Francia - Oltre lo sciopero: prospettive di una convergenza di cicli di lotte

Articolo scritto da due corrispondenti di Globalproject che hanno seguito a Parigi lo sciopero generale del 23 marzo.

28 / 3 / 2023

«In manifestazione ci sono sempre andato quasi per un senso del dovere, ma qui oggi si respira proprio un’aria che mi fa dire che forse vinceremo», questo il commento di un incontro casuale al bar. Fino a qualche momento prima stavamo scappando dalla polizia, impegnata a una caccia all’uomo dopo una manif sauvage a Place de la Bastille. Ora siamo rifugiati in un locale, vediamo attraverso le vetrine le forze dell’ordine continuare a correre, mentre valutiamo l’ottava giornata di mobilitazione consecutiva appena conclusa a Parigi, come in tutta la Francia, dopo la forzatura del 49.3 di Macron sulla riforma delle pensioni[1].

Le manifestazioni ormai proseguono da settembre e si sono massificate negli ultimi due mesi. Inizialmente la centralità dell’iniziativa era delle sigle sindacali in opposizione alla riforma delle pensioni, ma progressivamente il tema si è esteso su un piano economico più complessivo: qualità della vita, inflazione, aumento dei salari, potere d’acquisto (tema centrale dei gilets jaunes) fino ad arrivare nelle ultime settimane a una chiara crisi di democrazia in aperto conflitto con Macron e il regime, per diversi aspetti costituzionali giudicato autoritario, della Vème République.

L’opposizione dalle piazze permea anche le sedi istituzionali, i partiti e sindacati che, costretti dalle basi sempre più infuocate, si “radicalizzano” a loro volta e si manifestano compatti nel rifiuto della riforma senza alcuna mediazione possibile. Nessuna delle parti è disponibile a fare passi indietro: mentre Macron rivendica l’iter democratico della decisione e parla di sacrifici necessari affermando che nei prossimi vent’anni andranno in pensione troppe persone e il sistema non reggerà, chi scende nelle piazze lo smentisce mettendo in luce che si tratta sempre della stessa ricetta neoliberale.

«Gli oppositori alla riforma hanno smontato questa idea del sistema che non reggerà, affermando che se è vero che il numero di persone che andrà in pensione nelle prossime decadi sarà sempre più elevato, è vero anche che la “produttività” media individuale e collettiva attuale è molto più elevata che negli anni ‘70 (1 lavoratore/trice attiv* produce 3 volte di più che nel 1979), e di conseguenza, si contribuisce in misura sempre maggiore alla previdenza sociale. Si propone dunque un modello alternativo, un aumento dei salari nei differenti settori lavorativi per incrementare di conseguenza i contributi versati nella previdenza - Uno degli slogan è “Augmentez les salaires, pas l’âge de la retraite!” (Aumentate i salari, non l’età pensionistica!) - un ritorno alla pensione a 60 anni (contro i 62 attuali) e una pensione minima per chi consegue una carriera completa a 1.400 euro netti. Nello stesso tempo, quando si rivendica un “aumento del potere d’acquisto” si comincia concretamente a riflettere, in maniera implicita e talvolta anche esplicita, su delle forme di salario sociale o di reddito di base incondizionato»[2], e intuisce che la forzatura sul sistema pensionistico sottende un obiettivo chiaro.

«La riforma del governo è guidata da una logica produttivista e considerata da chi manifesta anacronistica nonché punitiva nei confronti dei più precari e poveri. L’obiettivo del governo è di far lavorare per più tempo, di produrre sempre di più, ma senza tener conto di cosa produrre, di come farlo e con quali obiettivi e finalità sociali! Il governo non pensa cioè al sistema delle pensioni dei prossimi decenni mettendolo in relazione con il cambio di paradigma produttivo e economico che la crisi ecologica e climatica ci impongono. Inoltre, è chiaro che il governo ripropone la logica che altri paesi europei conoscono bene, considerando la previdenza sociale e le istituzioni del welfare come un “costo” (la stessa logica l’abbiamo già vista all’opera, anche qui in Francia, sulla sanità, sull’università, e sul regime di disoccupazione, per fare solo degli esempi di “riforme” recenti). E questo nonostante i servizi essenziali del welfare (la solidarietà, la protezione sociale, la cura, l’istruzione, ecc.) non siano certo contabilizzabili nei termini canonici della “produttività”. È chiaro che l’obiettivo celato ma non troppo dei “riformatori”, è quello di offrire il sistema pensionistico ai mercati finanziari, creando le condizioni e incoraggiando il ricorso a meccanismi previdenziali di tipo privatistico. Si aggiunga dunque questo dato di contesto: tutto ciò accade in un quadro in cui il welfare state francese, considerato dal padronato (francese e non) come una sorta di ultimo bastione del socialismo, è da anni entrato nei desideri colonizzatori dei mercati finanziari. Chi scende in piazza ne è consapevole, e sa che a parte qualche dichiarazione retorica sulla sanità come diritto universale sottratto alla logica mercantile, non c’è mai stata da parte di Macron e dei suoi governi, né alla fine del suo primo mandato, né all’inizio del secondo (nel pieno cioè della pandemia), alcun segno concreto di discontinuità con la logica neoliberale. Questo soulèvement popolare vuole un cambiamento globale di modello “di sviluppo” e di società e non solo un’opposizione alla riforma delle pensioni».

