La scrittrice indiana parla dell'India

Il tramonto della democrazia

Le contraddizioni di un enorme paese

14 / 5 / 2009

Settecento milioni di indiani eleggono il nuovo parlamento. È un voto che fa comodo alle multinazionali, ai mercanti di armi e agli estremisti politici e religiosi.
Ma che non serve al paese e alla democrazia, scrive Arundhati Roy


Poiché ci chiediamo ancora se ci sia vita dopo la morte, possiamo farci anche un’altra domanda: c’è vita dopo la democrazia? E che vita sarà?
Con “democrazia” non intendo un regime astratto e ideale a cui aspirare. Mi riferisco al modello più diffuso: la democrazia liberale occidentale con le sue varianti, prese così come sono.
E allora, c’è vita dopo la democrazia?
Quando cerchiamo di rispondere a questa domanda, spesso paragoniamo i diversi sistemi di governo per concludere con una difesa piccata e anche un po’ aggressiva della democrazia. Ha i suoi difetti, diciamo di solito. Non è perfetta, ma è meglio degli altri sistemi a disposizione.
Inevitabilmente, qualcuno chiederà: “Afghanistan, Pakistan, Arabia Saudita, Somalia... Preferireste questi sistemi?”.
Se la democrazia sia un ideale a cui devono tendere tutte le società “in via di sviluppo” è un’altra questione (io penso di sì, e la fase iniziale, ancora piena di ideali, può essere davvero inebriante). La domanda sulla vita dopo la democrazia va rivolta a chi di noi vive già in una democrazia, o in paesi che fingono di essere democratici. Non voglio suggerire un ritorno a modelli passati e ormai screditati di governo totalitario o autoritario. Ma penso che sia il nostro ideale di democrazia, e non la nostra economia, ad avere bisogno di un po’ di adeguamenti strutturali.
Il punto è capire cosa abbiamo fatto della democrazia. In cosa l’abbiamo trasformata?
Che succede una volta che è stata svuotata e privata di senso? Cosa succede quando ognuna delle sue istituzioni è diventata metastasi fino a trasformarsi in un’entità maligna e pericolosa?
Cosa succede ora che democrazia e capitalismo si sono fusi in un unico organismo predatorio, dall’immaginazione limitata e incentrata quasi esclusivamentesull’idea della massimizzazione dei profitti?
È possibile invertire questo processo?
Quello che serve oggi, per salvare il pianeta, è un progetto a lungo termine.
Lo possono offrire i governi democratici, che sopravvivono solo grazie allo sfruttamento delle risorse? È possibile che la democrazia si riveli un boomerang per il genere umano? Se la democrazia ha tanto successo probabilmente è perché condivide con l’umanità il suo più grosso difetto: la miopia.
La nostra incapacità di vivere nel presente e al tempo stesso di guardare in avanti, ci rende strani esseri “di mezzo”, né bestie né profeti. La nostra intelligenza sembra averci privato dell’istinto di sopravvivenza.
Saccheggiamo la Terra sperando di accumulare surplus materiali che compensino tutto quello che di profondo e indicibile abbiamo perso.
Sarebbe presuntuoso dire di avere le risposte anche a una sola di queste domande.
Ma è possibile dimostrare, in modo piuttosto dettagliato, che la luce del faro sta diventando sempre più debole e che forse non possiamo più contare sulla democrazia perché ci garantisca giustizia e stabilità.
Basta osservare come funziona la democrazia più grande del mondo.
Come scrittrice mi chiedo spesso se lo sforzo di essere sempre precisa, di fornire dati corretti, non sminuisca in qualche modo la portata storica dei fatti. E magari finisca per mascherare una verità più ampia. Temo di cadere in una prosaica descrizione della realtà, mentre servirebbero un urlo selvaggio e ferino o la forza trasformatrice e l’esattezza autentica della poesia.
C’è qualcosa di astuto, braminico, contorto, burocratico, classificatorio, nel rapporto tra potere e sottomissione in India, qualcosa che si riassume nell’obbligo di “inoltrare richieste attraverso gli appositi canali”. E questo ci rende tutti guardinghi come impiegatucci. A mia discolpa posso dire che servono strumenti bizzarri per farsi largo nel labirinto di sotterfugi e ipocrisia dietro cui si nasconde l’inimmaginabile insensibilità e brutalità della nuova superpotenza più amata del mondo. La repressione “attraverso gli appositi canali” crea una resistenza che passa “attraverso gli appositi canali”.
Come resistenza non basta, lo so. Ma per ora non ho altro. Forse un giorno ne usciranno la poesia e l’urlo ferino.

