Il muro di Trump e la storia violenta della "frontera"

7 / 2 / 2017

A pochi giorni dal suo insediamento, Donald Trump concretizza una delle promesse fatte durante la campagna elettorale: la costruzione di un muro che separi gli Stati Uniti dal Messico.                     

La presenza di una barriera lungo il confine meridionale degli Stati Uniti non è una novità del neoeletto presidente, ma è oggetto di interesse e di provvedimenti legislativi già da molti anni. Negli anni Novanta sono comparse le prime recinzioni metalliche, integrate poi, a partire dal 1994 con il presidente Bill Clinton, con un numero maggiore di poliziotti. Ancora non ci sono veri e propri muri, ma solo barriere il cui compito era quello di ostacolare il passaggio degli immigrati illegali e dei trafficanti di droga e il cui utilizzo variava in base alle disposizioni delle autorità locali. Il passo successivo venne compiuto dall’amministrazione Bush che, con l’applicazione del Secure Fence Act, una legge che prevede il rafforzamento dei confini in merito alla lotta al terrorismo e al narcotraffico, iniziò la costruzione di un muro, anche se in realtà si trattava quasi sempre di barriere anti-pedoni, che raggiungerà l’estensione di circa 1.100 km. La legge, inoltre, prevedeva l’aumento del numero di uomini a difesa dei confini e la presenza di checkpoint e torri di sorveglianza, oltre all’uso di tecnologie come droni, telecamere a infrarossi e controllo satellitare in grado di monitorare ogni tentativo di passaggio della frontiera.                                        

Il mancato consenso del Congresso all’utilizzo di ulteriori fondi fece sì che il muro non fosse completato e che venisse costruito principalmente in prossimità dei centri urbani maggiormente utilizzati dai migranti e dai narcotrafficanti per passare, come ad esempio a Tijuana, Ciudad Juarez e in alcune zone dell’Arizona, del Nuovo Messico e del Texas. In altre zone, invece, è la natura a svolgere la funzione di barriera come nel caso del deserto di Sonora o il corso del Rio Bravo, che spesso si sono rivelati dei passaggi mortali per coloro che li avevano scelti. Infine, il presidente Obama ha raddoppiando il numero dei poliziotti della Border Patrol, la polizia che si occupa di presidiare i confini degli Stati Uniti, portandola da 21.000 unità a 42.000. 

Con l’arroganza che ha contraddistinto la sua campagna elettorale, Trump ha sempre sostenuto che sarebbe stato il Messico a pagare per il muro tanto desiderato (“un vero e proprio muro. Non un muro giocattolo come ora”) e anche ora che l’ordine esecutivo che ne prevede la costruzione è stato avviato, ne è ancora convinto. Dello stesso avviso non è però il presidente messicano Enrique Peña Nieto, che ha recentemente annullato la sua visita negli Stati Uniti in segno di protesta. La sua improvvisa indignazione non viene però accolta e supportata dal suo stesso popolo. Non dopo l’aumento della violenza, delle repressioni e delle morti avute durante il suo mandato. Basti ricordare la sparizione dei 43 studenti della scuola di Ayotzinapa, la svendita delle proprie risorse naturali a grandi investitori stranieri, la repressione delle proteste dei maestri della CNTE e per ultime quelle per il gazolinazo, che, oltre al rifiuto per l’aumento dei prezzi della benzina, dimostrano come ormai la popolarità di Peña Nieto sia scesa ai minimi storici da quando è stato eletto presidente. Secondo le ultime indiscrezioni, pare che sia stato scelto di non parlare del muro pubblicamente, ma sarà una questione che verrà trattata in sede privata dai due presidenti, decretando così la quasi vittoria delle volontà di Trump e rivelandosi come l’ennesima dimostrazione dell’incapacità di Peña Nieto di difendere la dignità dei propri cittadini e del proprio paese.