Dopo l’imposizione agita con il 49.3, ovvero l’esautorazione del parlamento, lo scenario cambia repentinamente nella composizione e nella temporalità delle piazze. Due cortei a settimana non bastano più, la lotta diventa quotidiana. In tutto il paese si moltiplicano i blocchi del traffico, delle merci e della produzione, i settori più colpiti sono quelli dell’energia, dei trasporti, dell’istruzione e dei rifiuti, come testimoniano le montagne di immondizia ai lati delle strade parigine: i netturbini sindacalizzati e non costruiscono un forte e efficace sciopero e i blocchi di fronte ai depositi e agli inceneritori, lanciati su piattaforme condivise con i movimenti ecologisti e con gli studenti, diventano occasioni di nuovi incontri.

Lo strumento a cui il movimento fa ricorso è la Grève reconductible: preavvisi di sciopero rinnovabili la sera per il giorno seguente: se l’assemblea intersindacale dà la copertura lo sciopero prosegue. A causa dell’inflazione e alla diminuzione di potere d’acquisto i lavoratori che aderiscono alla reconductible vengono sostenuti attraverso casse di mutualismo finanziate attraverso il sostegno della popolazione[3].

Oltre che la temporalità e le istanze si allarga anche la composizione, che pare essere un risultato dei cicli di lotta precedenti. Nelle piazze si vedono i lavoratori sindacalizzati che ricordano le piazze per la loi travail, ma anche una grande presenza (nei soggetti e nelle pratiche) dei gilets jaunes e soprattutto una composizione giovanile e giovanissima.

Le università si organizzano attraverso le assemblee generali dette AG (Assemblée Générale): una tra studenti, una tra il personale universitario (amministrativo e docenti) e una complessiva. E da qualche giorno, sono apparse anche le prime AG dei precari della ricerca (dottorandi senza borsa, docenti a contratto), come nel caso dell’Università Paris 8 Saint-Denis-Vincennes.

Nelle AG si decide l’adesione agli scioperi e alle manifestazioni e quali iniziative agire all’interno degli atenei. Da qui partono le occupazioni o la decisione di convertire le normali attività in corsi banalisés, ovvero sostituiti da iniziative culturali e di dibattito politico, con l’obiettivo di risignificare anche gli spazi di formazione oltre che quelli cittadini, garantendo comunque agli studenti il proseguimento del percorso accademico attraverso un voto politico agli esami. A Campus Condorcet vi è stata la prima occupazione universitaria: la polizia ha reagito arrestando e maltrattando circa 50 studenti* nel tentativo di bloccare sul nascere le proteste: non solo non vi è riuscita ma nelle settimane successive oltre alle università “di sinistra” (come Nanterre, Tolbiac, Paris 8 Saint-Denis, EHESS) è stata bloccata anche L'Université Panthéon-Assas, storicamente “reazionaria”, fatto inedito ed esemplificativo del “débordement” (sconfinamento) delle proteste.

All’interno delle università sono presenti diverse organizzazioni: tra le maggiori vi sono Le Poing Levé (organizzazione giovanile del partito Révolution permanente, nata da una scissione del NPA), il NPA (Nuovo partito anticapitalista) e l’UNEF: sindacato studentesco legato alla CGT. Le sigle studentesche, anche quelle legate ai sindacati, partecipano attivamente alle proteste. Ad esempio a Nanterre studenti dell’UNEF (Unione nazionale degli studenti francesi) sono stati sospesi dal campus dopo aver occupato la presidenza per nove mesi in opposizione alle riforme macroniane sulla selezione universitaria. Accanto alle organizzazioni “strutturare”, c’è poi una costellazione di “collectifs autonomes” che prolifera al ritmo dell’estensione della lotta.

