Gilet gialli e sans-culottes. Intervista a Sophie Wahnich.

16 / 12 / 2018

La storica Sophie Wahnich ha analizzato in ottica comparativa la fase attuale e la rivoluzione francese, dalla Marsigliese all’immagine di Macron come un novello Luigi XVI: possibili analogie, eccessi di comparazione e potenzialità al lavoro. Sophie Wahnich è una storica, direttrice della ricerca al CNRS e specialista della rivoluzione francese, alla quale ha dedicato diversi libri, l’ultimo dei quali è La Révolution française n’est pas un mythe pubblicato da Klincksieck. In questo volume la Wahnich segue la strada aperta da un altro suo lavoro, L’intelligence politique de la Révolution française (Textuel 2012), nel quale proponeva di assumere dal passato non dei veri e propri “modelli”, bensì dei “lumi” con un’attenzione particolare per “lo spirito e gli strumenti, più che per i modelli”. Per Médiapart, ha paragonato il presente stato di agitazione, in cui la Marsigliese è costantemente cantata e cercata la rievocazione del 1789, con il periodo rivoluzionario. Di seguito la traduzione dell'intervista a Sophie Wahnich di Joseph Confavreux per Médiapart (4 dicembre 2018).

Come vive una storica della rivoluzione francese quel che sta avvenendo ora in Francia?

Lo scenario che va via via definendosi somiglia forse più alle sedizioni descritte da Machiavelli nei suoi Discorsi che ai moti della rivoluzione, il cui progetto politico, seppur immanente, era tuttavia più specifico. Il che non esclude che vi sia un potenziale rivoluzionario in quel che sta avvenendo, soprattutto se si tiene conto del fatto che le sedizioni dei tempi di Machiavelli originarono da una sorta di conflitto di classe tra il popolo minuto e il popolo grosso, e che furono innescate dagli eccessi di quest’ultimo.

«Il più delle volte» dice Machiavelli, «i problemi sono causati da chi possiede, poiché la paura di perdere genera in loro lo stesso desiderio di chi, invece, vuole prendere. Gli uomini, infatti, non credono che quanto possiedono sia al sicuro a meno di aumentare quel che hanno. Per di più, giacché possiedono già molto, possono causare più violenza e disordini più grossi». Il che dipende dalla brama di dominare e accumulare, impoverendo ed esasperando il popolo minuto, che mirava semplicemente a condizioni di vita più dignitose. Perché secondo Machiavelli «il popolo non desidera essere né comandato né oppresso dal potere, mentre questo desidera comandare e opprimere il popolo». Se, per lui, tutti gli uomini sono cattivi, non tutti lo sono in egual misura. I principi e i potenti sono, per loro stessa natura, assai peggiori degli altri, dal momento che il loro desiderio è diretto verso un bene particolare, mentre quello del popolo riguarda un bene universale – la libertà diffusa, identificata con la propria sicurezza.

Questa asimmetria di desideri non può essere ridotta a un antagonismo ordinario, a un semplice conflitto di interesse. In palio vi è, ogni volta, la possibilità di elaborare una concezione di libertà come condizione di non-dominazione. Il che ha, decisamente, un potenziale rivoluzionario.

Ma gli elementi costitutivi di questo periodo e di quello rivoluzionario non sono gli stessi. Tra la fine del sedicesimo secolo e il 1789, si sono dati un processo di elaborazione del concetto di libertà, una critica all’autoritarismo, una diffusione della cultura dell’Illuminismo, veicolata da almanacchi ed enciclopedie popolari, anche tra gli strati più bassi, oltre che tra i ceti più acculturati che frequentavano accademie e salotti.

L’attuale fase appare più ambivalente. Certo, le persone sono istruite e si sono moltiplicati i luoghi di educazione popolare, ma non sono tutti equipaggiati allo stesso modo, il brusio sui social network e nei reality non prepara gli uomini a resistere ai tempi bui, ma li incoraggia a mostrarsi.

