I veri colori dell'Economia Verde

19 / 10 / 2011

A vent’anni dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (Vertice della Terra o Eco’92), nel giugno 2012, si terrà a Rio de Janeiro, in Brasile, una nuova conferenza globale sul tema. Rio+20, come viene denominato il vertice del 2012, avrà luogo nel mezzo delle maggiori crisi globali del secolo: devastazione ambientale ed erosione della biodiversità, crisi climatica, crisi economica e finanziaria, crisi alimentare, crisi della salute.

Anche se inizialmente l’agenda del Rio+20 si era prefissata di riesaminare gli impegni contratti, lo stato dei problemi e delle strategie reali per risolverli, i temi all’ordine del giorno sono diventati l’economia verde e le nuove forme di governance ambientale globale. Se il termine “sviluppo sostenibile”, precedentemente utilizzato, era ambiguo e si è prestato ad un ampia manipolazione, la sostituzione con la denominazione “economia verde” segna un approccio ancora più ristretto che privilegia coloro che dominano il mercato.

Lontani da una riunione insignificante delle Nazioni Unite, Rio+20 si annuncia come uno scenario di disputa, perché potrebbe rappresentare la chiave per un riordinamento del discorso e della geopolitica globale, consolidando il legame dei nuovi mercati finanziari con la natura e un maggiore controllo oligopolistico delle risorse naturali, legittimando nuove tecnologie ad alto rischio e creando le basi di una nuova struttura di governance ambientale che faciliti l’avanzamento di una “economia verde” in chiave imprenditoriale.

A COSA SI RIFERISCE L’ECONOMIA VERDE?

Per molte persone e organizzazioni, “economia verde” può avere un significato positivo, associato con la produzione agricola organica, con le energie rinnovabili e con le tecnologie pulite. I movimenti ambientali presentano al loro interno una differenziazione di proposte di economie alternative, socialmente giuste, culturalmente appropriate ed ecologicamente sostenibili. Tuttavia la nozione di “economia verde” che viene gestita dai governi si muove in direzione opposta e si presenta basicamente come una rinnovazione del capitalismo per far fronte alla crisi, aumentando le basi di sfruttamento e privatizzazione della natura.

Già nel corso dell’Eco’92 le transnazionaliutilizzavano il greenwashing, tentando di offuscare la responsabilità della devastazione ambientale, appoggiando progetti di conservazione o “educazione” ambientale, certificati verdi, ecc. Ma, soprattutto, affermando che non vi era la necessità di cambiare il modello di produzione e consumo, dal momento che attraverso una tecnologia dotata maggior efficienza energetica e oltre, si poteva giungere a soluzioni di “win-win/vinci-vinci”, attraverso cui le imprese avrebbero continuato a trarre profitto mentre miglioravano l’ambiente con attività “verdi”.

La nuova economia verde non si discosta da questa posizione, ed è anzi ancora più preoccupante a causa dell’accresciuta mercificazione che perpetua nei confronti della natura e dell’ecosistema – oltre che dell’impatto sui popoli che dipendono da queste componetni. Non meno preoccupanti sono le nuove tecnologie -come la nanotecnologia, i transgenici, la biologia sintetica e la geoingegneria -a cui di fa riferimento, in maniera più o meno esplicita, all’interno di questo nuovo schema, poiché implicano enormi richi.

UFFICIALMENTE VERDE

Il concetto di “economia verde” è ambiguo e non trova una posizione comune nemmeno tra i governi. Un antecedente ricorrente nelle discussioni ufficiali in vista di Rio+20 è l’iniziativa sull’Economia Verde del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (PNUMA), in cui si inquadra il “nuovo accordo verde globale”, disegnato nel 2008 da quest’organismo, di cui Obama e altri esponentisi sono fatti portavoce, come una risposta di “win-win” alle crisi. Si programma dunque di affrontare la crisi finanziaria e climatica attraverso un reindirizzamento degli investimenti in “capitale naturale”, ricorredno a incentivi fiscali alle imprese che utilizzino l’energia “pulita” (come agrocombustibili), ampliando i mercati di carbonio. Il Brasile, che ha già predisposto imponenti investimenti in questi settori e molte risorse naturali da immettere nei mercati, ha proposto che l’economia verde costituisca uno dei temi centrali della conferenza del Rio+20, ricevendo l’approvazione delle Nazioni Unite.