La rabbia parte anche dai giovanissimi: la giornata di sciopero generale del 23 marzo si apre affiancando ai blocchi dei lavoratori anche quelli di moltissimi licei in tutta la Francia. Il preside, una figura fortemente managerializzata e distante dal corpo studentesco e dei docenti, chiama spesso la polizia che interviene per sgombrare le barricate costruite davanti le scuole con i cassonetti dei rifiuti. La repressione colpisce soprattutto le scuole di periferia frequentate dalle terze e quarte generazioni di student* racisés, su cui si sperimentano forme di sorveglianza e tentativi di spezzare il movimento sul nascere. Anche all’interno dei cortei questi gruppi di giovani vengono riconosciuti per il colore del volto o per l’abbigliamento (una sorta di “contrôles au faciès”, il controllo cioè su base etnica che caratterizza l’azione della polizia francese, questa volta messo in opera nel corso delle stesse manifestazioni) e attaccati, con accanimento, dalla polizia di conseguenza.

Dopo i blocchi della mattina, nel pomeriggio una manifestazione moltitudinaria convocata dall’intersindacale ha reso plastiche tutte queste immagini in due biforcazioni di uno stesso corteo, dovute all’eccedenza numerica. 800.000 persone in una distesa chilometrica dove ciascuna modalità di stare in piazza ha trovato dimora, valorizzando pratiche diverse nella compattezza di un obiettivo comune: determinare un punto di rottura con il potere costituito.

Protagonisti del cortège de tête (il corteo di testa) erano indubbiamente i giovani e le giovani. Ogni palo o impalcatura era l’occasione per scrutare dall’alto il corteo e le mosse della polizia o per una scritta meglio visibile. Intanto più in basso teche pubblicitarie e vetrine di multinazionali andavano in frantumi e ciò che prima era cantiere o arredo urbano diventava materiale utile a erigere le barricate a protezione dei lati del corteo dalle incursioni dei CRS (la “celere” francese). Tra cassonetti in fiamme e lacrimogeni si respirava a fatica ma la testa del corteo avanzava determinata e carica di rabbia in uno scontro continuo con la polizia.

Pur esprimendosi in un modo sempre potente durante le manifestazioni «e pur essendo un punto importante di ritrovo e d’incontro di quella costellazione di singolarità e di collettivi non sindacalizzati, il cortège de tête, nelle prime settimane della mobilitazione, non ha avuto il protagonismo strategico di altre fasi. Già durante i gilets jaunes sono cambiate le modalità e le forme espressive in piazza; in queste settimane la partita politica più importante si sta giocando intorno alla generalizzazione dello sciopero e alla riproducibilità di pratiche di lotta efficaci sul piano di quello che viene chiamato il “blocage de l’économie”; oltre ai blocchi e sabotaggi dei lavoratori (come nel caso dei tagli di corrente alle sedi istituzionali o ai “beaux quartiers” - i quartieri dei ricchi - fatti e rivendicati in televisione dai lavoratori della CGT; oppure come ai picchetti di fronte ai depositi di carburante) che di fatto danneggiano la produzione e il trasporto delle merci, oltre allo sciopero generale che tiene in scacco l’intero paese per diverse ore, i manifestanti stanno quotidianamente, e in particolare al calare del sole, mettendo in pratica delle forme di manifestazione selvaggia che sembra stia progressivamente portando anche la macchina repressiva a girare a vuoto».

Le manif sauvages nelle ultime settimane si sono animate a partire da un concentramento comune convocato nel pomeriggio dall’intersindacale: «questo aspetto è importante da sottolineare, perché dopo il 49.3 e il débordement serale delle manif, l’intersindacale, sulla spinta delle basi e della “società”, ha continuato a convocare dei rassemblements anche andando incontro al rischio di una certa ingovernabilità» in una data piazza che veniva regolarmente blindata dalla polizia. A quel punto il meccanismo non è stato solo quello provare a conquistarsi la piazza ( come nelle due sere in cui decine di migliaia di manifestanti hanno invaso la Place de la Concorde, di fronte al Parlamento), ma partire da lì, in gruppi spontanei, ciascuno composto da centinaia di persone e conquistare la città per ostacolare la circolazione urbana, danneggiando vetrine di banche e assicurazioni, dando alle fiamme la spazzatura e lanciando cori, ormai conosciuti da tutti e colonna sonora di queste giornate.