La sensazione che abbiamo di una forte eterogeneità all’interno del movimento probabilmente deriva da questo. Non si è data una formazione ideologica discorsiva univoca, ciascuno riferisce nella propria grammatica. In questo contesto di abbandono, le lotte trovano terreno nella contingenza e la contro-egemonia culturale di estrema destra è ben lontana dall’aver vinto la partita. È una buona notizia l’aver a che fare con fâchés mais pas fachos, persone arrabbiate ma non fascisti. Anche se stiamo assistendo a uno sforzo da parte dell’estrema destra – in Germania e nei Paesi Bassi, ad esempio – di ricondurre i gilet gialli entro la propria area di influenza.

Ciò detto, la composizione sociale – e sociologica – delle mobilitazioni di questo mese è estremamente interessante, dal momento che corrisponde a quella dei sans-culotte, cui si aggiunge una forte componente femminile. Oggi, come in passato, si tratta di «uomini fatti», per usare un’espressione dello storico Michel Vovelle: padri di famiglia che hanno un impiego e che non vogliono che le generazioni a venire debbano vivere in condizioni peggiori delle proprie. Fu con queste aspettative che, avendo famiglia e volendo migliori condizioni di vita, i sans-culotte diedero vita alla rivoluzione. 

Le Père Duchesne, il giornale di Hérbert, scriveva ad esempio: «Bravi sans-culotte, perché avete fatto la rivoluzione? Non è per essere più felici, cazzo?». Sosteneva che «da troppo tempo quei poveri diavoli dei sans-culotte stavano soffrendo e si tappavano la bocca. Fu per questo che diedero vita alla Rivoluzione, per essere felici». In questo la situazione attuale è paragonabile a quel periodo, mentre risulta ben distante dai fatti del 2005, quando gli abitanti delle banlieue chiesero di uscire dallo stato di invisibilità in cui vivevano, di avere più rispetto e inclusione sociale.

L’altro possibile paragone, banale ma su cui è necessario insistere, riguarda la diseguaglianza della base imponibile. Incisioni e raffigurazioni di età rivoluzionaria mostrano ιl popolo nell’atto di essere schiacciatο dalla nobiltà e dal clero. Oggi sarebbe lo stesso con banchieri, azionisti e governi loro amici. Qualsiasi senso di umanità presuppone l’equità del sistema fiscale. 

Le persone, oggi, sono sufficientemente consapevoli dell’abbassamento del tenore di vita da rendersi conto che il progetto di legge per finanziare la transizione ecologica è ripartito ingiustamente. Non rifiutano la prospettiva ecologista, ma il fatto che questa pesi in maniera disomogenea sui cittadini.

Il terzo aspetto su cui è possibile condurre un paragone è il fatto che in entrambi i casi il potere si è spinto troppo in là perdendo credibilità. È proprio questa la particolare configurazione del presente, in cui Macron è intervenuto facendo promesse a destra e a sinistra dando, a taluni, l’impressione di una gestione quasi familiare della politica, e rafforzando, in altri, la rabbia verso un partito che, inizialmente percepito come vicino, ha assunto tratti dispotici. 

Ad oggi si fa spesso riferimento a «tumulti», addirittura a «insurrezioni», ma il concetto di rivoluzione è invece quasi assente. Una rivoluzione ha sempre inizio dai tumulti?

No. La rivoluzione francese non è cominciata con le sommosse, ma come una sovversione, se teniamo in considerazione che è cominciata con gli Stati Generali. Il 14 luglio il popolo è sceso in strada per difendere quel che era accaduto da maggio fino ad allora.

Ciò non toglie che si possano dare dei tempi di apprendimento estremamente rapidi nei periodi pre-rivoluzionari. Anche se la maggior parte delle persone che stanno manifestando in questi giorni non ha preso parte alle battaglie contro la loi travail, anche se per molti di loro queste sono le prime mobilitazioni, hanno tuttavia una vasta gamma di esempi da cui trarre insegnamento e non scendono in piazza alla leggera.

Sei rimasta sorpresa dal posto che la Marsigliese ha occupato all’interno di queste mobilitazioni?

