Hong Kong in rivolta: un’intervista con Au Loong-Yu.

Intervista ad Au Loong-Yu di Kai Heron tradotta da Francesco Cargnelutti

6 / 10 / 2020

L’intervista ad Au Loong-Yu è stata fatta dall’editore associato della rivista online Roar, Kai Heron, ed è stata originariamente pubblicata sul sito della rivista. Loong-Yu è un attivista per la giustizia globale e per i diritti dei lavoratori, e fondatore di Globalization Monitor, un gruppo con sede ad Hong Kong che monitora le condizioni di lavoro in Cina. L’occasione dell’intervista è stata la recente pubblicazione del libro Hong Kong in Revolt: The Protest Movement and the Future of China di Loong-Yu.

Quando un gruppo di manifestanti ha organizzato un sit-in davanti alla sede del governo di Hong -Kong a marzo del 2019, erano poco consapevoli che le loro azioni avrebbero dato il via alla più significativa ondata di lotte nella storia di Hong -Kong. Il sit-in era in opposizione all’implementazione anticipata dell’“atto di emendamento dell’ordinanza sui criminali fuggitivi” (Fugitive Offenders Amendement Bill), più comunemente nota come “Legge di estradizione”, che avrebbe dato a Pechino il potere di estradare residenti e visitatori di Hong Kong nella terraferma. I manifestanti avevano paura che sottoponendo i cittadini di Hong Kong al sistema legale draconiano della terraferma, l’atto avrebbe messo effettivamente fine alla politica post-coloniale di “un paese, due sistemi”.

Con l’intensificarsi delle proteste, centinaia di migliaia di persone sono scese in strada. I media internazionali sono rimasti colpiti dal livello delle battaglie dei manifestanti contro la polizia e dalla impressionante varietà delle nuove tattiche di strada che da allora hanno ispirato manifestanti in tutto il mondo, dal Cile a Rochester, New York. Anche se il provvedimento è stato annullato e l’attenzione dei media è andata altrove, le proteste sono continuate, fermate solamente dall’epidemia di COVID-19 all’inizio dell’anno.

Nel suo nuovo libro Hong Kong in Revolt: The Protest Movement and the Future of China (Pluto, 2020), l’attivista per i diritti dei lavoratori e autore Au Loong-Yu traccia le origini del movimento, esplora le sue dinamiche interne e riflette sul suo significato per il futuro. Per celebrare la pubblicazione del libro, l’editore associato di Roar, Kai Heron, ha intervistato Au sulle proteste e sul futuro delle lotte in Cina e Hong Kong, ora devastate dagli effetti del COVID-19.

Come recita il vecchio detto di Mao, una singola scintilla può accendere un fuoco di prateria. Abbiamo spesso sentito che la Legge di Estradizione della Cina è stato la scintilla che ha dato inizio alla ribellione di Hong Kong, ma come hai spiegato nel tuo libro, le cause della ribellione sono molto più profonde. Puoi spiegarci il loro contesto storico e perché sia forse stata proprio la Legge di Estradizione ad accendere il fuoco della ribellione?

La Legge di Estradizione ha fatto da scintilla per la rivolta dell’anno scorso soprattutto perché ha simultaneamente coinvolto non solo due parti – Hong Kong e Pechino –, ma tre: Hong Kong, Pechino e la “comunità internazionale”. Questa combinazione ha scosso Hong Kong nelle sue fondamenta.

La prima di queste parti, il popolo di Hong Kong, si era conformato allo status quo per molti decenni. Non ha nemmeno protestato, ad esempio, quando Londra e Pechino hanno negoziato il futuro di Hong Kong negli anni ’80 senza la consultazione dei cittadini di Hong Kong. Nonostante la passività di questi, Pechino non si sentiva comunque al sicuro, soprattutto dopo che la sua repressione del movimento democratico nel 1989 aveva suscitato forte dissenso.

Nel 2003, sei anni dopo la cessione [del territorio di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina, NdT], Pechino ha cercato di rafforzare la sua stretta su Hong Kong preparando la prima Legge di Sicurezza Nazionale. Quando però 500.000 persone sono scese in strada per protestare, il governo è stato costretto a cedere. Da un lato, questo non è stato un grande colpo per Pechino poiché aveva mantenuto un certo numero di leggi iper-repressive che erano state introdotte sotto il colonialismo inglese – sebbene fossero ora accompagnate da un minimo di protezione dei diritti umani – che di fatto ottenevano lo stesso scopo della legge di sicurezza proposta.

