Kenya: Qui sont-ils?

Attentato del gruppo terroristico Al Shabaab al Garissa University College, in Kenya, uccidendo 148 studenti cristiani.

10 / 4 / 2015

Garissa è una città situata al nord est del Kenya, vicino al confine somalo, ed è proprio in Somalia che nasce il movimento Al Shabaab, una forza estremista sorta dalle ceneri della guerra civile del 1991.

Al tempo il movimento era una delle tante Corti Islamiche che provvedeva alle esigenze di organizzazione della popolazione, a fronte di un governo centrale praticamente inesistente.

E’ impossibile comprendere la tragedia del Kenya senza gettare uno sguardo alla storia e alla struttura sociale del Corno d’Africa e, in particolare, sempre ai fini della vicenda in esame, della Somalia.

A metà dell’800, prima che le potenze coloniali si interessassero a questa terra, la realtà somala è caratterizzata da un forte settarismo entico-tribale e da una frammentazione in cui il potere politico è gestito in modo feudale da capi tribu, capi clan e sotto –clan.

Poi è arrivato l’Occidente a conquistarsi il suo posto al Sole.

Le potenze coloniali hanno suddiviso il territorio in base a criteri geometrico- territoriali ed economici che non tenevano in alcun modo in considerazione il rapporto tra etnie ed aree territoriali. Da qui sono nati contenziosi tra civili che si trascinano, stancamente e dolorosamente, fino ai giorni nostri bloccando lo sviluppo di un’intera Regione.

Alla fine del protettorato italiano, il Generale Siad Barre chiede l’aiuto delle forze occidentali per affermare il suo Colpo di Stato sul territorio. A questa forza si contrappongono gruppi armati tribali, mossi dal solo intento di sostituirsi essi stessi al Generale Barre.

Seguono anni di guerra, di morte, di interventi di potenze straniere, ma nulla riuscirà a riportare la Somalia a uno stato di normalità.

I gruppi armati, ormai noti come “Signori della Guerra”, prendono il controllo delle zone di interesse economico della Somalia, lasciando il resto della popolazione allo sbaraglio. E’ in questo frangente che le Corti islamiche diventano le vere protagoniste del panorama socio-politico somalo.

Così sono andate avanti le cose fino al 2004 quando, a seguito di numerosi tentativi di conciliazione tra le fazioni in lotta, nasce il Governo Federale Transitorio.

I Signori della Guerra dapprima si alleano con le Corti Islamiche, per non rischiare di essere spazzati via da questa nuova potenza autoritaria, ma poi, nel 2006, assistiamo al voltafaccia: per accrescere il proprio consenso interno e guadagnare l’appoggio economico degli Stati Uniti, danno vita alla cosiddetta “Alleanza per la restaurazione della Pace e contro il terrorismo”. I Signori della Guerra iniziano così la loro battaglia anti-jihadista, che si concretizza però nella persecuzione di militanti islamici che non necessariamente hanno a che fare con il terrorismo.

Tutto ciò non ha fatto altro che aumentare il malcontento nella popolazione e permettere alle Corti Islamiche di riorganizzarsi e reagire, conquistando Mogadiscio e segnando la disfatta dei Signori della Guerra.

In seguito le Corti Islamiche diventerano un’Unione che, come prevedibile, si trova a scontrarsi con il Governo Federale di Transizione. Da questa battaglia l’Unione usce sconfitta, ma alcune delle sue cellule continuano a vivere: tra queste c’è il movimento Al Shabaab, che nel mentre è divenuto sempre più estremista e si è legato ad Al Qaeda.

Nel corso dei secoli la Somalia è divenuta un terreno su cui le dinamiche inter-claniche non riuscivano più ad attecchire, per queste ragioni Al Shabaab è stata costretta a cercare milizia fuori dai confini nazionali: oggi il commando conta tra i 7 e i 9.000 combattenti, reclutati quasi tutti dalla Diaspora in Africa, in Europa e negli Stati Uniti.

C’è voluto poco: è bastato offrire a uomini spesso non integrati, analfabeti, costretti a vivere in condizioni d’indigenza la possibilità di avere una forma di sostentamento e un qualcosa per cui lottare.

Proprio in Kenya ci sono due milioni di Somali, relegati nelle periferie delle città e costretti a una vita di costante subordinazione: non dev’esser stato difficile cavalcare i sentimenti di sconforto di queste persone.

Ciò ci riporta ai sempre più forti timori nostrani di infiltrazioni terroristiche per mezzo dell’immigrazione clandestina: assodato che chi arriva sulle nostre coste scappa dalla guerra e dalla fame, i possibili miliziani islamisti li creiamo noi ogni qualvolta ci dimentichiamo il significato profondo di integrazione e accoglienza.

Quando vieni lasciato a morire in un porto, quando ti tolgono la voglia di vivere e ti trattano come un cane in un lager legalizzato, quando tutti sembrano indifferenti di fronte ai soprusi, quando non vieni riconosciuto cittadino di uno Stato seppur essendoci nato, quando ti fanno capire che non sei degno di godere dei diritti più basilari allora inizi a desiderare, agognare, bramare quegli stessi diritti, che diventano automaticamente il simbolo di una rivalsa: l’acqua fresca che placa almeno un po’ la sete di vendetta dopo aver vissuto una vita oppressi dal senso di ingiustizia.

Così quattro persone fomentate da un odio cieco, nate e cresciute nei canali di scolo della nostra storia, hanno imbracciato le armi e hanno fatto irruzione in un’università compiendo i mostruosi atti di cui siamo tutti a conoscenza.