Credo che sia dovuto al calcio. Lo sport crea situazioni conviviali, in cui si canta all’unisono sperimentando una gioia corale. È un modo per produrre un effetto massificato, di folla, nel suo senso originario. Fa da collante e consente a ciascuno di sentirsi più sicuro. Se non fosse esistito il calcio, e l’inno fosse stato imparato solo a scuola, nessuno avrebbe conosciuto il testo della Marsigliese, né sarebbe stata usata in contesti del genere. Va da sé che è un uso dialettico. Succede che in Francia, diversamente da altri Paesi, l’inno nazionale sia anche un canto rivoluzionario. In più, credo che le parole di un canto del diciottesimo secolo non possano essere ascoltate passivamente oggi, senza attenzione al contesto. Il «sangue impuro», all’epoca, si riferiva alla questione del sacro, e della sacralità della libertà. Era il sangue di quanti rifiutavano la libertà. Può darsi che oggi qualcuno canti sang impur da fascista, ma non è certo il significato originario.

Quel che va riconosciuto è che la mobilitazione attuale ha una prospettiva solamente nazionale. Non fa alcun riferimento, ad esempio, a tutto quello che si è dato di recente in Gran Bretagna con il movimento Extinction Rebellion. Ciò nonostante, anche se l’estrema destra si è fatta vedere durante queste manifestazioni, esiste un’eterogeneità tale all’interno della composizione sociale scesa in piazza che mi sembra, di fatto, scontrarsi con le prerogative di un movimento di estrema destra.

Dallo scorso sabato c’è un’attenzione particolare alla “violenza” delle manifestazioni, ma le reazioni sembrano molto meno preoccupate che in altre situazioni, quando il livello di scontro era persino più basso. Come te lo spieghi?

A dominare è la sensazione che la violenza scaturita da queste mobilitazioni sia una violenza di risposta. Vi è qualcosa di rivoluzionario in questa forma di violenza subita e quindi rispedita al mittente. Perché la violenza possa essere accettabile, quando non legittima, agli occhi dei più, è necessario che sia stata repressa a lungo. Quel che sta avvenendo somiglia alla presa del palazzo delle Tuileries, che non si colloca agli albori della rivoluzione, ma arriva dopo una serie di pacati tentativi di rivendicare una forma di giustizia risoltisi in un nulla di fatto. Risultati del genere sono all’origine di forme di violenza piuttosto selvagge, percepite dalla popolazione come inevitabili. Si andava dicendo da oltre vent’anni che la situazione non poteva che esplodere, per cui l’esplosione non è suonata completamente illogica o illegittima.  

Durante la rivoluzione il Cittadino Nicoleau, della sezione della Criox-Rouge, difese l’idea di un popolo «reale sovrano e supremo legislatore» che nessuna autorità potesse privare del diritto di esprimere il proprio giudizio, di deliberare, di votare e, di conseguenza, di rendere noti attraverso petizioni i risultati delle proprie delibere, l’oggetto e le motivazioni delle proprie risoluzioni. Sperava «che i francesi non si trovassero nella sfortunata necessità di seguire l’esempio dei romani, di usare contro i propri rappresentati non il diritto umile e modesto dell’istanza, che si è cercato di sottrarre loro, bensì l’imponente e terribile diritto di resistenza all’oppressione, conformemente all’articolo 2 della dichiarazione dei diritti».

L'abbé Gregoire ugualmente diceva «se togliete al cittadino povero il diritto di appellarsi, lo allontanate dalla cosa pubblica, lo rendete infine un nemico. Non potendo reclamare per vie legali, si affiderà ai tumulti e sostituirà la propria disperazione all’uso della ragione». Noi siamo esattamente a questo punto. 

In Francia c’è solamente il diritto di voto e non esistono altri mezzi per rivolgersi al potere, se non le manifestazioni. Macron non ama particolarmente i corpi intermedi, ma senza questi la rivolta è dietro l’angolo.

Come interpreti il fatto che i riferimenti al Maggio ’68 o alla Comune di Parigi, che ad esempio avevano trovato ampio spazio nelle mobilitazioni contro la loi travail, siano decisamente meno presenti di quelli alla rivoluzione francese?

