I popoli originari tra ipocrite celebrazioni e resistenza

11 / 8 / 2020

Il 9 agosto si è celebrata la “Giornata Internazionale dei Popoli Indigeni”, indetta dall’ONU nel 1994 con l’obiettivo di affrontare le problematiche dei popoli originari legate ai diritti umani, all’ambiente, allo sviluppo, all’istruzione, alla salute e alla crescita economica e sociale e al tempo stesso di far risaltare la ricchezza culturale che apportano all’umanità.

Secondo le stime ufficiali sono circa 370 milioni le persone appartenenti ai popoli originari, meno del 5% della popolazione globale, distribuiti in 90 diversi Stati-Nazione di cui spesso non riconoscono l’autorità e da cui quasi sempre sono violentemente sfruttati ed emarginati. Si conta che rappresentino più di cinque mila differenti culture e che parlino la stragrande maggioranza delle sette mila lingue parlate nel mondo. Dato più importante, le popolazioni originarie difendono oltre l’80% della biodiversità presente sulla Terra. In America Latina secondo uno studio della CEPAL la popolazione indigena è stimata intorno a 60 milioni di persone di 800 differenti popoli originari e corrisponde al 10% della popolazione totale della regione.

Per il 2020 l’ONU ha stabilito che il tema della giornata fosse “Covid 19 e resilienza dei popoli indigeni”. Questa giornata di celebrazioni non ci deve tuttavia esimere dal denunciare la durissima “guerra” in atto che le popolazioni indigene stanno subendo e che, proprio a causa della pandemia, si è aggravata. Il virus che ha colpito e bloccato il mondo intero purtroppo si è insinuato anche in moltissime comunità indigene, nonostante gli sforzi prodotti per limitare i contagi. L’auto isolamento è stato uno dei primi strumenti (e a volte l’unico a disposizione) di auto protezione utilizzati da molte comunità, consapevoli che solo la prevenzione avrebbe potuto limitare contagi e vittime, a causa delle difficoltà di accesso alle cure sanitarie. Era il 16 marzo quando gli zapatisti chiusero le loro comunità mentre nel paese cominciavano ad apparire i primi casi di contagio e il presidente López Obrador se ne andava in giro col santino de la Virgen de Gaualupe invocando la sua protezione. Oggi il Messico è tra i paesi con più casi di positività al virus e secondo stime ufficiali sono oltre cinque mila gli indigeni che si sono ammalati, anche se lo stesso governo messicano ha dichiarato che è impossibile stabilire la penetrazione del virus nelle comunità indigene. Secondo i dati del Fondo para el Desarrollo de los Pueblos Indígenas de América Latina y El Caribe (FILAC), al 5 agosto sono stati contabilizzati 58630 casi di positività e 2024 vittime. La maggior parte di questi sono stati registrati in Brasile, Perù e Guatemala. «A parte Belize, El Salvador e Uruguay, tutti gli altri paesi della regione confermano casi di persone indigene contagiate» ha detto a DW la presidente della FILAC Myrna Cunningham.

Pueblos Indigenas

Il virus, essendo causa e conseguenza del sistema estrattivista, ha colpito maggiormente quella fascia di popolazione che più di tutte soffre il sistema stesso, vale a dire quelle più povere ed emarginate dalla società. E le popolazioni indigene sono tra le più esposte per vari motivi: il primo è, come già accennato, l’isolamento geografico in cui spesso vivono e l’impossibilità di accedere ai servizi assistenziali a causa della distanza dalle strutture sanitarie. Il nodo centrale è tuttavia il disinteresse e l’abbandono delle istituzioni: in questi mesi di pandemia diverse organizzazioni, tra le quali l’ecuadoriana CONAIE, hanno denunciato l’abbandono subito dalle comunità indigene, le quali solo grazie all’auto organizzazione e alla solidarietà dal basso hanno potuto resistere al sopraggiungere della crisi sanitaria ed economica. In tutta la regione si sono moltiplicate le situazioni di mutuo appoggio tra organizzazioni e comunità, che di fatto si sono sostituite all’inazione e alla mancanza di aiuti da parte degli stati nazionali.

Ma il covid è solo la punta dell’iceberg e la “guerra” colpisce anche i territori dove queste popolazioni risiedono. Uno di questi territori è l’immensa è importantissima foresta amazzonica culla della biodiversità globale. Dall’anno scorso il “terricidio” dell’Amazzonia è stato intensificato dagli incendi illegali per favorire lo sfruttamento dei territori da parte delle multinazionali zootecniche e agroalimentari. Milioni di ettari di bosco ogni anno vanno letteralmente in fumo per il profitto di pochi criminali, a cui gli stati nazionali, forniscono da una parte le giustificazioni di legge attraverso la “concessione” di politiche estrattiviste e dall’altra protezione e impunità verso tutti gli abusi e gli atti criminali che causano il perpetuarsi di questa lenta distruzione della natura. Come abbiamo sempre denunciato su Globalproject non è una questione di colore dei governi: negli incendi del 2019 in Bolivia, per esempio, sono andati bruciati 950 mila ettari: il 97% di questi incendi era illegale, senza autorizzazioni, e il governo “indigeno” di Evo Morales non solo non ha fatto nulla per contrastare gli incendi ma ha anche protetto e favorito gli imprenditori “alleati” responsabili degli incendi stessi. Allo stesso modo oggi, il governo golpista della Añez prosegue la difesa degli interessi privati, tanto che nel mese di luglio 2020 gli incendi nella Chiquitania sono addirittura superiori allo stesso mese dell’anno precedente come denunciato dall’attivista boliviano Pablo Solon. In Brasile, dietro la spinta “criminale” di Bolsonaro va forse anche peggio: rispetto al mese di luglio dell’anno precedente, gli incendi in Amazzonia sono aumentati del 30%. E la causa degli incendi è sempre la stessa, nella continua domanda di terreni per l’allevamento di bestiame e per le monocolture intensive a cui il governo di Bolsonaro risponde con l’avvallo politico a queste politiche estrattiviste.