Dall’altro lato, tuttavia, l’offensiva legale del 2003 si è ritorta contro Pechino perché ha ricordato ad Hong Kong che la Cina continentale non aveva mantenuto la sua promessa di implementare il suffragio universale. Senza di questo, era chiaro che il popolo di Hong Kong sarebbe rimasto senza potere di fronte ad uno stato orwelliano. Dal 2003, gli appelli per il suffragio universale non hanno fatto che rafforzarsi.

Il palcoscenico era pronto per uno scontro diretto tra le due parti.

Il prossimo punto di rottura risale al 2014. L’Umbrella Movement, come è stato chiamato, ha dimostrato che la generazione più giovane non avrebbe aspettato più a lungo. Ciò ha spinto Pechino a prendere drastiche misure nel 2019 discutendo la Legge di Estradizione, che di fatto doveva mettere fine alla separazione tra la Cina continentale ed Hong Kong per quanto riguardava i loro rispettivi sistemi legali. La cosa importante di questo atto è che faceva sì che i residenti di Hong Kong fossero giudicati nella Cina continentale sotto le leggi cinesi, e non più quelle inglesi. Da qui la grande resistenza a questo provvedimento.

All’inizio Pechino ha sostenuto che la legge fosse stata scritta per l’estradizione di cinesi della terraferma corrotti che erano fuggiti ad Hong Kong. Ma in realtà, il suo scopo era colpire chiunque passasse per Hong Kong, inclusi visitatori stranieri. Questo significava che la legge avrebbe avuto ripercussioni per i paesi occidentali, molti dei quali avevano interessi ad Hong Kong, gli Stati Uniti ed il Regno Unito in testa.

La legge quindi non solo segnava la fine della politica “un paese, due sistemi” ma di fatto stracciava la promessa fatta da Pechino all’Occidente all’inizio dei negoziati tra Londra e Pechino quattro decadi fa. Sia la Dichiarazione Congiunta Sino-Inglese del 1985 sia la Legge Fondamentale che è entrata in vigore nel 1997 stipulano che Hong Kong avrebbe mantenuto le sue originarie leggi coloniali inglesi – basate sul sistema di common law inglese – per 50 anni. Ciò voleva dire che ad Hong Kong chiunque doveva essere giudicato dalle leggi coloniali e da giudici di Hong Kong, assieme ad alcuni giudici dei paesi del Commonwealth.

Questa soluzione era lontana dall’essere ideale, ma la Legge di Estradizione di Pechino era peggio. Avrebbe messo fine al suddetto accordo legale e fatto sì che chiunque ad Hong Kong fosse giudicato dalla legge cinese. Sotto una crescente pressione domestica ed internazionale, la legge è stata infine annullata dal governo di Hong Kong, solo per essere reincorporato nella Legge di Sicurezza Nazionale del luglio 2020 imposta da Pechino.

Fino a poco tempo fa, gli Stati Uniti e il Regno Unito erano accomodanti verso Pechino, anche dopo la repressione del movimento democratico del 1989. L’accordo aveva portato enormi benefici economici ad entrambe le parti. Nel 2015, quando i pan-democratici di Hong Kong, sotto la pressione dell’Umbrella Movement dell’anno precedente, volevano mettere il veto sul pacchetto di riforme del governo che avrebbe sì garantito il suffragio universale ma anche negato al popolo di Hong Kong il diritto di nominare i candidati per il vertice dell’amministrazione, i rappresentanti dell’establishment di Regno Unito e Stati Uniti hanno fatto pressione sui pan-democratici per accettare la legge invece di porre il veto.

La posizione di Stati Uniti e Regno Unito a questo proposito si spiega col fatto che i due paesi avevano beneficiato enormemente della politica “un paese, due sistemi” della Cina in Hong Kong. La Legge Fondamentale del 1997 non ha solo protetto i loro privilegi politici, legali e culturali, ma ha anche dato impulso ai loro interessi economici grazie al ruolo di Hong Kong come terzo più grande centro finanziario mondiale.

La Legge di Estradizione del 2019 ha minacciato questi interessi. Spesso si spiega la scelta di Pechino di introdurre questa legge facendo riferimento al fatto che la Cina volesse prendere di mira sia il popolo di Hong Kong che gli stranieri come un atto di ritorsione necessario contro l’arresto da parte del governo canadese di Meng Wanzhou, la figlia del capo di Huawei, su richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti.