All’interno dell’iniziativa sull’Economia Verde, nel 2009 il PNUMA ha pubblicatoil rapporto del progetto TEBB (L’economia degli ecosistemi e della biodiversità, nella sua sigla inglese) e nel 2011 l’esteso report “Verso un’economia verde”, diviso in tre sezioni: investimenti nel capitale naturale (agricoltura, acqua, boschi, pesca); investimenti in efficienza energetica e impiego delle risorse (energie rinnovabili, industria manifatturiera, rifiuti, costruzione, trasporto, turismo, città) e transizione verso l’economia verde (finanziamento e condizioni politiche favorevoli).

Significativamente, tanto il rapporto sull’economia verde come il TEBB sono stati coordinati daPavan Sukhdev, un alto dirigente della banca transnazionale, e ne riflettono la logica: stabilire un prezzo –anche se viene definito con il termine valore- per tutta la natura e le sue funzioni. Sukhdev è dirigente della Deutsche Bank e ha lavorato in precedenza sul tema della valutazione economica della biodiversità per il Foro Economico di Davos.

Il progetto TEEB è nato nel 2007 a partire da una riunione del G8+5. I cinque governi “aggiunti” alle potenze globali erano Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica –tutti governi di paesi megadiversi e interessati nel commercio della biodiversità dei propi paesi. Con la crisi finanziaria, la mercificazione della natura che implica il TEBB, spicca come ancora di salvezza davanti al naufragio dei mercati speculativi. Sukhdev chiama la biodiversità un nuovo “mercato multimilionario”.

Questi e altri programmi similari sull’economia verde poggiano su tre grandi pilastri: a) una maggiore mercificazione e privatizzazione della natura e degli ecosistemi, integrando le sue funzioni come “servizi” ai mercati finanziari, b) la promozione di nuove tecnologie e la vasta espansione dell’uso di biomassa e c) un quadro di politiche che permettano e premino tutto questo, cioè i governi e le società dovrebbero fare in modo che le imprese possano ottenere profitti dalle due azioni menzionate.

PRIVATIZZANDO L’ARIA

Un elemento prematuro del pacchetto proposto per l’economia verde è il pagamento di servizi ambientali (PSA) o servizi ecosistemici. Questa visione include il pagamento per servizi ambientali forestali, idrologici, paesaggistici e bioprosepeccion (bioterapia) e comporta la ridefinizione delle funzioni della natura e della biodiversità come “servizi” da mettere sul mercato . I PSA hanno portato al sorgere di numerosi conflitti tra i gruppi indigeni e i contadini, all’interno e tra le comunità, dal momento che promuovono la concorrenza per chi per primo giunga a commerciare i beni condivisi. Gli schemi dei PSA richiedono di inventare “padroni” (posizione che era stata occupata da Ong o gruppi dentro le comunità) delle funzioni dell’ecosistema, delle conoscenze sulla biodiversità, della cura tradizionale dell’acqua, delle valli e dei boschi, che fino a questo momento erano stati beni comuni e collettivi, non commercializzabili.

In molti casi, i PSA sono cominciato attraverso prestiti della Banca Mondiale  -debito pubblico da pagare da tutti- con l’obiettivo esplicito di creare mercati dei servizi ambientali, a cui sono seguiti, in un secondo momento, mercati secondari di servizi ambientali, altamente speculativi. I PSA comportano  che una transnazionale -che probabilmente non era nemmeno mai stata presente sul territorio- possa finire per deliberare sul territorio, sulle acque o sulla biodiversità  di comunità indigene e contadine dei paesi del Sud del mondo.

Da questa esperienza sorgono i programmi REDD (Ridurre le Emissioni da Deforestazione e Degrado) la cui approvazione,con la loro introduzione nella Convenzione sul Cambio Climatico nel dicembre 2010, ha aperto improvvisamente tutti i boschi del pianeta ai mercati finanziari speculativi.

