La gioia di piazza Tahrir. Poi le scarpe contro Mubarak

11 / 2 / 2011

«Rivoluzione: missione compiuta». La folla ondeggiava e cantava ieri sera mentre in Piazza Tahrir, attraverso Twitter, in omaggio ad una rivolta cominciata in internet, giungevano queste parole scritte da Wael Ghoneim, il cyber-militante simbolo dell'insurrezione arrestato dalla polizia politica e liberato dopo 12 giorni di detenzione. Peccato che il Faraone, che pareva avesse ceduto di schianto dopo 17 giorni di manifestazioni oceaniche, alla fine spiazza tutti e non se ne va. Nonostante i milioni di persone che urlavano un solo slogan: «Hosni Mubarak vattene». Nonostante Obama, che annunciava che «lì si fa la storia».

L'uomo che per trent'anni ha avuto il controllo dell'Egitto poggiandosi su un apparato di sicurezza e repressione feroce, che ha consentito il ripetersi di elezioni-farsa, che sognava di passare lo scettro al figlio dando inizio ad una dinastia, ha annunciato la fine dello stato d'emergenza che durava dal 1981, ribadito che rispetterà gli impegni presi e non si ricandiderà, promesso che garantirà lo svolgimento di elezioni libere e ceduto i poteri al suo vice Suleiman. Ma senza cedere ai «diktat» di altri Paesi e con l'avvertenza che «non lascerò mai questa terra». Fino alla tarda serata di ieri il potere appariva saldamente nelle mani del Consiglio militare supremo, che nel suo primo comunicato aveva annunciato di aver preso ad interim i poteri politici e la guida del paese. Ma nella notte Mubarak ha ribaltato tutto e annunciato in un messaggio televisivo alla nazione il trasferimento delle deleghe a Omar Suleiman, il vicepresidente ed ex capo dei servizi di sicurezza che Stati Uniti e Israele vorrebbero vedere al potere, garante di una transizione «ordinata» che non metta in discussione l'attuale posizione politica e diplomatica dell'Egitto nella regione e verso l'Occidente.
Un boato di felicità aveva accolto quella che sembrava essere la fine del regime. Dopo era cominciata la festa. «L'esercito e il popolo sono uniti» hanno urlato alcuni, «viva l'Egitto» altri. Migliaia di egiziani hanno continuano ad affluire verso la piazza simbolo della rivolta presidiata da decine di mezzi corazzati che, almeno fino a tarda sera, non hanno effettuato alcun movimento. «Sono qui perché non voglio perdermi questo momento storico, il momento in cui il presidente lascerà il paese» diceva Alia Mossallam, 29 anni. Khaled e Ammar, amici per la pelle, invece si abbracciavano felici brindando simbolicamente con l'acqua minerale alla fine del regime di Mubarak, costretto a farsi da parte come il tunisino Ben Ali. «This is people power» ripeteva da parte sua un uomo sulla quarantina rivolgendosi ai giornalisti stranieri presenti, corretto immediatamente da un ragazzo: «No, questo è il potere dei giovani, dei giovani della rivoluzione».
La gioia si è trasformata in rabbia immediatamente dopo il discorso di Mubarak. In migliaia hanno preso a lanciare scarpe contro il Faraone in segno di dispregio, si è alzato un coro che chiedeva le dimissioni e sono partite le invocazioni all'esercito ad andare insieme dal raìs per deporlo. Oggi centinaia di migliaia di egiziani continueranno a manifestare, al Cairo e nel resto del paese. La caduta del presidente non è che la prima delle rivendicazioni dei gruppi di giovani e della società civile che hanno guidato la rivolta.

La voglia di cambiamento e di giustizia è enorme - tutti chiedono che vengano giudicati e puniti i responsabili della strage di oltre 300 egiziani compiuta da polizia e servizi di sicurezza - ma che difficilmente troverà soddisfazione nel passaggio di poteri al vicepresidente (che Piazza Tahrir non vuole) o nelle strategie dell'esercito, che è uscito definitivamente allo scoperto e potrebbe assumere un ruolo più definito concentrando il potere in una sorta di giunta militare. Il Consiglio militare supremo ha diffuso due comunicati ieri pomeriggio nei quali si è preso carico di «esaminare le misure necessarie per preservare la sicurezza del paese» e «sostenere le legittime richieste della popolazione». Se Suleiman appare il candidato preferito da Washington e Tel Aviv, l'esercito potrebbe non essere d'accordo, preferendo assumere collettivamente la responsabilità del paese o proporre un nuovo candidato. Non va dimenticato che entrambe le parti hanno due efficaci strumenti di pressione: gli aiuti militari statunitensi da una parte e il trattato di Camp David con Israele dall'altra. Di fatto, come si legge sui documenti dei diplomatici americani diffusi da Wikileaks, i comandi militari egiziani considerano gli aiuti un indennizzo dovuto per il rispetto del trattato. Il premier israeliano Netanyahu perciò è stato rapido nel mettere in chiaro già ieri sera cosa si aspetta dal nuovo Egitto che, in sostanza, vorrebbe come quello dominato per trent'anni da Mubarak.