Qualsiasi sia il motivo del provvedimento, esso ha spinto il Regno Unito e gli Stati Uniti a cambiare drasticamente la loro politica verso Pechino, adottando una posizione più conflittuale che li ha spinti a sostenere l’opposizione del popolo di Hong Kong. Senza l’intervento di queste “forze straniere localizzate”, la rivolta locale non avrebbe creato, da sola, tali ripercussioni.

La copertura della ribellione nei media occidentali suggerisce che le proteste abbiano un sostegno popolare diffuso. Com’è prevedibile, ciò che manca da questa narrazione è come classe e status sociale influenzino la partecipazione alle proteste. Qual è la composizione di classe e politica del movimento? È principalmente un movimento di giovani? Che cosa spiega tale composizione?

Secondo un report del 2020 dell’Università Cinese di Hong Kong, tra le 26 più grandi proteste del 2019, la “classe media” rappresentava tra il 42 e il 65 percento della partecipazione totale, mentre il dato per la “classe inferiore” era tra il 28 e il 40 percento e quello della “classe superiore” era trascurabile. Il limite di queste cosiddette “identità di classe” è che spesso riproducono un’idea sbagliata di identità di classe diffusa nell’opinione pubblica.

Ad Hong Kong, i “colletti bianchi” come insegnanti e infermiere, ad esempio, sono considerati “classe media”. Tuttavia, anche se vengono pagati più dei lavoratori della cosiddetta “classe lavoratrice”, come gli addetti delle pulizie, entrambe le “classi” sono dipendenti, per la loro riproduzione, dalla relazione di salario; inoltre entrambe si organizzano in sindacati. È quindi corretto dire che, se escludiamo gli studenti, i partecipanti alle proteste sono soprattutto lavoratori in senso lato.

La cosa interessante della rivolta è che è iniziata come un ampio movimento popolare. Nel giugno del 2019, due mesi dopo le prime grandi proteste, il movimento era abbastanza forte da chiedere ed organizzare uno sciopero generale il 5 agosto, dove 350.000 lavoratori hanno smesso di lavorare e si sono uniti alle manifestazioni in tutta Hong Kong. Questo è stato il primo sciopero locale, politico, genuino ed efficace dal 1949 ed ha aperto la strada per la nascita di un nuovo movimento sindacalista con dozzine di nuovi sindacati che si sono formati entro la fine del 2019. È stata davvero la prima volta che le organizzazioni dei lavoratori hanno giocato un ruolo così visibile nel movimento democratico locale.

Bisogna poi aggiungere che c’è un gruppo di partecipanti alla rivolta la cui classe sociale non è ancora perfettamente chiara. Si tratta degli studenti e dei neo-laureati. Circa la metà dei partecipanti alle tre più grandi proteste che contavano fino a due milioni di persone avevano meno di 30 anni. Di questi, gli studenti e i neo-laureati rappresentavano circa il 30 percento. È una generazione che nel mio libro chiamo la generazione del 1997: coloro che sono nati un po’ prima o dopo il 1997, quando Hong Kong è stata passata alla Cina. La loro presenza è stata ancora più visibile durante le azioni più piccole ma più radicali della rivolta.

La percezione che questa generazione del 1997 ha di Pechino è quella di un oppressore, non solo nel senso dei diritti politici, ma anche della sua stessa identità. E questo è vero soprattutto dagli anni ’70, quando il governo inglese, sempre più preoccupato da una Cina sempre più forte, ha iniziato ad alleggerire il suo governo autoritario ad Hong Kong. Più Hong Kong è diventato liberalizzato, più si è distinto dalla Cina. Assieme alla prosperità economica, è aumentato il livello di auto-consapevolezza, di senso civico e di una crescente consapevolezza dell’opposizione binaria tra “un Hong Kong libero contro una Cina autoritaria”.

