Il Messico tra l’incubo e la speranza

Si insedia ufficialmente Andrés Manuel López Obrador, che ha stravinto le elezioni ma è già accusato di aver disatteso alcune promesse della campagna elettorale

3 / 12 / 2018

Il primo dicembre a Città del Messico è avvenuta la cerimonia di insediamento di Andrés Manuel López Obrador. Per la prima volta il Messico avrà un presidente di sinistra, progressista, ed è un evento storico. Ma cosa dovremo aspettarci dal nuovo presidente? In tutto il continente americano, dall’Alaska alla Patagonia, sotto l’influenza del trumpismo, stiamo assistendo all’avvento di governi conservatori, reazionari, violenti. Governi che mettono in luce il tentativo del sistema capitalista di superare la crisi in atto con un attacco brutale alle libertà e ai diritti individuali e ai territori. Il saccheggio estrattivista è in una fase di forte espansione e sembra non incontrare resistenza dal punto di vista della politica istituzionale con le sinistre incapaci di produrre una risposta sensata. In questo quadro, l’elezione di Andres Manuel sembra qualcosa che va in direzione contraria, che apre ai diritti e a un possibile nuovo corso. Probabilmente, è vero, qualcosa si muoverà, come lo è stato per le esperienze progressiste di Brasile, Bolivia, Ecuador solo per fare qualche esempio. Ma non dobbiamo farci prendere dall’entusiasmo perché il nuovo governo molto difficilmente avrà la forza e la volontà di produrre quei cambiamenti sistemici che sono il vero cuore del problema. Il riferimento è innanzitutto alla questione ambiente e grandi opere, di attualità in questi giorni in Messico con la consultazione voluta da AMLO sul Tren Maya, la nuova linea ferroviaria che nelle intenzioni del nuovo presidente dovrebbe attraversare il sud del Messico dallo Yucatan al Chiapas, con i conseguenti problemi legati allo sfruttamento dei territori e ai diritti delle popolazioni indigene che vi abitano. A tal proposito è illuminante il seguente passo di Raúl Zibechi apparso sul portale Desinformemonos che fa riferimento alle consultazioni popolari per far approvare dalla popolazione grandi opere come il già citato Tren Maya.

«Il governo di López Obrador arriva in un momento nel quale le classi dominanti non sono disposte a cedere niente. C’è una situazione che obbligherà molto rapidamente il governo ad allinearsi con gli interessi imprenditoriali. [...] Le consultazioni che si sono fatte e che si faranno sono meccanismi di disarticolazione della protesta. Un domani puoi dire di essere contro il Treno Maya por una qualsiasi ragione e ti possono dire di andare a votare. In questa consultazione, in quella dell’aeroporto ci sono stati oltre un milione di voti, ma credo che nelle prossime consulte andranno a votare più persone; e se votano più persone, maggiore sarà la legittimità della consultazione, anche se è illegale, senza sostegno giuridico o di altro tipo. Supponiamo che rispettino la consultazione. Il messaggio che stanno inviando i progressisti e López Obrador è che il conflitto non vale la pena perché è pericoloso, che votando o appoggiando il governo si risolveranno i problemi. Il meccanismo della consultazione cerca di incasellare e condurre la protesta nel terreno delle urne. Perché mi oppongo a una nuova strada se sono contro e posso votare? E se perdo, per lo meno l’ho fatto in un esercizio democratico nel quale non ho dovuto mettere il mio corpo e la polizia non mi ha manganellato. Quello che fa è delegittimare il conflitto e la protesta e questo va di pari passo con l’isolamento dei manifestanti. Chi protesta isolato è rapidamente vittima della repressione statale. Questo è il rischio che vedo nelle consultazioni popolari».

Nonostante tutto questo, per molti messicani ieri è stato il giorno della speranza. La speranza innanzitutto che il paese smetta di vivere nel terrore e nella violenza che i governi di Felipe Calderon e Peña Nieto l’hanno costretto. Il governo del presidente uscente infatti è stato il sessennio più violento della storia recente del Messico: Chalchihuapan, Iguala, Tanhuato, Apatzingán, Tlatlaya y Nochixtlán sono solo alcuni dei nomi più rappresentativi in cui ci sono state gravi violazioni dei diritti umani. I sei anni di presidenza di Peña Nieto chiudono con circa 148 mila morti violente (una media di oltre 60 al giorno e quasi 30 mila in più del governo di Calderon), 40 mila desaparecidos, 49 giornalisti assassinati, un paese disseminato di fosse clandestine e innumerevoli casi di tortura. 

La grande partecipazione alla cerimonia di insediamento di ieri con lo Zocalo in festa come solo nelle grandi occasioni testimonia la speranza di milioni di messicani di uscire da questo incubo chiamato “guerra al narco” che in realtà si è dimostrato essere una guerra alla popolazione messicana. La speranza è tutta qui, e non è poco: forse è arrivata la fine di questo incubo.