Per far fronte a questo drammatico evolvere degli eventi è nata nelle settimane scorse un’interessante esperienza, l’Asamblea Mundial por la Amazonía. Così recita il comunicato della convocazione: «Con l’impulso di 540 gruppi amazzonici, e il sostegno iniziale di 3.098 persone, chiamiamo a una mobilitazione mondiale per l’Amazzonia, per i seguenti obiettivi:

Fermare l’ecocidio che avanza verso il “punto di non ritorno” della savanizzazione e della frattura ecosistemica in Amazzonia e nelle sue connessioni con l’Orinoquia, la Chiquitanía, il Chaco, il Mata Atlántica, il Cerrado e altre regioni. La fine dell’inferno dei roghi e degli enormi incendi, dell’estrazione mineraria, del traffico di terre, della parcellizzazione, della colonizzazione, per gli interessi dell’allevamento di bestiame, della coltivazione di soia, di palma da olio, della monocoltura, delle miniere, degli idrocarburi e di altre produzioni. Fermare la dittatura delle infrastrutture (come le autostrade e le dighe idroelettriche) e delle merci convenzionali o falsamente “verdi”.  Consolidare i diritti della natura e dell’ecosistema amazzonico come essere vivente essenziale per la sopravvivenza planetaria. Prima che diventi irreversibile, fermare la catastrofe della vita globale come conseguenza della distruzione dell’Amazzonia che è cuore del mondo, per i suoi innumerevoli benefici fra i quali la mega-biodiversità, l’ossigeno, l’acqua dolce, la regolazione e il raffreddamento del clima». 

Il processo, partito a metà luglio con una partecipata assemblea virtuale, si è dato tre campagne mondiali: “Covid 19” per far fronte ai gravi impatti del virus sulle popolazioni indigene, afro discendenti e di tutta l’Amazzonia; “Boicot” per boicottare i prodotti, le imprese, gli investimenti, gli accordi commerciali e l’estrattivismo che distruggono l’Amazzonia e infine “Mobilitazioni” per la costruzione di giornate mondiali di iniziative con lo scopo di dare visibilità e fermare l’etnocidio, l’ecocidio e l’estrattivismo e salvare l’Amazzonia, essenziale per far fronte ai cambiamenti climatici.

Pueblos Indigenas

Il “terricidio” va di pari passo con la repressione. Una repressione che giorno dopo giorno diventa sempre più dura e crudele, anche grazie alla pandemia che ha fornito ai governi una giustificazione legale in più per stroncare con la violenza qualsiasi tipo di opposizione o di protesta ai progetti di morte. È in atto infatti un violento attacco contro le comunità indigene in resistenza che abitano e difendono questi territori. Il caso più eclatante e attuale è quello delle comunità mapuche che abitano la Patagonia argentina e cilena e che oggi sono il simbolo non solo dell’estallido social cileno ma anche della resistenza contro un modello di sviluppo predatorio. Proprio in questi giorni le comunità indigene mapuche cilene, da giorni in mobilitazione per chiedere la liberazione dei prigionieri politici, hanno subito una violentissima repressione organizzata dallo stato cileno in collaborazione con gruppi paramilitari di latifondisti fascisti, che ha causato molti arresti e feriti tra cui anche bambini. «Questi attacchi, più che metterci paura, ci rendono più forti nella nostra lotta per la restituzione dei nostri diritti territoriali e politici, per l’autonomia e l’auto determinazione del Paese Mapuche» hanno dichiarato i comuneros mapuche uniti. A una  settimana dall’attacco razzista le comunità mapuche sono ancora nelle strade per sostenere lo sciopero della fame dei propri prigionieri politici e continuano a manifestare senza paura per i propri diritti e per la propria terra e, a seguito di un trawun (assemblea in mapudungun), hanno organizzato una grandissima manifestano proprio nella località teatro dell’attacco razzista. Se i mapuche sono forse il simbolo più attuale e conosciuto non vanno certo dimenticate le vittime che in tutta la Regione si oppongono ai progetti estrattivisti e alle grandi opere e che, nella maggioranza dei casi, appartengono a comunità indigene.

Pueblos Indigenas

È questa la drammatica situazione in cui vivono le popolazioni indigene e nell’immediato futuro non sembra esserci la possibilità che questa guerra termini. Il motivo  di questa guerra alle popolazioni indigene è presto detto: come dice Raúl Zibechi, le popolazioni indigene rappresentano l’unico modello di vita realmente anticapitalista, per vari fattori: da una parte, come ha evidenziato la pandemia, per l’autonomia e la capacità di organizzazione e di sopravvivere al di fuori del mercato; dall’altra per il rapporto stretto che hanno con il territorio in cui vivono, in una simbiosi che è l’elemento fondamentale per il “buen vivir” in armonia con la natura e le genti vicine. Per il sistema capitalista rappresentano un problema da annientare con la violenza perché offrono un’alternativa. Più che celebrare un giorno vuoto, dovremmo quindi celebrare la loro resistenza anticapitalista e unirci alla loro lotta desde abajo por un mundo mejor.

Photo credit: labidaezotrakoza