Il Dragone (in) rosso

La crisi cinese, la svalutazione dello yuan ed il "black monday" del 24 agosto 2015

25 / 8 / 2015

Non sono di certo le turbolente vicende di questa estate a farci scoprire che la Cina sia uno degli attori principali dell’economia globale. Nel volgere di poco più di un decennio il Dragone è diventato la seconda potenza economica mondiale, assestandosi alle spalle degli Stati Uniti. Stesso Paese del quale ha detenuto, fino alla metà del 2014, la maggior quota di debito pubblico.

Gli effetti del peso della Cina negli equilibri economici internazionali si sono resi ancor più evidenti nel black monday delle borse mondiali del 24 agosto. Trascinate da numeri negativi da capogiro, con Shangai che arriva a perdere quasi il 9%, le borse europee hanno bruciato complessivamente oltre 400 miliardi di euro, con Milano che soffre più di altre e sfiora il negativo del 6% ed Atene che giunge a perdere fino al 10,3%. Wall Street è riuscita a contenere le perdite, andando appena sotto del 3,5%, ma in generale era dal 2008, anno di esplosione della grande crisi mondiale, che non si assisteva a un tracollo di questa portata.

La maggior parte degli analisti economici vede nel crollo della Borsa una risposta immediata dei mercati finanziari in seguito alla tripla svalutazione dell’yuan, operata dalla People's Bank of China tra l’11 ed il 13 agosto scorso. Inizialmente la decisione della Pboc sembrava essere stata assorbita dalle borse, soprattutto asiatiche, ma sono bastati pochi giorni per vedere a pieno gli effetti di una destabilizzazione annunciata.

La scelta di svalutare forzatamente lo yuan va letta in chiave politica e sottende all’accelerazione, decisa dalle autorità cinesi, di liberalizzare il settore bancario. Un processo già in atto dall’inizio del 2010, quando è stato approvato un pacchetto di riforme volto ad integrare la moneta cinese nel sistema finanziario mondiale, suggellato dall’introduzione della negoziazione diretta tra l’euro e il renminbi nel mercato dei cambi di Shanghai. La liberalizzazione, secondo le intenzioni del governo cinese, avrebbe come obiettivo quello di spostare l’asse dell’economia cinese dai grandi investimenti governativi nelle infrastrutture alla crescita dei consumi interni.

Il grande storico economico marxista Maurice Dobb diceva che la costruzione di un forte mercato interno è il primo dei cinque stadi dello sviluppo del capitalismo. La Cina sembra invece sovvertire ampiamente questo schema, non facendo forse i conti con un Paese che, a fronte di un’economia diventata la seconda al mondo, è al 95° posto per Pil pro-capite, con poco più di 9.000 dollari all’anno[1]. L’accelerazione decisa ad agosto è stata presa dal governo cinese in base degli ultimi preoccupanti dati economici. Nell’aprile del 2015 è stato segnato un crollo delle esportazioni pari al 14,6% rispetto all’anno precedente (circa 143 miliardi di dollari). Ma a preoccupare maggiormente è senz’altro la previsione di una crescita del Pil annuale pari “solo” al 7%, molto lontana dal 10% che ha caratterizzato gli ultimi anni e la più bassa dal 1990. Il “modello cinese”, da molti disprezzato ma specchio più nitido del turbocapitalismo contemporaneo, basato sull’abbassamento estremo del costo del lavoro e su un ipersfruttamento che costa la vita a migliaia di persone (basti pensare alla strage ai cantieri portuali di Tientsin, che fa registrare oltre 100 morti, 6.500 senza tetto e danni ambientali incalcolabili) , dichiara al mondo la propria irrealizzabilità.

Ai dati sopracitati bisogna aggiungere il crescente debito pubblico di Pechino, che rappresenta uno degli aspetti più inquietanti e meno conosciuti della crisi cinese. Secondo l’economista Larry Hsien Ping Lang, docente di Studi finanziari presso l’Università cinese di Hong Kong, il debito reale della Cina sfiora i 36 mila miliardi di yuan (circa 4 mila miliardi di euro). A questo va sommato il debito dei governi locali, che è poco meno di 20 mila miliardi, e quello delle colossali imprese statali, pari a 16 mila miliardi. Viste le dimensioni si tratta di un debito che tenderà a crescere esponenzialmente, visto che gli interessi sono di circa 2 mila miliardi l’anno.

Alla luce di queste ragioni si comprende meglio la decisione della Pboc, che mira a rendere più competitiva la moneta cinese sul mercato internazionale, soprattutto in vista del futuro ingresso dello yuan nel basket dei diritti speciali di prelievo nel Fondo monetario internazionale. Dietro questa manovra potrebbe però celarsi una contromossa delle autorità cinesi per difendersi da attacchi speculativi  (avvenuti diverse volte nel corso del 2015), “ordinati” dalle principali agenzie di rating, in particolare la Jp Morgan City e la Goldman Sachs, che hanno più volte criticato la scelta cinese di disinvestire nei titoli del debito pubblico americano. Sempre sul versante geo-economico sarebbe interessante capire quali siano le connessioni tra la svalutazione dello yuan, il black monday del 24 agosto e l’inizio delle attività dell’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), che ha aperto i suoi battenti a Pechino nel luglio 2015 e si appresta a diventare, in aperta concorrenza al Fmi, il principale istituto di credito per promuovere l’ infrastrutturazione dell’intero continente asiatico.

Il tracollo borsistico del 24 agosto può in realtà nascondere un ulteriore scenario, ancora più inquietante. Si potrebbe infatti trattare di un grande attacco speculativo predeterminato, volto a scoraggiare la Federal Reserve ad aumentare i tassi d’interesse. La manovra è infatti prevista per il prossimo settembre ed avrebbe come conseguenza quella di abbassare la liquidità nel mercato finanziario americano, e di conseguenza internazionale, per favorire lo sviluppo dell’economia reale e la diminuzione dell’inflazione. Si tratta forse di fanta-finanza, ma non sarebbe la prima volta che il capitale finanziario agisce per non ribaltare gli assetti economici venutisi a creare con la crisi sistemica, che gli hanno consegnato un ruolo egemonico rispetto al “capitale produttivo”.

Si tratta di equilibri/squilibri tutti giocati nell’ambito della governance finanziaria, ma che non tarderanno ad avere effetti reali sia in ambito economico che sociale. Nello spazio europeo, come ha affermato Christian Marazzi in una recente intervista pubblicata sul Manifesto (che abbiamo riportato anche su Globalproject), la crisi cinese e la mossa della Pboc sono incompatibili con la rigidità di Schäuble e di tutti gli ideologi più oltranzisti dell’austerity. Inoltre la timida crescita registratasi nell’area Ue negli ultimi due anni potrebbe immediatamente arenarsi, perché legata in gran parte all’aumento delle importazioni.

Si stanno aprendo scenari molto imprevedibili, ma sicuramente preoccupanti per quel che riguarda i costi sociali di una nuova possibile destabilizzazione economico-finanziaria. Per contrastare tutto questo è necessario innanzitutto che i movimenti europei, protagonisti in questi anni delle lotte contro l’austerity, assumano per primi la convenzione che è l’intero modello di sviluppo che ha bisogno di essere superato, con la conseguente ricerca e pratica di un nuovo paradigma ecologico, ambientale, economico e politico.



[1] Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook Database, ottobre 2013