Sulle montagne afghane
Ho scritto Ascoltare le cavallette (Internazionale758) in occasione di una conferenza che ho tenuto a Istanbul nel gennaio del 2008, per il primo anniversario dell’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink. Il mio intervento era dedicato alla storia del genocidio armeno e alla sua negazione, oltre che alla relazione storica, quasi organica, tra “progresso” e genocidio. Mi ha sempre colpito il fatto che il partito politico turco responsabile del genocidio degli armeni si chiamasse Comitato per l’unione e il progresso. Molti miei articoli parlano proprio del rapporto tra unione e progresso, cioè, per usare un linguaggio più attuale, tra nazionalismo e sviluppo: le inattaccabili torri gemelle della moderna democrazia del libero mercato.
Anche se molti di questi articoli li ho scritti tra il 2002 e il 2008, il loro punto di partenza risale al 1989, quando sulle aspre montagne dell’Afghanistan il capitalismo vinse la sua lunga jihad contro il comunismo sovietico (da allora, la ruota ha ricominciato a girare, e sembra proprio che quelle stesse montagne stiano per diventare la tomba del capitalismo).
Pochi mesi dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del muro di Berlino, il governo indiano, che era stato uno dei più fieri sostenitori del movimento dei paesi non allineati, si schierò senza remore con gli Stati Uniti, guida indiscussa del nuovo mondo unipolare.
Le regole del gioco furono improvvisamente stravolte. Milioni di persone, che non avevano mai sentito parlare né di Berlino né dell’Unione Sovietica, non potevano immaginare come sarebbero cambiate le loro vite. In India la confisca delle terre di migliaia di famiglie era cominciata nei primi anni cinquanta, quando il governo aveva scelto il modello di sviluppo sovietico: le enormi acciaierie (a Bhilai, a Bokaro) e migliaia di grandi dighe sarebbero state le “punte di lancia” dell’economia.
Con le privatizzazioni e gli adeguamenti strutturali, il processo ha subìto un’accelerazione travolgente. Oggi “progresso” e “sviluppo” sono diventati sinonimo di “riforme” economiche, deregulation e privatizzazione. Due decenni di “progresso” di questo tipo hanno creato una nutrita classe media in preda a una sbronza da ricchezza improvvisa, e un sottoproletariato molto, molto più numeroso e disperato.
Decine di milioni di persone sono state private della loro terra e costrette ad andarsene a causa di enormi progetti infrastrutturali: dighe, miniere, zone economiche speciali, create nel nome della povera gente ma in realtà destinate a soddisfare le crescenti pretese della nuova aristocrazia.
Oggi la lotta per la terra e l’accesso alle risorse è al centro del dibattito sullo “sviluppo”.
Nel 2008 il ministro delle finanze Palaniappan Chidambaram ha dichiarato che il suo obiettivo è urbanizzare l’85 per cento della popolazione indiana.

