Hasta que la dignidad se haga costumbre

Il Cile despedido tra reazione e cambiamento verso il referendum del 26 aprile.

16 / 3 / 2020

El Rincon de los Canallas è una delle locande più emblematiche di Santiago. Un luogo che si rifiuta di cedere alla gentrificazione del centro della città, nonostante la fortissima pressione del settore immobiliare per acquistare l’immobile e trasformarlo nell’ennesimo palazzo. È un luogo leggendario, un rifugio dove in sottofondo suona "canalla llama canalla", parola d’ordine con cui Don Víctor Painemal riconosceva e permetteva alle “canallas” di trovarsi ed organizzarsi negli anni bui della dittatura militare.

“Chile libre, canaglia!”, è la risposta data da chiunque entri nella locanda, ancora oggi. “Chile libre” è più o meno la frase scritta su qualsiasi muro del paese andino. “Muri puliti, popoli muti” si diceva qualche anno fa indagando il fenomeno della street art in Italia e nel mondo, in realtà quello che viene scritto sui muri del Cile in questi mesi, dove la memoria della violenza e della morte è ancora troppo viva per essere dimenticata, è un chiaro messaggio politico: di rivalsa, contro Piñera.

Il Cile di questi mesi, infatti, è un paese che non vuole dimenticare ma che trova nelle parole di Eduardo Galeano estrema sintesi: «Il Cile, insieme ad altri paesi del Latino-America, rappresenta in questo momento una piaga mondiale, una brutta notizia continua. Torture, sequestri, omicidi ed esili si sono trasformati in questioni all’ordine del giorno. Ma vi è sempre un’intima relazione tra l’intensità della minaccia e la brutalità della risposta. Si può tranquillamente dire che molti di questi paesi stiamo espiando il peccato della speranza. Il ciclo di cambiamenti, le bandiere di giustizia che mobilitarono le masse e la politicizzazione dei giovani furono tutte sfide che un sistema impotente e in crisi non riuscì a sopportare. La violenta boccata d’ossigeno della libertà risultò fulminante per gli spettri, e la guardia pretoriana fu chiamata per ripristinare l’ordine. Il piano di pulizia è un piano di sterminio».

Queste sono frasi legate ad una scioccante attualità nell’ormai lontano 1977, a qualche anno da quella serie di sollevazioni militari che cambiarono la storia del continente intero. Pinochet era al potere già da quattro anni, in Argentina il governo peronista era stato sostituito da una junta militare dal 1973, Uruguay e Brasile avevano subito la stessa sorte in quel decennio. È a volte disarmante dover ripercorrere i racconti, sfogliare i libri di storia che trattano un tema alquanto delicato e, tuttora, irrisolto come quello degli anni delle dittature. È necessario farlo, però, affinché le nuove generazioni si rendano conto che l’uso della forza militare per reprimere la libertà rappresenta un precedente pericoloso.

Camminando per le strade di Santiago, è molto facile inciampare nella memoria della dittatura e nelle sue storie di orrore e in questi giorni la repressione, la violenza e la morte risvegliate dal governo in difficoltà sembrano un tentativo di emulazione di pratiche già sperimentate. Ripercorrere la storia di quegli anni ci aiuta a capire che non ci sono molte differenze tra allora e oggi, ma soprattutto che alcuni dei responsabili degli “anni bui” sono ancora coloro che comandano. 

Il Cile di oggi è letteralmente esploso il 18 ottobre 2019 quando il governo di destra, presieduto dall’imprenditore Sebastian Piñera approva un decreto legge per aumentare di 30 pesos la tariffa dei mezzi pubblici a Santiago. Come risposta immediata gli studenti, per lo più delle scuole superiori, scendono in strada e si dirigono nelle stazione della metropolitana occupandole e mettendo in atto l’autoriduzione del biglietto per tutti. Questo può essere tranquillamente definito il casus-belli ma non molti sanno che la protesta deflagra quando i Carabinieros del Chile vengono inviati in una delle stazioni occupate dagli studenti, e senza risparmiare nessuno feriscono con un colpo di pistola all’inguine una ragazza di 15 anni. 

Da quel momento tutto cambia. Da quel momento appare chiaro ai giovani in piazza che lo Stato farà di tutto per arginare questo tipo di proteste. 

Ricordare in precedenza quello che fu la dittatura viene in aiuto ora perché ci aiuti a focalizzare chi sono i responsabili della repressione in atto e soprattutto chi è il mandante di tutto ciò. 

Ha tre nomi, due cognomi e una famiglia ingombrante alle spalle. Miguel Juan Sebastián Piñera Echenique è al suo secondo mandato come Presidente del Cile e proviene da una famiglia benestante di Santiago Nord, ha studiato economia ed è sempre stato un grosso imprenditore nel campo dell’informazione e possiede un notevole patrimonio personale che fanno di lui l’uomo più potente e tra i più ricchi del Cile. La sua formazione politica è interna ad una corrente della Democrazia Cristiana, fin dal primo momento sostenitrice del golpe di Pinochet, tanto che un suo fratello fu anche ministro nei governi golpisti. 