C’è stata una graduale conversione di queste sfide in un’unica “identità di Hong Kong”, anche se all’inizio era un’identità molto debole, che non era necessariamente escludente della “identità cinese”. L’elemento escludente è iniziato a diventare più forte dopo che Pechino ha cominciato ad attaccare i diritti linguistici del popolo di Hong Kong, cercando di rimpiazzare, oltre un decennio fa, il cantonese con il mandarino come lingua principale per l’istruzione. Imponendo la sua “educazione nazionale” agli studenti di Hong Kong, Pechino ha alienato ulteriormente i giovani. Quello è stato anche il momento in cui il termine “localismo” è diventato popolare tra di loro. Molti di loro sentono adesso che prendendosi cura della loro città e resistendo allo sconfinamento di Pechino hanno dato un significato alla loro vita che non sia quello di fare i soldi. Questa nuova consapevolezza è ciò che prima ha potenziato l’Umbrella Movement, e poi la rivolta dello scorso anno.

Una delle questioni affascinanti di cui parli nel libro è che il movimento interpreta se stesso. Per coloro che vivono negli Stati Uniti ed in Europa potrebbe risultare addirittura difficile porsi questa domanda. Da una parte, c’è una crescente tendenza anti-cinese nelle nostre news che colora i reportage sul movimento. La Cina continentale è presentata come un aggressore che non fa compromessi mentre qualsiasi aspetto sgradevole del movimento viene passato sotto silenzio.

Dall’altra, ci sono alcuni critici di sinistra del movimento che leggono gli appelli per una maggiore autonomia e per la democrazia come malcelati appelli anti-comunisti per il capitalismo liberale. Trovano prove di questo nelle immagini di manifestanti che agitano le bandiere statunitensi o che fanno appello a Trump perché venga ad aiutare la loro causa. Cosa pensi di questi resoconti, quali altre false percezioni hai notato nel mainstream e nella sinistra? Inoltre, la tua attenzione al modo in cui il movimento capisce se stesso come aiuta ad aggiustarne l’immagine?

Giudicando in base a quello che Pechino ha fatto al popolo di Hong Kong fin dal 1997, è legittimo dire che la Cina è il diretto oppressore di quest’ultimo. Penso inoltre che inquadrare la rivolta dell’anno scorso come anti-comunista sia palesemente sbagliato. La rivolta ha prodotto un documento che contiene le sue “cinque richieste”. Mentre quattro riguardano la Legge di Estradizione e la violenza della polizia, l’ultima è una richiesta di suffragio universale. Non vedo alcun elemento anti-comunista qua. A causa delle sue cinque richieste, la rivolta era sicuramente “anti Partito comunista cinese”, ma ciò non vuol dire “anti-comunista” poiché il PCC oggi non può rappresentare il comunismo o il socialismo – è anzi la loro antitesi.

La maggior parte dei paesi ha introdotto il suffragio universale un secolo fa, ma non Hong Kong. Ovviamente, la Cina non è l’unica a negarci questo diritto fondamentale – il Regno Unito l’ha fatto per oltre un secolo. Questo, tuttavia, mostra solo la tragedia del popolo di Hong Kong. Sono passati decenni e questo non ha ancora voce in capitolo sul suo governo o sul proprio destino in generale. Questo rende la questione del suffragio universale più giustificata che mai.

Con questo non voglio dire che non ci fossero vere forze di destra all’interno del movimento, ma erano marginali e non erano in grado di guidarlo o di influenzarlo. A dire la verità, il movimento, forte di due milioni di partecipanti, era largamente spontaneo e non aveva leader riconosciuti. Ciò che univa questi milioni di persone erano le cinque richieste, quindi né la richiesta di indipendenza né il sostegno di Trump. Nonostante ciò, sia i media occidentali sia i sostenitori di Pechino amavano, anche se per motivi opposti, focalizzarsi sulle persone che agitavano la bandiera statunitense. Una piccola minoranza di manifestanti è stata messa sotto i riflettori mentre le persone che portavano la bandiera catalana o che hanno organizzato una manifestazione pro-Catalogna, a dispetto dell’ala di destra pro-Usa, sono state ignorate.

Oltre a quelle correnti consapevolmente di destra, c’erano anche giovani che agitavano la bandiera statunitense ma che non appartenevano a nessun partito politico. Al contrario, erano nuovi all’interno del movimento sociale. Potevano portare la bandiera statunitense, come anche quella del Regno Unito o di Taiwan, ma la maggior parte di questi lo facevano per chiedere sostegno internazionale – pensando che agitare la bandiera di un paese potesse ottenere quel risultato. Si potrebbe dire che questi manifestanti erano un po’ ingenui, e lo erano, ma nel valutare le loro azioni è importante evitare di giungere alla conclusione che fossero politicamente allineati con questi paesi.

