Guatemala - Dalla Lacandona alla CPR-Salvador Fajardo

Utente: settina
8 / 4 / 2011

A prima vista la CPR-Salvador Fajardo (Petén) sembra come le altre comunità del Guatemala. Alcuni negozi di alimentari, una scuola e case di assi di legno da cui esce il profumo caldo della legna bruciata per cucinare.

A Salvador Fajardo, uno spazio di umanità ritagliato in una piccola porzione di selva petenera, vivono circa quattrocento famiglie, originarie di Cobán, Santa Rosa, Alta Verapaz, Huehuetenango e Chimaltenango. Lì ho conosciuto doña Elvira, che mi ha raccontato il passato suo e della comunità, specchio della situazione di violenza estrema in cui il Guatemala ha vissuto fino al 1996.

Lo Stato guatemalteco si è da sempre caratterizzato per essere autoritario e militarizzato, manovrato dalle classi al potere per servire i propri interessi. Parallelamente all'incremento della repressione, negli anni '60 si formarono vari gruppi guerriglieri, che nel 1982 si unirono nella URNG (Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca).

Lo scontro tra guerriglia ed esercito s'intensificò tra il '78 e l'83. La reazione controinsurgente fu senza dubbio spropositata: furono atroci le conseguenza della “politica di terra bruciata” portata avanti dal corpo speciale dei Kaibiles, il cui addestramento includeva mangiare animali crudi e bere il loro sangue per dimostrare coraggio, dalle PAC (Patrullas de Autodefensa Civil) e da vari gruppi paramilitari. Secondo la Comisión para el Esclarecimiento Histórico, in Guatemala il saldo di morti e desaparecidos durante il conflitto supera le 200mila persone, di cui l'83% sono indigeni maya. Nel suo rapporto, la Comisión para el Esclarecimiento Histórico scrive: “Gran parte delle violazioni dei diritti umani furono perpetrate pubblicamente. [...] L'assassinio di bambini e bambine indifesi, che spesso vennero uccisi colpendoli contro le pareti o tirandoli vivi in fosse sulle quali venivano dopo lanciati i corpi degli adulti; la amputazione o estrazione traumatica di membra; gli impalamenti; l'uccisione di persone bruciate vive; l'estrazione di viscere di persone ancora vive in presenza di altri; la reclusione di persone già torturate mortalmente, mantenendole per giorni in stato di agonia; l'apertura del ventre delle donne incinte. La crudeltà estrema fu una risorsa utilizzate intenzionalmente, per generare e mantenere un clima di terrore nella popolazione. La stragrande maggioranza delle vittime delle azioni dello Stato non furono combattenti dei gruppi guerriglieri, ma civili”.

Si stima che in Guatemala, nei primi anni '80, dalle 500mila al milione e mezzo di persone furono costrette a fuggire dalla violenza: di queste, circa 150mila si rifugiarono in Messico, mentre le altre si videro costrette a fuggire costantemente all'interno del paese. Alcune famiglie di profughi interni formarono le cosidette CPR (Comunidades de Población en Resistencia): in Ixcán, nell'altipiano del Quiché (CPR Sierra), e nel Petén. Queste diventarono l'obiettivo prioritario delle operazioni militari dell'esercito.

La CPR-Petén si nascondeva nel groviglio impenetrabile che è la Selva Lacandona, in quella striscia di Guatemala che costeggia la frontiera orientale del Chiapas. Lì per dodici anni ha vissuto doña Elvira, profuga proveniente da Santa Rosa, che ha avuto il piacere di condividere con me il racconto della sua esperienza in quella che, a Salvador Fajardo, chiamano “la montagna”.

Al tempo le incursioni dell'esercito erano così frequenti che ogni mattina le familie della CPR-Petén raccoglievano le poche cose che avevano, per essere pronte a fuggire in qualsiasi momento. “C'erano sempre sentinelle ai quattro punti – mi ha raccontato doña Elvira – quando arrivava l'esercito il segnale era uno sparo in aria, era il segnale che si dovevano prendere le proprie cose e scappare. L'esercito entrava spesso: a volte ogni quattro giorni, al massimo ogni mese. Quando arrivava dovevamo fuggire in un altro posto, sempre nella montagna, perchè quando l'esercito arrivava nell'accampamento dove stavamo, se non avevamo abbastanza tempo per portarci via le cose, distruggeva tutto. Costruivavamo un accampamento in un altro posto, perchè visto che l'esercito sapeva che già eravamo stati lì, poteva tornare per vedere se eravamo tornati. Per questo non tornavamo nello stesso posto”.