Oltre all’analisi del panorama storico-culturale internazionale, passato e presente, che ha una forte influenza sulle azioni terroristiche cui assistiamo, è importante fare luce anche su caratteri tipici dell’ambiente in cui questi fatti sono avvenuti.

Quello del Corno d’Africa – ma è un discorso che si potrebbe estendere a molte altre regioni del continente – è un territorio instabile, caratterizzato da una pervasività del sacro che si lega a doppio filo a sentimenti di precarietà e di timore insormontabili.

In questo contesto si apre una sorta di competizione nell’accesso al Sacro, in cui la Jihad, per questi fanatici, diventa necessaria.

E’ forse uno dei pochi modi in cui sentono di poter far breccia nell’agenda internazionale e, infatti, non è un caso la scelta del luogo della strage di Garissa: di chiese ne sono già state rase al suolo parecchie, è di tutt’altro impatto colpire un luogo deputato all’incontro di menti e dove si costruiscono gli anticorpi al fanatismo. E’ anche, e lo abbiamo visto, un gesto in grado di segnare in maniera indelebile le menti dell’Occidente.

Alla luce di tutto ciò diviene indispensabile bilanciare la visione che inquadra la situazione del Corno d’Africa in un’ottica di strategie e giochi di potere, mettendo al centro le rivendicazioni di autonomia, di ricchezza e di una più inafferrabile negoziazione con il sovrannaturale.

A questi fini, con buona pace di chi vorrebbe misurare il “dovere al pianto” proporzionalmente al numero di morti, dobbiamo smettere di chiederci se noi siamo Hebdo o Kenya e domandarci invece “qui sont-ils”: chi sono loro?

Nelle analisi subito successive al 2 aprile si è persa la grande occasione di offrire una chiave di lettura in grado di spiegare ciò che ci accade attorno, e che continuerà ad accadere anche in modo più tragico, per lasciare invece spazio ad autoreferenziali dubbi amletici che ci si può permettere solo in questa posizione da viziati della storia.

Chi sono loro, quali sono le ragioni di tanto odio, quali sono le loro chiavi di lettura? Dobbiamo rispondere a queste domande con le loro parole, ma reagire con quello che ci offrono le nostre: ovvero integrazione dei migranti, fine della speculazione e del neo-colonialismo in Africa, una cooperazione internazionale capace di aiutare un Continente a sconfiggere ignoranza e povertà e tenere a mente il dovere di fermarci un passo prima, per non entrare a gamba tesa nella storia di popoli che ancora non possiedono tutti gli strumenti per somatizzare la cura che noi pensiamo di proporre.

Magari, così facendo, metteremo fine alle barbarie o, quantomeno eviteremo ad altri di commettere i nostri stessi errori sulla base di uno sviluppo che non ci ha portato poi così lontano.

Ci vuole tempo, ma per fare ciò il primo passo sta nel reimpostare le nostre singole coscienze.

Un esempio di quanto dobbiamo evitare accada ancora, è l’ AMISON: la missione dell’Unione Africana approvata dall’Onu nel 2007, che si prefigge di assicurare la pace nel Corno d’Africa e lottare contro le forze terroristiche.

In pratica la perfetta copia delle innumerevoli missioni che le potenze occidentali hanno messo in atto in svariate zone considerate a rischio del nostro pianeta.

L’Unione Africana, invece di fornirsi della conoscenza del territorio e del substrato storico-culturale per mettere in atto azioni in grado di combattere il problema dei conflitti sociali alla radice, ha preferito mettere in atto questa missione di pura militarizzazione –peraltro del tutto inefficace- volta semplicemente a rafforzare l’influenza di pochi in una zona strategicamente rilevante per lo sviluppo delle attività economiche. Chissà da chi avrà imparato.

Risulta difficile un po’ per tutti placare lo sgomento e mettersi nella posizione di comprendere le ragioni di attentati terroristici, indubbiamente ingiustificabili; ma è necessario.

Le macchine del terrore che seminano vittime con estrema lucidità e freddezza appaiono ai nostri occhi come strutture ben organizzate che agiscono con il solo intento di imporre i loro codici sociali e religiosi alla collettività. In realtà, questa freddezza e questa lucidità altro non sono che un disperato tentativo di ammansire un profondo e antico sentimento di instabilità individuale e collettiva dovuta all’incapacità di fare i conti con simboli apparentemente inconciliabili con la propria natura; simboli che vengono interpretati come la ragione del proprio malessere. E’ come vedere un corpo estraneo che fuoriesce dal proprio stesso corpo e interpretarlo come un elemento del quale dobbiamo liberarci, per poter proseguire con maggiore fermezza ed efficacia.

Aggiungiamo a tutto ciò un diverso rapporto con la violenza: nel nostro politicamente-corretto-Occidente viene quasi spontaneo individuare la violenza come un qualcosa di negativo; per chi l’ha vissuta, o continua a viverla, sulla propria pelle diventa un modo di argomentare come tanti altri. Un metodo argomentativo pure particolarmente efficace, dato che è l’unica arma che queste persone possono usare spregiudicatamente, non essendo soggetta in modo diretto alla ricchezza.

Se adesso abbiamo tutti finito di piangere per i 148 studenti massacrati è giunta l’ora, senza dimenticarci di loro in attesa della prossima tragedia, di ricominciare a parlare, studiare, lottare per raggiungere quel minimo di giustizia sociale che ci consenta di avvicinarci un po’ di più a un clima di pacificazione collettiva.

“Think global, act local” è uno slogan che suona molto bene nei cortei e che, se assimilato nel suo senso più profondo, potrebbe permetterci di salvare delle vite: quelle degli studenti del Garissa University College. E quelle di chi li ha ammazzati.

E, ancor meglio, salvare le loro vite da vivi.

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