Un altro problema con la rivolta dell’anno scorso è che la maggior parte dei manifestanti non aveva idea della differenza tra “destra e sinistra”. Qualsiasi elemento del loro mondo era schiacciato nella visione “o Pechino o noi”, che li ha portati ad accettare aiuto internazionale, senza chiedersi “ma questi sono veri amici?”. Talvolta, questa mancanza di comprensione ha fatto sì che i manifestanti fossero giocati dalla corrente pro-Trump, che allora era amplificata dai media.

In generale, e parlando da un punto di vista storico più ampio, penso sia utile vedere la rivolta dell’anno scorso come il graduale risveglio di molte persone di Hong Kong che erano precedentemente depoliticizzate. Hanno imparato in fretta, ma è anche vero che non erano completamente equipaggiate. In queste circostanze, è comprensibile che alcune abbiano agito incautamente. Ciò non vuol dire che non possano imparare o che non possano essere portati al livello di una sinistra organizzata. Dovremmo combattere le correnti che sono consapevolmente di destra, ma quando si parla della maggior parte di questo movimento, dovremmo agire come un insegnante di mentalità aperta che mostra pazientemente un’alternativa ai nuovi arrivati.

Per quelli di noi che hanno visto le proteste da lontano, l’organizzazione di strada del movimento e le sue tattiche sono state un portento da vedere. Com’è emersa questa organizzazione, come ha resistito e che lezioni, se ce ne sono, coloro che vivono fuori dalla Cina possono trarre?

La cosa interessante di questa rivolta è che ha avuto centinaia di grandi e piccole proteste, senza tuttavia un’ampia organizzazione alle spalle. Per le grandi marce, era sempre il Fronte Civico per i Diritti Umani che faceva domanda per l’autorizzazione della polizia, ma il suo ruolo finiva lì. Chiunque, il Fronte incluso, era consapevole di non rappresentare la leadership politica della protesta e di non avere alcuna autorità; questo era il motivo per cui il Fronte ha spesso sottolineato pubblicamente di non avere alcun controllo sul comportamento dei manifestanti. Quanto ai partiti politici, la loro partecipazione era trascurabile.

Di solito, la parte più appariscente delle marce era quando i “coraggiosi” iniziavano a scontrarsi con la polizia. Questi erano i manifestanti in prima linea che consapevolmente e deliberatamente combattevano contro la polizia. Si rimane impressionati da una così ben congeniata divisione del lavoro – lanciare molotov, costruire blocchi stradali, tenere alta la linea di difesa per proteggere i “coraggiosi” dai proiettili di gomma, trasportando strumenti e materiali, e curando i feriti, etc… C’erano anche persone specializzate nel diffondere testi e fumetti di movimento, come anche nel monitorare i movimenti della polizia online o come “sentinelle” sul campo.

Non c’erano organizzazioni a tutto tondo che si occupavano di questo, solo piccoli gruppi autonomi che di solito contavano non più di una dozzina di membri. Ognuno sceglieva il proprio ruolo. Per questo non era raro vedere molte persone del primo soccorso correre in giro mentre non c’erano abbastanza molotov. L’entusiasmo dei giovani ha compensato per la mancanza di organizzazione – con il loro motto “sii come l’acqua” nelle loro teste, erano pronti a cambiare il loro ruolo per arrivare al risultato. I software di comunicazione come Telegram ed Instagram hanno poi facilitato gli scambi di opinioni e il coordinamento tra i manifestanti. Quindi, anche se lo scontro con la polizia non era proprio disorganizzato al 100 percento, era perlopiù spontaneo.

I “coraggiosi” si sono ispirati al Black Bloc europeo, ma alla fine lo hanno superato in termini di intensità e durata. È vero che ci sono stati eccessi, come la distruzione della metropolitana e il fatto che si sia dato fuoco ad un contro-manifestante pro-Pechino, che è rimasto seriamente ferito. Tuttavia, nel complesso, c’è una lezione importante da trarre: diversamente dal Black Bloc, i “coraggiosi” di Hong Kong hanno goduto di ampio sostegno tra l’opinione pubblica. Un sondaggio ha mostrato che la rivolta, caratterizzata da violenti combattimenti per strada e da vandalismo, aveva un tasso di approvazione tra la popolazione del 60-70 percento.