Doña Elvira mi ha raccontato delle difficoltà di quegli anni, della continua paura, della solidarietà dei compagni e della fame. Si mangiava quello che regala la selva: radici, piante e frutta. Alcuni riuscivano ad entrare in Messico per cercare un po' di cibo. “Ne trovavano poco”, sottolinea doña Elvira. “A volte i compagni trovavano delle milpas, e lì rubavano un poco di mais per i bambini, c'erano moli bambini nella montagna. Cucinavamo quel poco mais: si facevano palline di mais e ognuno si portava la sua pallina nello zaino, e la mangiavamo per lì. Non si poteva fare il fuoco durante il giorno, perchè c'era sempre un aereo che sorvolava la montagna e se vedeva fumo tirava bombe nell'accampamento. Per cui cucinavamo di notte”.

Dopo l'ultima offensiva, nel 1992, i profughi della CPR-Petén capirono che l'esercito non sarebbe più arrivato, e che avevano la possibilità di stabilirsi nella Lacandona. Crearono quattro comunità:Fajardo, Esmeralda, Virgilio y Albeño, dove coltivavano la milpa e l'orto. Pensarono anche di aumentare la pressione sul governo perchè desse loro una finca da coltivare, per uscire dalla selva ed iniziare una vita serena.

Già a metà degli anni '80, la CPR-Petén aveva instituito una commissione per negoziare con il governo di Città del Guatemala: il presidente di allora, Vinicio Cerezo, disse che erano un gruppo di guerriglieri, e per questo non avevano nessun diritto alla terra. Quando però nel 1992 la stessa commissione si rivolse al presidente Alvaro Arzú, questi iniziò la procedura per consegnare loro la finca Santa Rita.

Lì nel 1998, dopo gli Acuerdos de Paz Firme y Duradera (1996), la CPR Petén fondò una comunità che chiamò Salvador Fajardo, in memoria del compagno che negli anni '80, dopo l'ennesima fuga nella selva, si era offerto di tornare all'accampamento per recuperare le pentole che avevano lasciato. Quando Fajardo raggiunse l'accampamento, scoprì che l'esercito aveva bucato tutte le pentole meno una, che si trovava al centro di un falò. La sollevò ed esplose in aria, vittima di una mina che era stata piazzata sotto la legna.

Quando siamo venuti qui non portammo nulla, perchè non avevamo nulla da portare, però stando qui varie organizzazioni ci aiutarono”, mi ha raccontato doña Elvira. “La unica istituzione del governo che ci ha un po' aiutati è stata FONAPAZ (Fondo Nacional Para la Paz): ci hanno dato una mano per quel che riguardo il cibo, ma molto poco. Tutto quello che abbiamo è stato realizzato grazie all'appoggio di organizzazioni internazionali: l'asilo, la scuola elementare, la clinica e la radio. Il governo non ha rispettato quanto aveva promesso, l'unica cosa che fece fu un pozzo meccanico, ma dopo tre mesi si bruciò tutto e siamo rimasti senza acqua. Neanche il Comune ci ha aiutati, diceva che eravamo guerriglieri, ci discriminavano”.

Molti accusavano gli integranti delle CPR di far parte della UNRG, ma questi hanno sempre ribattuto di essere serviti solo da basi di appoggio dei guerriglieri, garantendo loro un luogo per riposare e mangiare. In cambio, la UNRG offriva un grande servizio alle CPR: “i guerriglieri ci difendevano, perchè se non ci fosse stata la guerriglia, l'esercito ci avrebbe sterminati. La guerriglia sapeva che c'era gente indifesa nella CPR, e ci difendeva. A volte quando se ne andavano da lì dove ci trovavamo noi, era in quel momento che arrivava l'esercito. Però finchè loro ci proteggevano, non succedeva nulla”, mi ha raccontato doña Elvira, una donna speciale.

(di Emma Volonté)