Centrifuga sociale
Un cambiamento del genere richiederebbe un processo di ingegneria sociale di proporzioni immani, che dovrebbe spingere o costringere circa 500 milioni di persone a emigrare dalle campagne in città. E questo permetterebbe alle multinazionali di saccheggiare enormi porzioni di territorio insieme alle loro risorse naturali. Già oggi foreste, montagne e sistemi idrici sono devastati dalle razzie delle multinazionali, spalleggiate da uno stato alla deriva e sul punto di commettere un “ecocidio”. Interi ecosistemi vengono distrutti dalle miniere di bauxite e minerale ferroso che stanno desertificando l’est dell’India. Sull’Himalaya sono in progetto centinaia di dighe di grandivdimensioni, che avranno conseguenze catastrofiche. Nelle pianure, i iumi canalizzati per contrastare le inondazioni hanno causato l’innalzamento dei letti fluviali e inondazioni ancora maggiori, hanno saturato i terreni e hanno provocato la salinizzazione dei campi coltivati, distruggendo i mezzi di sostentamento di milioni di persone.
Il passaggio da un’agricoltura sostenibile e rivolta all’autosufficienza alimentare a una intensiva e speculativa ha indebitato ino al collo i piccoli coltivatori.
Secondo i dati più aggiornati, in India si sono suicidati oltre 180mila contadini. Fame e denutrizione, che ormai hanno raggiunto i livelli dell’Africa subsahariana, si diffondono a macchia d’olio. È come se una società che marciva sotto il peso del feudalesimo e del sistema delle caste fosse stata gettata in un’enorme centrifuga. Il macchinario ha strappato la rete delle vecchie diseguaglianze, ne ha lasciate alcune, ma ha finito per rafforzarne la maggior parte. Adesso la società è stata scremata: è rimasto un sottile strato di panna densa sopra un mucchio d’acqua. La panna è quel “mercato” indiano di milioni di consumatori (di auto, cellulari, computer, biglietti d’auguri per san Valentino) che fa gola agli imprenditori di tutto il mondo.
L’acqua conta poco. Può essere sprecata, conservata in bacini artificiali o prosciugata.
Almeno così pensano gli uomini in giacca e cravatta, che non si aspettavano la guerra civile scoppiata nel cuore dell’India: in Orissa, in Chhattisgarh, in Jharkhand e in Bengala Occidentale.
Quasi a dimostrare lo stretto rapporto tra unione e progresso, nel giugno del 1986, durante il governo del primo ministro Rajiv Gandhi, il tribunale di Faizabad ordinò di togliere i sigilli alla moschea Babri nella città di Ayodhya, in Uttar Pradesh. L’anonimo edificio era stato costruito nel cinquecento, e secondo gli induisti sorgeva sulle rovine di un tempio indù. Il Bharatiya janata party (Bjp), partito di destra che all’epoca sedeva all’opposizione, lanciò immediatamente una violenta campagna in favore del nazionalismo indù. Nel 1990 il suo leader L.K. Advani viaggiò in lungo e in largo per alimentare l’odio antislamico, chiedendo la demolizione della moschea di Babri per costruire al suo posto un tempio dedicato a Rama.
Nel dicembredel 1992 centinaia di indù, incitati da Advani, demolirono l’edificio. All’inizio del 1993 si scatenarono per le vie di Mumbai, assalendo i musulmani e uccidendo un migliaio di persone. Come rappresaglia, una serie di attentati dinamitardi in città causò circa duecentocinquanta morti. Sfruttando il clima di tensione, il Bjp (che nel 1984 aveva solo due seggi in parlamento) nel 1998 sconfisse il partito del Congress e arrivò al governo.
A quel punto, il progetto “progressista” di privatizzazioni e liberalizzazioni era cominciato da otto anni. Il Bjp si era già schierato in favore di grandi multinazionali come la Enron.
Una volta al comando, per prima cosa autorizzò una serie di test nucleari.
Quando nella storia di un paese accadono certi eventi, chiunque può immaginare quale sarà il futuro. Gli esperimenti nucleari del 1998 sono stati uno di questi eventi. Non ci voleva un genio per capire che direzione avesse preso l’India.
Nel 2002, solo tre anni dopo i test nucleari, il governo del Gujarat guidato dal Bjp e dal governatore Narendra Modi ha orchestrato con cura un pogrom contro i musulmani di quello stato. L’islamofobia alimentata dall’amministrazione Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ha dato maggiore impulso ai nazionalisti indù. Il governo dello stato del Gujarat è rimasto in disparte mentre più di mille persone venivano massacrate. Le donne sono state vittime di stupri collettivi e poi sono state bruciate vive. Circa 150mila persone sono state cacciate dalle loro case.
Dopo il pogrom, Narendra Modi ha vinto altre due elezioni in Gujarat. Ora è al suo terzo mandato come governatore. Nel 1984 centinaia di persone guidate dai leader del partito del Congress hanno massacrato migliaia di sikh per le strade di Delhi. Nel gennaio del 1999 alcuni delinquenti del Bajrang dal, una milizia indù, hanno aggredito il missionario australiano Graham Staines e i suoi due bambini, bruciandoli vivi.
Nel dicembre del 2007 le aggressioni contro i cristiani da parte delle milizie indù non potevano più essere considerate incidenti casuali. In diversi stati governati dal Bjp – Gujarat, Karnataka, Orissa – si sono moltiplicate le aggressioni contro i cristiani e i saccheggi delle chiese.
A Kandhamal, in Orissa, almeno sedici dalit e adivasi (intoccabili e tribali) cristiani sono stati uccisi da dalit e adivasi “indù” (“l’induizzazione” di dalit e adivasi serve a mettere gli uni contro gli altri, oltre che contro i musulmani e i maoisti, e al momento è forse il principale progetto delle milizie indù). Oggi decine di migliaia di cristiani vivono nei campi profughi o si nascondono nelle foreste, temendo perfino di andare a coltivare i campi.
Nel dicembre del 2008 decine di vigilantes indù a Bangalore e a Mangalore hanno cominciato ad aggredire le donne che indossano jeans e abiti occidentali.
Quando ci sono le elezioni, i partiti sfruttano questi massacri. Ne approfittano, in maniera subdola, o si accusano a vicenda di essere i responsabili degli eccidi.
Ma nessun partito ha mai commesso “l’errore” di garantire che i colpevoli siano puniti. Anzi, nonostante gli scambi di accuse, si danno manforte per evitare ripercussioni concrete. Il risultato è una continua messinscena. Le stragi sono assorbite dal labirintico sistema giudiziario indiano, e lasciate lì a fermentare prima di essere rispolverate come materiale di propaganda per le elezioni seguenti. Si potrebbe dire che sono diventate parte
integrante del tessuto della democrazia indiana.