 «Israele desidera stabilità e continuità e che sia preservata la pace, quale che sia il governo al potere», ha detto prima ancora del discorso del presidente sconfitto. Dagli Usa Barack Obama si è sbilanciato poco, limitandosi a ripetere quanto già dichiarato più volte dall'inizio della crisi egiziana. «Siamo testimoni della storia che si schiude - ha detto il presidente Usa - È un momento di trasformazione che sta avvenendo perché il popolo egiziano chiede un cambiamento. Sono i giovani ad essere all'avanguardia. Una nuova generazione, la vostra generazione - ha precisato rivolgendosi agli universitari americani della Northern State University - che vuole che la sua voce sia udita. Vogliamo che questi giovani e tutti gli egiziani sappiano che l'America continuerà a fare ogni cosa che può per sostenere una transizione ordinata e autentica verso la democrazia in Egitto». Belle parole ma la Casa Bianca ha già fatto schierare navi da guerra nel Mediterraneo meridionale, pronte ad intervenire per tenere aperto il Canale di Suez se in Egitto non avverrà la «transizione ordinata».

 
Gli americani sanno bene che buona parte degli 80 milioni di egiziani puntano ad un cambiamento profondo, perché vogliono vivere finalmente un'esistenza decorosa, non più tra gli stenti come hanno dovuto fare sino ad oggi. Accanto alla rivolta di Piazza Tahrir dilagano gli scioperi di lavoratori di ogni settore che ricevono stipendi da fame. Ieri a scioperare sono stati i 62mila autisti di autobus e mezzi di trasporto pubblici. «Non torneremo alla guida sino a quando non verranno accolte le nostre richieste - ha spiegato Wael Riad, un autista - Vogliamo l'aumento immediato dello stipendio, 700 pound al mese (meno di 100 euro) sono una miseria, a stento riusciamo a mangiare».
Il via libera agli scioperi è stato proprio il governo a darlo, annunciando l'aumento, a partire da aprile, del 15% delle pensioni e dei salari dei dipendenti pubblici. Assecondando i dipendenti statali, principale bacino di consenso, il regime credeva di poter placare il malcontento esploso in rivolta il 25 gennaio.Invece quel provvedimento ha spinto migliaia di egiziani a scendere in strada per reclamare «aumenti per tutti e non per pochi». Faisal, un insegnante, si lamentava ieri per «le ricchezze del presidente». «Noi moriamo di fame e la famiglia Mubarak invece si è arricchita», ha detto l'uomo in riferimento alle notizie circolate nei giorni scorsi sul patrimonio di diversi miliardi di dollari che il raìs e e la sua famiglia avrebbero accumulato in tutti questi anni. Gli scioperi si intensificano ovunque.

Ieri 24mila operai della Misr Spinning di Mahallah (Delta), hanno fermato gli impianti della più importante fabbrica tessile del paese, dichiarandosi solidali con la protesta in Piazza Tahrir. Seimila lavoratori sono in sciopero nell'area del Canale di Suez, con grande preoccupazione di Usa e Ue.Ma l'Egitto va ricostruito anche a partire dal rispetto dei diritti umani e politici. Amnesty ha chiesto la fine dei poteri arbitrari delle forze di sicurezza, il rilascio dei prigionieri di coscienza e l'introduzione di garanzie contro la tortura. Parole che, si spera, verranno ascoltate. I dubbi però restano forti. Ieri il Guardian ha riferito la denuncia fatta da attivisti egiziani di centinaia di arresti e torture compiute anche dall'esercito egiziano. Accuse respinte dai comandi militari. Il futuro dell'Egitto è un foglio bianco tutto da scrivere.

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