Questo è in netto contrasto con le marce molto pacifiche degli ultimi trent’anni. Lo slogan popolare “Sei tu – governo – che ci hai dimostrato che la protesta pacifica è inutile” è testimone del motivo per cui la rivolta avesse un ampio sostegno tra l’opinione pubblica. Il fatto che la rivolta sia stata perlopiù spontanea ci racconta una verità: è il popolo che fa la storia. Questo aspetto della ribellione ha fatto eco a tutte le grandi rivoluzioni dei secoli passati. È una lezione che la generazione di oggi deve tenere a cuore.

Come spieghi nel tuo libro, il COVID-19 ha dato al Partito comunista cinese un rinnovato permesso di intervenire negli affari quotidiani del popolo di Hong Kong. Come ha cambiato la pandemia il terreno di lotta ad Hong Kong? Cos’altro è cambiato da quando hai finito il libro? E come influirà sul futuro del movimento?

Con lo scoppio e la diffusione del COVID-19 a Wuhan all’inizio del 2020, gli abitanti di Hong Kong si sono messi immediatamente in allerta. Ricordavano che l’epidemia di SARS, che era iniziata nella Cina continentale nel 2003, si era rapidamente diffusa nella città, causando oltre 700 morti. Questa volta, quindi, il nuovo Sindacato dei Dipendenti dell’Autorità Ospedaliera (Hospital Authority Employee Union) – i cui 20.000 membri rappresentano un quarto dei dipendenti totali – ha organizzato uno sciopero di cinque giorni per fare pressione sul governo perché chiudesse temporaneamente il confine per bloccare la diffusione del virus ad Hong Kong. Questo obiettivo è stato parzialmente raggiunto due giorni dopo. Il nuovo sindacato ha dato prova della sua forza. Alla fine di marzo, il governo ha dovuto dare un’ulteriore stretta alle misure davanti ad una situazione che peggiorava e ad un generale malcontento del personale sanitario.

Il governo di Hong Kong ha presto capito che sarebbe stato un peccato sprecare una buona crisi come quella. Il bisogno di imporre il lockdown e il distanziamento sociale gli ha fornito la scusa perfetta per bloccare le proteste. In diverse occasioni, più di cento poliziotti sono stati schierati per dare la caccia a una manciata di manifestanti. Il governo ha usato la pandemia anche come scusa per rimandare di un anno le elezioni legislative, decisione contro la quale l’opposizione ha dato battaglia. Inoltre, Pechino ha imposto direttamente la Legge di Sicurezza Nazionale ad Hong Kong il primo luglio. Il risultato combinato di questi attacchi è stato di bloccare le proteste.

Recentemente, con grande incoraggiamento da parte di Pechino, il governo di Hong Kong ha lanciato un check-up per il COVID-19 in tutta la città per individuare persone asintomatiche. L’opposizione si è espressa contro questa misura perché teme che Pechino possa estrarre DNA da tali test per imporre il Sistema di Credito Sociale, che è già attivo nella Cina continentale.

Questo sistema raccoglie le informazioni dei cittadini e poi valuta la loro “affidabilità”, ripagandoli o punendoli di conseguenza. Il governo di Hong Kong ha sottolineato che il test non era legato al Sistema di Credito Sociale e che sarebbe stato su base volontaria. Presto però è stato riportato che certe big corporation avevano fatto fare il test ai propri dipendenti. Con la sconfitta della resistenza popolare lo scorso anno, siamo entrati in una nuova fase di reazione e la pandemia è stata usata dal governo come un’arma per assicurarsi la vittoria.

Che tipo di lotta pensi ci si possa aspettare di vedere ad Hong Kong e nella Cina continentale nei prossimi anni e decenni? Riponi qualche speranza nel fatto che queste lotte prendano una direzione anti-capitalista radicale? Se sì, questo emergerà in un’alleanza con i membri anti-capitalisti del Partito comunista cinese o c’è bisogno di dichiarare una lotta contro il partito?

L’emergere di un movimento di lavoratori anti-capitalista nella Cina continentale non è probabile nel breve periodo, semplicemente perché la classe dirigente ha già messo in atto le misure di completo controllo e repressione che ne impediranno la formazione. Inoltre, il regime ha completamente ristrutturato la vecchia classe lavoratrice negli anni ’90, privatizzando le società statali e licenziando 30 milioni di lavoratori. Per di più, ha trasformato 250 milioni di contadini in lavoratori migranti urbanizzati. Ciò ha significato rimpiazzare una vecchia classe lavoratrice, che aveva un qualche tipo di consapevolezza collettivista, con un’altra più individualistica che, almeno nel primo periodo, non aveva idea dei propri diritti.

