La Bolivia verso il baratro

22 / 11 / 2019

Con l’autoproclamazione di Jeanine Añez a presidente della Repubblica si è aperta una nuova fase, forse ancora più drammatica, della crisi boliviana. Una fase che può essere definita, a ben vedere, di colpo di stato delle destre che, dopo i “tentennamenti” immediatamente successivi alle dimissioni di Evo Morales e alla sua fuga in Messico, hanno forzato gli equilibri e preso in mano il potere.

Jeanine Añez è diventata la prima nella fila della successione a Evo Morales, dopo le rinunce del vice presidente Alvaro Garcia Linera e dei presidenti del Senato e della Camera, tutti del MAS, avvenute quasi contemporaneamente a quelle dell’ex presidente. La Añez, una delle vice presidenti del Senato e membro del partito di destra Democratas, ha così potuto avanzare la sua “candidatura” per provare a pacificare il paese e portarlo a nuove elezioni. In un clima ancora molto teso, ha provato a farsi eleggere dal Parlamento ma l’assenza dei rappresentanti del MAS ne ha impedito l’elezione legale. Così, dopo due sessioni andate a vuoto, si è autoproclamata presidente ed è subito stata riconosciuta da tutti i partiti di opposizione, dall’Unione Europea ma anche dalla Russia, tra gli altri.

Quello che doveva essere un governo transitorio e con lo scopo esclusivo di indire le elezioni al più presto, si è però subito trasformato in un governo con una chiara matrice politica reazionaria che di fatto ha approfittato delle proteste popolari contro Evo Morales e attuato un colpo di stato. Il ricercatore Atawallpa Oviedo Freire, infatti, spiega così gli avvenimenti di questi giorni: si è trattato di «una rivolta popolare che ha provocato un colpo di stato o la rottura dell’ordine costituzionale» [1]. Il primo provvedimento preso dalla nuova presidente infatti è stato quello di cambiare i vertici di polizia ed esercito, che fino al momento della rinuncia di Evo erano stati abbastanza imparziali durante le manifestazioni di piazza, nonostante proprio l’ammutinamento della polizia e il “suggerimento” del comandante in capo dell’esercito di rinunciare, abbiano di fatto costretto Evo Morales alle dimissioni. La Añez ha anche firmato un decreto con il quale garantisce l’impunità alle forze armate in caso di atti violenti contro i manifestanti che ha suscitato molte proteste e indignazione nel paese e all’estero. A seguito di questo avvicendamento è cambiata anche la linea di gestione delle manifestazioni di piazza con un crescendo di repressione che è sfociato in alcuni drammatici eventi, che hanno portato alla morte di 25 persone e a centinaia di feriti.

Tutto questo mentre dal Messico anche Evo Morales continua a buttare benzina sul fuoco, chiedendo ai suoi sostenitori di non mollare la lotta contro l’usurpatrice. Il 16 novembre a Cochabamba si è verificato uno degli episodi più drammatici quando una manifestazione di cocaleros del MAS che voleva entrare in città e attuare i blocchi, è stata attaccata dall’esercito. Il bilancio è stato tragico: almeno 9 manifestanti sono rimasti uccisi mentre i feriti sono stati oltre un centinaio. Nei giorni seguenti le manifestazioni, che soprattutto a Cochabamba e a El Alto hanno visto partecipare migliaia di persone, avevano un unico obiettivo, ovvero le dimissioni della Añez ma a dividere le varie anime della protesta è la posizione su Evo Morales: mentre i fedelissimi con in testa i Pochos Rojos ne chiedono l’immediato ritorno considerando la Añez una presidente illegittima e quello in corso un colpo di stato, per molte altre organizzazioni e singoli cittadini Evo è uno dei responsabili di questa crisi e quindi ne contestano il ritorno [2]. Un secondo confronto drammatico tra manifestanti e forze armate è avvenuto nella giornata di lunedì a Senkata, località nei dintorni di El Alto, dove i manifestanti pro Evo hanno cercato di incendiare un deposito di carburanti per bloccare i rifornimenti alla capitale ma sono stati brutalmente attaccati dall’esercito. Alla fine il bilancio è stato un’altra volta drammatico: sull’asfalto sono rimasti 5 manifestanti e moltissimi altri sono rimasti feriti.