L’azione repressiva è principalmente agita dai BRAV-M, squadre in moto molto agili e violente - istituite nel 2020 durante la rivolta dei gilets jaunes - che attaccano e disperdono i manifestanti ma, nonostante le violenze inaccettabili, le manif sauvages continuano anche dopo l’intrusione della polizia, ricomponendosi in gruppi più piccoli e infilandosi in vicoli più stretti per proseguire le azioni fino a notte fonda.

Nel resto della Francia si moltiplicano i blocchi sindacali nei luoghi della produzione, come quelli della produzione energetica, e il conflitto nelle strade è a livelli anche superiori di quello che si vive a Parigi. Sono stati colpiti i luoghi simbolo del potere centralizzato del governo: in fiamme il Municipio di Bordeaux, la stazione di polizia e la sottoprefettura di Lorient, numerose manif e blocchi stradali a Marsiglia, Lione, Montauban, Montpellier, Rennes, Nantes, Strasburgo, solo per nominarne alcuni. Anche l’operazione “città morte” si diffonde in maniera coordinata in tutta la Francia, bloccando e impedendo la circolazione nei principali snodi del traffico extraurbano.

Le proteste sono capillari e diffuse anche in città nelle quali non erano presenti componenti organizzate. La centralizzazione del potere politico ed economico della capitale e del “Roi Macron” viene meno, anche in seguito al disseminarsi di questioni ecologiste fortemente legate alle specificità territoriali e allo sfruttamento estrattivista a danno dell’equilibrio dei territori e delle classi subalterne che li vivono. Nei giorni seguenti allo sciopero generale, vi sono state le giornate convocate da Les Soulèvements de la Terre, giornate di resistenza locale in difesa dei territori in contrapposizione ai modelli distruttivi di agro-business e alla cementificazione. La forte solidarietà e la convergenza su una lotta territoriale ha permesso la costruzione di iniziative incisive e partecipate.

La potenza straordinaria di questo ciclo di lotta è la compattezza e la sincronia tra le diverse componenti di questa moltitudine. Per quanto i sindacati non riproducano alcune forme di conflitto, sono solidali e usano gli strumenti che hanno a disposizione per creare degli spazi attraversabili in diverse modalità. Anche alcuni media mainstream stanno iniziando a mettere in discussione l’uso della sorveglianza e della repressione voluto da Macron, domenica una testata riconosciuta a livello internazionale come Le Monde, e in altre occasioni più vicina al governo, ha pubblicato un articolo di denuncia della violenza poliziesca. L’opposizione è forte su tutti i livelli: parte dalle strade, dai luoghi di lavoro e dalle scuole, forza le reti sindacali, si impone alla sinistra al governo e permea la narrazione mediatica indipendente e mainstream.

Il 49.3, i sindacalisti esautorati, le provocazioni di Macron che paragonano le piazze francesi ai bolsonaristi hanno prodotto una radicalizzazione tale che ha portato a un punto di non ritorno confermato una crisi democratica che sta aprendo “una crisi della V repubblica francese che si è fatta con De Gaulle e ha instaurato il presidenzialismo”.

Basta avvicinarsi in uno dei momenti di mobilitazione di queste giornate per accorgersi del loro portato desiderante che va ben oltre le dimissioni di Macron e l’abrogazione della riforma, si respira un’aria costituente. In questo avrà sicuramente importanza quanto sedimentato dall’elaborazione dei gilet jaunes sulle forme di democrazia diretta, sulla sperimentazione dell’ADA (Assemblée des Assemblées), sulle riflessioni nel merito della decentralizzazione della decisionalità politica ed economica.