Al rifiuto del Messico di pagare per il muro, Trump ha risposto che i soldi verranno anticipati dai contribuenti statunitensi, certo che poi l’intera somma spesa per i lavori verrà rimborsata dai loro vicini messicani. Allo stesso tempo ha minacciato di imporre il 20% di tasse in più sui prodotti che il Messico esporta negli Stati Uniti. Le stime iniziali previste da Trump in campagna elettorale prevedevano una spesa di circa 10 miliardi di dollari, ma la società di consulenza finanziaria Bernstein ha già fatto sapere che il costo reale sarà compreso tra i 15 e i 25 miliardi di dollari (http://fronterasdesk.org/sites/default/files/field/docs/2016/07/Bernstein-%20The%20Trump%20Wall.pdf). 

La lotta all’immigrazione clandestina di Trump si estende dal confine meridionale fino al cuore di alcune città del paese. Nel suo piano, infatti, è previsto anche il taglio dei finanziamenti federali (circa 7 miliardi) alle “sanctuary cities”, ovvero quelle città – circa 300, tra cui New York, Los Angeles, San Francisco e Chicago - che offrirebbero accoglienza agli immigrati clandestini contravvenendo così alle leggi sull’immigrazione.

Di certo, gli effetti di questi primi provvedimenti si vedranno tra qualche mese. Prima Donald Trump dovrà aspettare che il Congresso approvi la richiesta di finanziamenti che spera di ottenere sfruttando proprio il Secure Fence Act, non completamente attuato. 

In ogni caso, che il muro venga completato oppure no, la migrazione dal Messico e dagli altri paesi del Centro America non si fermerà. Le condizioni di estrema povertà e di violenza generalizzata spingono oltre 400.000 migranti ad attraversare il Messico ogni anno. Di certo si sa anche che fino ad ora ha prodotto 6.000 morti nel tentativo di oltrepassare il confine (dal 1994 a oggi), per non parlare degli arresti e delle detenzioni – con conseguenti deportazioni - di migliaia di migranti ogni anno. Non solo la migrazione non verrà fermata, ma nemmeno le incursioni delle multinazionali statunitensi (e non solo) dedite al saccheggio dei territori e delle risorse naturali, con il conseguente aumento della violenza nei confronti delle comunità locali e la collusione tra autorità e criminalità. Nonostante le recenti affermazioni di Trump sulla possibilità che gli Stati Uniti possono fare a meno del Messico, come dimostra anche la sua intenzione di rivedere gli accordi del NAFTA (North American Free Trade Agreement) che hanno influenzato fortemente le economie dei paesi della regione, gli affari più o meno leciti che si sono susseguiti nel corso degli anni dimostrano il contrario.

Un ulteriore dato certo è il paradosso, ormai consolidato, secondo il quale le autorità messicane rivendicano maggiori tutele e migliori condizioni per i propri cittadini emigrati negli Stati Uniti, mentre tutti i migranti centroamericani che attraversano il territorio messicano vengono abbandonati agli abusi e alle violenze dalle autorità corrotte e dalla criminalità organizzata che senza freni continua ad agire indisturbata lungo le rotte migratorie. Gli unici ad opporsi sono le organizzazioni religiose e laiche che insieme ai volontari si occupano di garantire un’accoglienza dignitosa a tutti e che molto spesso pagano il prezzo più alto per questa solidarietà.  

A pagarne il prezzo più alto saranno soprattutto coloro che cercheranno una migliore vita al Nord, che ancora credono nel sogno americano e nella possibilità di vivere dignitosamente e senza timori. Coloro che giunti alla frontiera con gli Stati Uniti dovranno continuare ad affidarsi a trafficanti di esseri umani e a narcotrafficanti per sperare di poter oltrepassare il confine rischiando la propria vita e alimentando un mercato fatto di sfruttamento e violenza. Se non ce la faranno andranno ad ingrossare le periferie delle città di frontiera o le maquilladoras che si estendono lungo il confine, vagando in attesa di un’occasione che forse potrebbe non giungere mai o diventando carne da macello per la criminalità organizzata pronta a vedere aumentare i propri affari.