Infine, negli anni ’90, gli intellettuali, per ragioni diverse, sono stati incapaci di vedere la classe lavoratrice come un alleato per un cambiamento democratico e socialista. C’è stato un dibattito animato tra i liberali e la “nuova sinistra”. Mentre i primi chiedevano “più efficienza che uguaglianza” in modo da legittimare il loro sostegno alla privatizzazione, la seconda ha principalmente interpretato l’”uguaglianza” in termini economici e non politici. Questo è stato il motivo per cui, nonostante l’eterogeneità dei suoi punti di vista, l’elemento in comune della “nuova sinistra” sta nel fatto che ha visto la dittatura del partito unico come baluardo del “socialismo” e ha sostenuto lo status quo, opponendosi a qualsiasi idea di libertà politiche ed elezioni libere. Questo li ha portati ad allinearsi con lo stato piuttosto che con la classe lavoratrice. Solo piccoli gruppi di questa nuova sinistra si sono impegnati in un lavoro di solidarietà con i lavoratori.

La combinazione dei tre fattori sopracitati ha mantenuto la classe lavoratrice come classe in sé ma non, almeno per ora, come classe per sé. Nel frattempo, l’assenza di un movimento di lavoratori ha segnato il destino dei liberali e della “nuova sinistra”; sono stati liquidati, cooptati o sono semplicemente scomparsi. Il partito monolitico è oggi onnipotente.

Allo stesso tempo, sostengo che lo stato-partito possa trovare la propria antitesi nel lungo periodo. Sia l’Unione Sovietica che il Pcc sono diventati capitalisti quattro decenni fa. Tuttavia, a differenza della prima che aveva sperimentato una tragica deindustrializzazione, l’arrivo di Pechino nel capitalismo è risultato in una ancor più radicale industrializzazione.

Oggi abbiamo la classe lavoratrice più numerosa del mondo, che conta di 350 milioni di persone. I tassi di urbanizzazione hanno da tempo superato il 50 percento. La Cina non è più un paese povero e contadino. Da questa classe lavoratrice rinata, una voce che chiede cambiamento sarà ascoltata prima o poi. Negli ultimi venti anni, grazie ai loro scioperi economici spontanei, i lavoratori sono diventati più consapevoli dei loro diritti e stanno costantemente alzando le loro aspettative. È questo che spiega anche il costante aumento, nei decenni passati, dei salari.

Se un movimento di lavoratori anti-capitalista potesse liberarsi dalla repressione di stato e di partito, questo sarebbe necessariamente in opposizione allo stato-partito. Non vedo alcun motivo per credere che ci sia o ci sarà una genuina e considerevole forza socialista democratica tra i ranghi medio e alto del partito. Il potere assoluto corrompe le persone. Sin dall’inizio della politica di “riforma e apertura”, oltre a facilitare la rinascita del settore privato, questa ha prima di tutto aiutato gli ufficiali di partito ad arricchire loro stessi.

Questo è quello che la gente ha chiamato “capitalismo burocratico”, che ho discusso nel mio libro del 2012, China’s Rise: Strength and Fragility. Gli ufficiali di partito sono stati talmente corrotti che, al momento del suo arrivo al potere, Xi Jinping ha lanciato la sua campagna anti-corruzione. Tuttavia, nessuna dura repressione della corruzione può funzionare senza una ristrutturazione della dittatura del partito unico e l’applicazione del pluralismo. Ciò ci porta a quanto dicevamo al principio: un movimento di lavoratori che chieda questo tipo di trasformazione sarebbe necessariamente visto dallo stato-partito come il nemico numero uno.

Hong Kong, almeno prima, aveva la libertà di associazione. Tuttavia, il suo movimento dei lavoratori rimane molto debole. Questo era dovuto almeno in parte al fatto che decenni di prosperità avevano mantenuto il livello di disoccupazione molto basso e i lavoratori non sentivano il bisogno di organizzarsi in sindacati. La rivolta dello scorso anno ha stimolato la nascita di un nuovo movimento sindacale ma è ancora poco chiaro dove quest’ultimo possa arrivare.