La partita ora si sta giocando su due piani, politico istituzionale e di piazza, e in entrambi i piani il MAS gioca in vantaggio. Innanzitutto, la rinuncia di Evo al momento è solo informale, dal momento che non è ancora stata ratificata dal Parlamento, dove tra l’altro il MAS ha la maggioranza e i due presidenti delle camere. Alle destre dunque, non resta che trattare con loro se vogliono rimanere nel recinto della democrazia. Questa destra così pericolosa e preoccupante, in realtà non è così forte come si pensa, altrimenti non si spiega come non abbia ancora affondato il piede sull’acceleratore della repressione per risolvere la crisi e portato a termine un colpo di stato “classico”. E il problema non sembra tanto essere la preoccupazione per la legittimazione pubblica dal momento che già l’autoproclamazione della Añez è stata una forzatura istituzionale, quanto piuttosto la propria debolezza politica. Alzare ancora di più l’asticella della repressione nelle piazze, dove la mobilitazione dei sostenitori del MAS è molto organizzata e decisa o cercare di risolvere il caos attraverso forzature istituzionali potrebbe dare il via a un’altra rivolta popolare o a una guerra civile e magari favorire il ritorno da salvatore della patria e pacificatore proprio di Morales.

Il baratro della guerra civile è dietro l’angolo e La Paz (la pace) legata a un filo. Al momento l’unica alternativa a questo che potrebbe diventare un disastro umanitario di enormi proporzioni, sembra l’accordo parlamentare tra il nuovo governo e la maggioranza del MAS. Un accordo che proprio ieri sembra sia entrato in fase di arrivo con la presentazione della proposta di legge presentata dal parlamento per le nuove elezioni: la proposta prevede l’annullamento delle ultime elezioni, la nomina entro 15 giorni dall’approvazione della legge del nuovo tribunale elettorale e la convocazione di nuove elezioni. Un accordo che non è assolutamente scontato e che potrebbe prevedere condizioni che sia l’una che l’altra parte potrebbero ritenere inaccettabili (come ad esempio il ritorno di Morales o l’immunità per i dirigenti del MAS) e far ripiombare il paese nel caos.

La speranza tuttavia non è solo rivolta alle aule parlamentari. Nella società boliviana si sono mosse fin da subito organizzazioni e singoli cittadini in difesa dei diritti umani e della democrazia, che sono stati offuscati dalla polarizzazione dello scontro tra destre e “masistas”. È il caso del CEDIB [3] che ha pubblicato un manifesto pubblico in difesa dei diritti umani firmato da numerosi attivisti e organizzazioni, o del movimento femminista che, spinto dal collettivo Mujeres Creando ha organizzato un primo Parlamento de las Mujeres a La Paz e presto ne organizzerà uno a Cochabamba e poi a Santa Cruz. «L’interessante del parlamento delle donne - sostiene Maria Galindo in questa intervista [4] - è la presa di parola in prima persona, senza costruire rappresentazione. Qui sta uno dei problemi fondamentali della democrazia liberale rappresentativa, che ha usato le identità per generalizzare, omogenizzare, e ha permesso ad alcuni dirigenti politici, uomini o donne che fossero, di attribuirsi la rappresentazione di interi settori». Sebbene la via della pace e per evitare il baratro passi necessariamente per le forze politiche che si stanno disputando il potere reale e che ben poco sembrano fare per pacificare il paese, la costruzione di una nuova Bolivia, anticapitalista, passa da queste esperienze che dal basso e tra mille ostacoli, provano a immaginare e a costruire e un futuro migliore.

[1] https://lamericalatina.net/2019/11/18/la-caduta-di-morales/?fbclid=IwAR07WQQmahBrqN_EE-LBB_0HePzY5ScWBahykEIvQ4f4eTyLGKdbN6VQUo0

[2] https://desinformemonos.org/la-paz-pende-de-un-hilo/

[3] https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSdFBIgipTpnVvoyrNd0nOP0mD5fzqm55N9k8gsE027sg4Uakg/viewform

[4] https://ilmanifesto.it/un-parlamento-delle-donne-da-cochabamba-a-santa-cruz/