Un mostruoso debuttante
Nel gennaio del 2009 il rapporto organico tra unione e progresso – o, se si preferisce, tra fascismo e libero mercato – è stato sancito con un bacio durante una cerimonia pubblica. Gli amministratori delegati di due delle principali multinazionali indiane – Ratan Tata, del gruppo carrozza c’è scritto: “Gli elettori indiani rimetteranno in moto il mondo?”.
In questo modo spudorato l’elettorato è stato trasformato in mercato, gli elettori sono diventati consumatori e la democrazia è stata legata a ilo doppio al libero mercato.
I mezzi d’informazione si sono lanciati soprattutto su due argomenti. Il primo è la “macchina del popolo”, la Tata Nano da centomila rupie (1.500 euro), prodotta nel Gujarat di Modi (le agevolazioni e i favori concessi alla Tata spiegano buona parte del sostegno dell’azienda a Modi).
Il secondo è il discorso carico d’odio pronunciato dal mostruoso debuttante del Bjp, Varun Gandhi (nipote di Indira Gandhi), che fa sembrare Narendra Modi un moderato.
Varun Gandhi ha chiesto la sterilizzazione dei musulmani. “Questa terra sarà conosciuta come bastione degli indù, e nessun musulmano oserà alzare la cresta qui da noi”, ha dichiarato, usando un insulto rivolto a chi è circonciso. “Dai musulmani non voglio neppure un voto”.
Qui sta il nodo della questione. Varun Gandhi è un politico moderno, che opera nel sistema democratico, e fa tutto quello che è in suo potere per creare una maggioranza e consolidare il suo bacino di Tata, e Mukesh Ambani, della Reliance Industries – nel discorso di accettazione del premio Gujarat garima (Orgoglio del Gujarat) hanno elogiato la politica di sviluppo di Narendra Modi, l’artefice del genocidio del Gujarat.
Naturalmente Modi, come candidato alla carica di primo ministro, poteva contare sul loro appoggio.
La campagna elettorale di quest’anno è costata quasi cento miliardi di rupie (due miliardi di dollari. Da dove spunta una somma del genere?). Tra i partiti c’è un evidente consenso trasversale sulle “riforme” economiche. Non stupisce quindi che tra i sostenitori più entusiasti di queste elezioni ci siano le principali multinazionali. Probabilmente hanno capito che la democrazia può legittimare il loro istinto predatorio meglio di qualsiasi
altro sistema.
Diverse multinazionali hanno lanciato campagne televisive, in alcuni casi coinvolgendo star di Bollywood, per invitare giovani e vecchi, ricchi e poveri, ad andare a votare. La democrazia va di moda.
La Bbc ha prenotato una carrozza ferroviaria, l’India election special, che condurrà giornalisti di tutto il mondo in un tour guidato, perché descrivano le meraviglie delle elezioni indiane. Sulla carrozza c’è scritto: “Gli elettori indiani rimetteranno in moto il mondo?”.
In questo modo spudorato l’elettorato è stato trasformato in mercato, gli elettori sono diventati consumatori e la democrazia è stata legata a ilo doppio al libero mercato.
I mezzi d’informazione si sono lanciati soprattutto su due argomenti. Il primo è la “macchina del popolo”, la Tata Nano da centomila rupie (1.500 euro), prodotta nel Gujarat di Modi (le agevolazioni e i favori concessi alla Tata spiegano buona parte del sostegno dell’azienda a Modi).
Il secondo è il discorso carico d’odio pronunciato dal mostruoso debuttante del Bjp, Varun Gandhi (nipote di Indira Gandhi), che fa sembrare Narendra Modi un moderato. Varun Gandhi ha chiesto la sterilizzazione dei musulmani.
“Questa terra sarà conosciuta come bastione degli indù, e nessun musulmano oserà alzare la cresta qui da noi”, ha dichiarato, usando un insulto rivolto a chi è circonciso.
“Dai musulmani non voglio neppure un voto”.
Qui sta il nodo della questione. Varun Gandhi è un politico moderno, che opera nel sistema democratico, e fa tutto quello che è in suo potere per creare una maggioranza e consolidare il suo bacino di voti. Un politico ha bisogno di un bacino di voti, come una multinazionale di un mercato di massa. Al giorno d’oggi, entrambi chiedono aiuto ai mezzi d’informazione.
Le multinazionali quell’aiuto lo comprano (circa il 90 per cento degli introiti dei canali televisivi, così come della carta stampata, viene dalla pubblicità).

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Foto di Christian Als

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