i cooperativisti minerari sono tornati a pronunciarsi il 7 novembre questa volta chiedendo l’annullamento delle elezioni e la «rinuncia del presidente Juan Evo Morales Ayma per aver violato la Ley del Régimen Electoral».

Le proteste hanno cominciato a radicalizzarsi in tutto il paese. Diversi settori, tra loro 500 studenti e civicos di Potosí e Sucre, oltre a 2500 cooperativisti minerari potosinos sono partiti per raggiungere la città di La Paz. Entrambe le delegazioni hanno subito un’imboscata a Vila Vila e Challapata rispettivamente. Nel primo caso, 37 feriti è stato il saldo dell’attacco con dinamite, pietre e gas lacrimogeni da parte di gruppi affiliati al MAS che, inoltre hanno sequestrato 11 persone – tra uomini e donne – i quali sono stati sottoposti e vessazioni e obbligati a denudarsi. Una parte della delegazione di cooperativisti minerari il 10 novembre ha subito un’imboscata da parte di cecchini lasciando un saldo di tre feriti, la notizia è stata pubblicata qualche ora prima che Evo annunciasse nuove elezioni, di fronte ai brogli verificato dal report preliminare della OEA.

Immediatamente, il settore dei minatori salariati – dove si trovavano i lavoratori della multinazionale San Cristóbal che mesi prima avevano realizzato uno sciopero della fame di fronte al Ministero del Lavoro per sostenere l’impresa – hanno annunciato la partenza di una carovana di 500 membri fino a La Paz chiedendo l’indipendenza politica dalla Central Obrera Boliviana: «non possiamo permettere lo spargimento di sangue di gente innocente per interessi politici. Come distaccamento regionale di Potosí chiediamo alla COB che rappresenti tutti i lavoratori del paese, né l’uno né l’altro devono prendere il potere, come dice la tesi di Pulacayo, il popolo boliviano deve avere un governo operaio e contadino», ha dichiarato uno dei leader sindacali.

IV. La Paz y Cochabamba

Inizialmente, sono stati i Comitati di Difesa della Democrazia (CONADE) a convocare le mobilitazioni cittadine. Nonostante siano stati superati poi dalle manifestazioni popolari spontanee. Queste entità civiche hanno nei loro direttivi importanti referenti nella difesa dei diritti umani, anche se sono stati criticati – e inizialmente oscurati a livello nazionale – per il loro avvicinamento a Fernando Camacho nelle ultime settimane del conflitto.

Il limite di estensione, non mi permette entrare in maggiori dettagli, ma riferendomi a questi dipartimenti non voglio dimenticarmi di menzionare le mobilitazioni di migliaia di studenti delle università pubbliche. A sua volta, risulta paradigmatica l’adesione alle proteste di una parte dei Ponchos rojos di Achacachi, che mette in evidenza la divisione delle organizzazioni portata a conclusione dal MAS. 

Occorre sottolineare anche il settore manifatturiero di Cochabamba che si è mobilitato per la richiesta di nuove elezioni e i gruppi popolari della zona sud di questa citta che – anche se in misura minore – hanno partecipato alle manifestazioni. Bisognerà fare un’analisi più profonda della composizione sociale della cosiddetta Resistenza Cochala che, composta da centinaia di “motoqueros”, hanno agito come gruppo di scontro e sono stati accusati di aver maltrattato la sindaca di Vinto, Patricia Arce. Nelle loro fila ci sono anche due giovani picchiati a morte da gruppi affini al MAS.

L’ora del pensiero critico e la speranza

Zavaleta ci permette di ragionare oltre l’evidente. Il fatto che gli interessi esterni stiano sempre operando in Bolivia – e in America Latina – non implica una determinazione assoluta poiché il modo in cui si articola l'insieme delle nostre relazioni condiziona anche la nostra capacità di resistere a tali determinazioni.

Discutere dal punto di vista del pensiero critico la situazione attuale boliviana ci permette di capire diversi elementi che hanno determinato questi tristi risultati: la disarticolazione delle basi sociali; le politiche del “processo di cambiamento”, le relazioni clientelari che hanno minato la relazione tra le basi e il MAS; la disorganizzazione delle forme sindacali, indigene e contadine; e le autorizzazioni concesse all’oligarchia e alle multinazionali.

Parafrasando Almaraz possiamo dire che il “processo di cambiamento” si è rimpicciolito e con lui i suoi uomini e le sue donne, i suoi progetti e le sue speranze.

Dobbiamo ora domandarci: perché la nostra capacità sociale di mobilizzazione termina ogni volta che viene neutralizzata o catturata da quelli che vogliamo combattere? Lungi da “fare il gioco della destra”, riconoscere i limiti e gli errori è la possibilità di nuovi orizzonti per affrontare l’onda reazionaria. 

Mi obbligo a credere che nelle mobilitazioni dispiegate in diversi luoghi del paese in rifiuto a Jeanine Añez, la repressione delle forze armata e la difesa della Whipala sia la possibilità di ritornare a sognare quelle utopie trasformatrici plurali. Sono convinta che i cabildos, le assemblee aperte, gli incontri che si stanno organizzando negli altipiani e nelle pianure non sono per discutere se difendere o no un caudillo, ma per difendere la vita, i beni comuni e recuperare l’agenda storica per l’autonomia, le risorse naturali e la multiculturalità. Che dall’angoscia e dalla paura di donne e uomini differenti che si riconoscono e si ritrovano nelle barricate, nei presidi e parlamenti femministi si stia ricostruendo la possibilità dello stato plurinazionale.

Speranza. Non è una speranza passiva depositata in caudillos vecchi o nuovi. È una speranza ribelle e collettiva che ci convoca a indignarci, ad alzare la nostra voce davanti alla morte ma anche davanti a chi vuole uccidere i sogni, venga da dove venga. 

Di Fátima Monasterio, avvocata, ricercatrice del CEJIS e candidata al master in Sociologia e Scienze Politiche del FLACSO, Argentina. Fa parte del Grupo de Trabajo Pueblos indígenas, autonomías y derechos colectivos del CLACSO.

*** Ph. Credit Debate Indigenas

Traduzione a cura di Christian Peverieri

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