L’ipotesi del REDD è che per frenare la deforestazione –grave fattore della crisi climatica- bisogni compensare economicamente i responsabili della deforestazione. Non evitare la deforestazione ma pagare coloro che la perpetuano. Per questo si chiama deforestazione “evitata”: prima di tutto bisogna deforestare per poi venderne la cessazione. Si tratta di un altro evidente scenario del “win-win” e chi più ne beneficia sono proprio i responsabili della distruzione della maggiore quota di boschi e foreste, che, oltre tutto, potranno continuare a farlo, dal momento che il REDD accetta che salvando un 10% dell’area che si erano prefissi di deforestare possano ricevere crediti di carbonio o pagamenti per “deforestazione evitata”.

Al programma originale sono stati aggiunti elementi per “accrescere le riserve di carbonio” e per la “conservazione” e “la gestione sostenibile dei boschi”. Il primo caso prevede che, dopo aver deforestato, vengano piantate monoculture, che oltre ad essere, di fatto, una fonte lucrativa addizionale, producono un forte impatto sull’ambiente e sulle comunità locali. Ma la cosa più perversa è costituita da quello che chiamano “conservazione e gestione sostenibile” poiché mira direttamente a spogliare le comunità indigene e delle foreste dei propri diritti e del proprio territorio, offrendogli, in cambio, il pagamento dell’aria dei propri boschi.

Dal momento che il REDD “si paga”, quello che viene fatto con il bosco e con le sue capacità di assorbimento dell’anidride carbonica deve essere “verificabile”, che significa definito da agenti esterni alle comunità, che si ritrovano a dover pagare salatamente “esperti”, che gli dicano cosa possono o non possono fare con i propri boschi e i propri territori. Le imprese altamente contaminanti e grandi emittrici di gas ad effetto serra comprano la capacità di assorbimento dei boschi, per continuare indisturbati nella propria attività, ma ora con la giustificazione(non provata scientificamente, ma molto lucrativa) che in una parte del mondo ci sarà un bosco che assorbirà le proprie emissioni. A sua volta i buoni del carbonio ottenuti entrano in un mercato secondario dove la stessa impresa può rivenderli ad altri a un prezzo addirittura maggiore, non solo recuperando il proprio investimento ma guadagnandoci anche un extra. Il maggiore volume monetario dei mercati del carbonio diventa, in questo modo, una speculazione secondaria, che vende e rivende, letteralmente, aria pura.

In generale, tutti gli schemi di commercio del carbonio sono diretti ai mercati speculativi, un mercato decisamente maggiore rispetto ai mercati primari. Ora in gioco, nella Convenzione sul Cambiamento Climatico, vi è anche l’inclusione del suolo  e dell’agricoltura –che è la base dell’alimentazione mondiale- come un grande canale di scolo del carbonio da immettere nella speculazione finanziaria.
Alcune organizzazioni credono che questi programmi costituiscano un riconoscimento agli apporti di comunità indigene e contadine per prendersi cura dell’ambiente e frenare il cambiamento climatico,e che, per questo motivo, la loro esistenza sia positiva. L’esperienza dimostra che le conseguenze di questi schemi di mercificazione della natura e delle sue funzioni sulle comunità siano decisamente peggiori di qualsiasi possibile compensazione economica.Ma ancor più grave è l’accettazione del fatto che gli ecosistemi, la natura, la biodiversità, le conoscenze, si trasformino in merce del miglior offerente, lasciando all’arbitrarietà e all’affanno lucrativo delle imprese la decisione di riconoscere o meno un apporto essenziale per l’esistenza di tutti.

Al posto di un riconoscimento sociale autentico del ruolo fondamentale svolto storicamente e tutt’ora, dalle comunità indigene e contadine locali, nell’accudirela biodiversità e la produzione differenziata di alimenti sani per l’umanità, che ci si aspetterebbe tradursi nell’appoggio all’esercizio effettivo dei loro diritti integrali –includendo il diritto alla terra e al territorio, alla cultura e a forme alternative di economia e politica-, l’economia verde privatizza e mercifica la natura, sostituendo i loro diritti con transizioni commerciale e quelle che dovrebbero essere le politiche pubbiche con una competenza del mercato.