Uno dei motivi della protesta è proprio la cesura con l’eredità pinochetista del Cile di oggi. Nel 1990 il generale chiamò un referendum con il quale chiese al popolo di votare una transizione al potere soft, con la sua persona ancora al centro della scena politica, ma il popolo cileno rispose di no, sancendo così la sconfitta di Pinochet e la transizione ad un regime democratico con un presidente eletto dal popolo. Il problema di fondo di tale scelta, che si riflette al giorno d’oggi sulle piazze, è che oltre alla legge di amnistia con la quale sostanzialmente si voltava pagina dalla dittatura, non fu aperto un nuovo percorso costituzionale che modificasse la Carta che il governo militare promulgò nei primi anni ’80. Questa costituzione è tuttora in vigore, anche se in alcune parti è stata modificata, ma è sostanzialmente l’ultima eredità della dittatura. Il popolo cileno sarà chiamato il prossimo 26 aprile a decidere, tramite un referendum, se aprire un nuovo processo costituzionale per modificare definitivamente la costituzione. Il Sì o il No hanno, prevedibilmente, spaccato in due il paese.

Il fronte del no alla modifica è legato all’establishment, ai partiti di governo, alle grandi famiglie industriali e al settore minerario, sostanzialmente il fronte unito della parte della società cilena più benestante che non ha nessun minimo interesse a cambiare il proprio status sociale e politico in favore della maggior parte del popolo. Il fronte del Sì invece si è da subito legato alle proteste delle piazze perché portatore di un messaggio diverso, di cesura con il passato e di una volontà di cambiamento delle ragioni sociali ed economiche della maggior parte dei cileni. Va specificato che mentre il fronte del No al cambiamento della carta costituzionale trova un fortissima sponda politica nel partito di governo, in ampi settori della chiesa cattolica e nel mondo dell’industria e dell’imprenditoria; il fronte del Sì vive della mobilitazione popolare, della “calle” e non ha sponda politica, soprattutto perché sia il Partito Socialista che il Partito Comunista in questo momento sono molto deboli e godono di poca fiducia per via di errori commessi negli ultimi anni.

Le immagini che giungono da Santiago e dalle altre città del Cile ci mostrano che la mobilitazione, ormai giunta al quinto mese, è sempre viva e attiva e si divide in momenti di massa, come le piazze del 8 e 9 marzo, ma anche di momenti meno partecipati ma più radicali dove le varie Primera Linea ingaggiano pesanti scontri con le forze speciali dei Carabinieros del Chile, i pretoriani che citava Galeano, che con estrema violenza tentano a volte invano di riportare l’ordine. Ci sono alcuni dati che vale la pena di aggiungere alla discussione per meglio comprendere il tenore della protesta ma soprattutto quello della repressione messa in campo dal governo Piñera nei confronti delle piazze: oltre 10.000 arresti con accuse che vanno dal terrorismo al turbamento dell’ordine pubblico (aggravato dalla nuova legge sulla sicurezza); oltre 42 morti; il numero dei feriti non può essere verificato perché molti si rifiutano di farsi curare negli ospedali; 190 violazioni provate su donne e circa 450 persone (secondo INDH Chile) che hanno perso l’uso di un occhio per i colpi sparati volontariamente dalle forze dell'ordine sui manifestanti.

Sono numeri impressionanti ma che danno un quadro esemplificativo del tipo di protesta che sta avvenendo in Cile ma soprattutto racconta di una repressione violentissima e brutale, a servizio della conservazione del potere e degli interessi.

Es una hoja en blanco, una pagina bianca: ciò significa che nella discussione costituzionale non ci sarà un testo prestampato, come accade solitamente nell’iter di riforma costituzionale, dove si fa fede al testo preesiste ed è sufficiente porre il veto. La pagina bianca significa cercare un accordo nell'ambito del quorum dei 2/3 con limiti chiari e fermi. In breve, sembra chiaro che votare "sì" significa aprire la strada a una nuova costituzione, ma soprattutto è necessario trovare un accordo in cui si possano accomodare le diverse opinioni costituzionali. Questo richiederà di compromessi, cedere e concordare, ma sembra necessario costruire un accordo condiviso sul potere e sui diritti dei popoli, poiché il Cile è segnato da 40 anni di disaccordo costituzionale.

Il discorso è che non basta solo il testo ma è fondamentale l’interpretazione di quel testo e quelle leggi.

I movimenti sociali hanno generato un repertorio di proposte sostanziali durante questo decennio, mettendo in discussione la logica e l'unidirezionalità della democrazia rappresentativa per avanzare verso una democrazia partecipativa. La capacità di articolare queste richieste e proposte per una proposta nazionale che mira alla transizione verso una società post-neoliberale è la grande sfida che questo processo costitutivo pone.

Il 26 aprile sapremo quindi la sorte del Cile che sarà o di arroccamento del potere verso le preservazione degli interessi economici e sociali o per una più ampia ed equa partecipazione politica, con l’estensione di diritti sociali ad ampie fasce della popolazione che ne sono escluse. 

Hasta que la dignidad se haga costumbre, uno slogan che spesso trovi nei famosi muri di cui si parlava prima, una frase che riassume in un certo modo il disagio dei cittadini per le disuguaglianze sociali ed economiche e per l'accesso ai servizi di base, come la salute, l'istruzione, l'alloggio, le pensioni e i trasporti: diritti negati, che hanno scatenato le prime proteste.

“En pie de lucha por nuestra patria, por la vida y por la humanidad”, rimarrà solo un grido di speranza?

** Pic Credit: Víctor R. Zepeda