La Comune rappresenta un riferimento cruciale per il movimento operaio, oltreché un paradigma intellettuale. Nonostante interessi certi gruppi, non si rivolge però alla totalità dei cittadini. In più, non si tratta di qualcosa di intrinsecamente gioioso, dal momento che la Comune rimane comunque una sconfitta, mentre la rivoluzione fu, almeno parzialmente, una reale vittoria. Anche se non è stata completa, la restaurazione non ha permesso un ritorno all’Ancien régime tout-court, ed è sicuramente più piacevole riferirsi a una vittoria che a una sconfitta. 

In più, i gilet gialli non fanno parte del movimento operaio, anche se alcuni di loro lo sono. In molti non hanno mai manifestato prima, come successe ad esempio in Tunisia con le mobilitazioni contro Ben Ali. Contrariamente al ’68, la questione qui non è libertaria, ma familiare. Nel 1968 si trattava di inventare una realtà basata su nuove norme. Qui invece si tratta più che altro di una forma di lotta di classe nel rapporto con lo Stato, più che con la fabbrica, il che rende il maggio del ’68 un riferimento meno adeguato rispetto alla rivoluzione.

Tutti si chiedono verso dove stiamo andando. Come storica ha qualche idea?

Gli storici possono dire cosa vi è di nuovo all’interno di questo movimento, produrre una «diagnosi del presente», per dirla con Michel Foucault, ma il loro compito non prevede l’immaginare. Nessuno è in grado di prevedere in che direzione stiamo andando, neppure quanti stanno prendendo parte al movimento. Anche se è interessante vedere il grado di consapevolezza che questi hanno non solo nell’assumere quel che stanno facendo, ma nel pensare il gesto politico e tragico e nel cogliere anche l’eterogeneità/impurità, laddove invece lo stato generale delle cose oggi non è più in grado di intraprendere azioni politiche.

Entrambe le ipotesi che vengono discusse al momento – lo stato d’emergenza e lo scioglimento della camera – risultano coerenti. L’una implicherebbe un aumento dell’autoritarismo. L’altra porterebbe a riconoscere la realtà della crisi politica attuale e la necessità di nuovi rappresentanti. Questa opzione darebbe una vera dimensione rivoluzionaria.

Se invece la volontà fosse quella di mantenere l’ordine neoliberale, allora serviranno tutte le politiche e i provvedimenti dello stato di cose che viene contestato, il che pare piuttosto complicato dal momento che quel che stiamo vivendo è anche l’effetto della distruzione progressiva dell’apparato statale. Le forze dell’ordine a disposizione ad esempio sono sempre meno, da che si deduce che sarebbe impossibile contenere insieme Parigi e le province. Soprattutto perché possiamo vedere che molti agenti di polizia sono stufi e condividono parte della rabbia che sta esplodendo. Se l'apparato statale che ha il monopolio della violenza rischia di passare dalla parte degli insorti, è veramente una rivoluzione. La situazione non è ancora quella, ma potrebbe evolvere velocemente.

Questo movimento si pone in aperta opposizione con i luoghi e i simboli del potere, chi si tratti della volontà di raggiungere gli Champs-Élysées o di attaccare i simboli del capitalismo globalizzato nei quartieri della moda di una metropoli, in tal senso, emblematica. Può essere un indicatore del carattere rivoluzionario di questa battaglia?

Non ne sono sicura. Possiamo immaginare che la sinistra radicale abbia espresso le proprie posizioni anticapitaliste in questo modo. Se facciamo un passo indietro, però, vediamo che la mobilitazione ha avuto il suo inizio sulle rotatorie. Se oggi si è dovuta avvicinare ai luoghi del potere è perché questi non hanno risposto prima alla sua collera.Da questo punto di vista, l’incendio della prefettura di Puy-en-Velay mi sembra particolarmente sintomatico. È stato un attacco che, per modalità, ha ricordato il modo in cui ai tempi della rivoluzione venivano bruciati i castelli senza che però l’obiettivo fosse uccidere i castellani. Quel che in questo periodo mi sembra essere sotto attacco sono i simboli di un potere repubblicano che si macchia di leggi sbagliate, più che la ricchezza in sé.

Traduzione di Anna Clara Basilicò.