TSUNAMI TECNOLOGICO VERDE?

Altro pilastro fondamentale dell’economia verde è l’impiego di nuove tecnologie. La proposta tecnologica risulta di particolare importanza davanti alle crisi, dal momento che rivitalizza l’industria produttiva attraverso fonti di rendimento straordinarie e riafferma l’illusione che non sia necessario rivalutare le cause delle crisi: tutto può essere affrontato e risolto attraverso nuove tecnologie.

Le patenti relative alle tecnologie –anche quelle necessarie per le energie rinnovabili, come quella eolica e solare- sono quasi totalmente nelle mani di grandi imprese, che ne definiscono ferocemente il monopolio e non sono disposte a discutere della loro deroga, per nessuna economia, sia essa verde o di qualsiasi altro colore. Ancora meno ovviamente se si tratta di ampliarne il mercato.

Ad ogni modo, queste energie, considerate amichevoli per l’ambiente, non sono nemmeno appropriate in tutti i loro aspetti e ancor meno quando vengono applicate come megaprogetti delle transnazionali, abusando dei territori indigeni. Inoltre implicano molto spesso l’uso di materiali basati sulla nanotecnologia, un tipo di industria altamente diffusa, di cui centinaia di studi dimostrano la tossicità delle microparticelle e dei nanocomposti sulla salute e sull’ambiente, e nonostante ciò non sono regolate in nessuna parte del mondo e nemmeno se ne conosce il reale costo energetico all’interno del ciclo di vita completo dei prodotti nanotecnologici, né i rifiuti tossici che generano, tra gli altri fattori.

Un’ulteriore nuova tecnologia che soggiace alle proposte dell’economia verde è la biotecnologia, che implica da un’intensificazione delle coltivazioni transgeniche per agrocombistibili e “resistenti al clima”, fino alla biologia sintetica, cioè la costruzione in laboratorio di geni, dove tutti i passaggi metabolici e microbici sono sintetici, per produrre nuove sostanze industriali. Gli usi più immediati si riferiscono al processo della cellulosa, che prima non era utilizzabile, in quanto troppo inefficiente e costosa. Con microbi prodotto della biologia sintetica è possibile processare qualsiasi fonte di carboidrati –come la cellulosa- per fare polimeri che si possano convertire in combustibili, prodotti farmaceutici, plastici o altre sostanze industriali. All’improvviso tutta la natura, tutto ciò che è vivo o lo sia stato, è visto come “biomassa”, la nuova materia prima universale per essere processata attraverso la biologia sintetica. La disputa industriale per accaparrare qualsiasi fonte di biomassa naturale o coltivata è in marcia ed è una delle maggiori minacce alla natura e ai popoli.

Anche proposte come la geoingegneria, cioè la manipolazione deliberata del clima del pianeta, convergono nell’economia verde  on alcune delle sue tecnologie, come l’uso massivo di biomassa per bruciare e fertilizzare il suolo come canale di scolo del carbonio (biochar), le grandi piantagioni di monoculture o la fertilizzazione dei mari per assorbire il carbonio.

Di fronte ai rischi di queste nuove tecnologie, il gruppo ECT pianifica di stabilire un meccanismo multilaterale per la previa valutazione ambientale, sociale, economica e culturale delle tecnologie, con partecipazione reale della società civile e le potenziali vittime, prima che raggiungano i mercati. Tecnologie estremamente pericolose e con alto potenziale bellico, come le geoingegneria, devono essere proibite.

Al posto di questo “economia verde” quello di cui abbiamo bisogno è giustizia sociale e ambientale. In tutto il mondo, i movimenti sociali hanno diverse proposte per questi. E oltre alle proposte, realtà contundenti, come quelle della produzione contadina e indigena dà da mangiare alla maggior parte del pianeta e sta già raffreddando il pianeta.

Silvia Ribeiro è membro del Gruppo ETC

Traduzione di Anna Bianchi

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