Nel frattempo anche il dibattito istituzionale è animato sul tema, in questo il ruolo dei partiti si deve osservare alla luce delle ultime presidenziali con cui Jean-Luc Mélenchon con la NUPES (coalizione di partiti di sinistra ed ecologisti) ha sostenuto che, se eletto, sarebbe stato l’ultimo presidente della V Repubblica, convocando una nuova assemblea costituente per definire il passaggio materiale alla VI Repubblica e i suoi principi: «Mélenchon nel corso dell’ultima campagna per le presidenziali ha costruito una proposta di rottura sul piano della pianificazione ecologica e dell’uscita dal nucleare, della tutela di beni comuni come l’acqua, della riduzione del tempo di lavoro, del rilancio e estensione diritti sociali. Su quest’ultimo punto la sua proposta è stata quella di rifondare le istituzioni della sécurité sociale sottraendole al controllo di una logica statalista e verticale, e affidandole a forme gestione da parte dei lavoratori che si ispirano, anche se solo in parte, al modello originario autogestionario della sécurité sociale istituito nel 1945, durante e dopo i Consigli della Resistenza. E poi, sul ruolo della Francia nelle relazioni internazionali, la proposta è stata quella di un abbandono dell’atlantismo e dell’apertura strategica di alleanze nel Mediterraneo, in Africa e in America Latina. Il “fenomeno Mélenchon” non è dunque riducibile a un’operazione elettorale. Ha coalizzato e polarizzato attorno a sé istanze di rottura e di cambiamento, attirando il voto “racisé” delle banlieues e quello giovanile e femminista delle medie e grandi agglomerazioni metropolitane, rendendo così la campagna delle presidenziali molto interessante sul piano sociologico e soprattutto politico. Interessante non solo per i contenuti del programma e per la “composizione” dell’elettorato, ma ancor di più perché non abbiamo assistito a una neutralizzazione o sostituzione delle lotte a favore del ristabilimento di una logica della rappresentanza; al contrario, le elezioni presidenziali prima, e le legislative dopo, hanno prodotto una divisione del paese in tre poli (la NUPES, l’estremismo di centro di Macron e l’estrema destra, tre poli o blocchi che hanno conseguito all’incirca le stesse percentuali di voto). Questa divisione ha in definitiva costituito una tappa importante per il rilancio delle lotte sociali nei mesi immediatamente successivi».

Un altro scenario possibile, nel panorama istituzionale, è quello in cui questa crisi di governo, caratterizzata da una dura offensiva del governo nei confronti della sinistra sindacale e politica, possa favorire l’ascesa della destra reazionaria. Un anno fa Macron fu eletto al ballottaggio per pochi punti e fu lui stesso a constatare come metà dei voti che aveva ottenuto non fossero frutto del suo programma ma dell’opposizione a Le Pen e alla volontà di “faire barrage” alla sua ascesa al potere.

Nonostante l’immagine di leader social-liberale che Macron ha costruito all’estero, ponendosi in alterità a personaggi come Trump e Bolsonaro attraverso la stampa internazionale, in Francia le sue politiche hanno favorito la crescita delle destre. Questo doppio volto di Macron è fondamentale da cogliere e non sempre, all’estero, la si è colta a causa, forse, della narrazione mediatica.

Da quando Macron è al potere l’estrema destra si è progressivamente rafforzata, favorita dalle sue politiche “securitarie” e dai continui attacchi alla sinistra e al presunto comunitarismo delle periferie. L’idea che Macron costituisca un argine all’estrema destra è dunque completamente falsa. Le dichiarazioni di Macron, come nell’intervista rilasciata alla vigilia dello sciopero del 23 marzo, sono state volte a condannare le proteste e a giustificare la repressione poliziesca.

Se quest’ultima riuscirà a dare una battuta d’arresto alla sinistra, l’ipotesi, senza dubbio “tragica”, fatta da alcuni editorialisti, come il direttore della testata Mediapart Edwy Plenel, è quella della strada spianata per Marine Le Pen verso l’Eliseo nel 2026 se la riforma dovesse passare. Le Pen, infatti, punta ad apparire come un’alternativa in termini “di ordine” a Macron. Contraria alla riforma, almeno a parole, ma contraria anche alle piazze, e alle forme di protesta sindacali e non (si è per esempio schierata per una precettazione dei netturbini al fine di restaurare il decoro urbano a Parigi), Marine Le Pen si presenta oggi come un’opposizione a Macron che gioca sul suo stesso terreno, con un accento sulla questione del ristabilimento dell’ordine pubblico. Inoltre, una volta terminato il dibattito attorno alle pensioni è probabile che nei media si torni a parlare della nuova legge sull’immigrazione (la loi Darmanin), tema su cui i movimenti stanno già dando battaglia ma che è terreno politico fertile per Le Pen.

Sempre sul tema della prospettiva anche una voce molto nota ai movimenti francesi, quella di Frédéric Lordon economista e filosofo, si è pronunciata a seguito di queste settimane di lotta. Parla di un clima pre-rivoluzionario e del bisogno di formulare una volontà politica positiva in cui “il numero” che governa quest’ondata di dissenso possa riconoscersi e propone di farlo a partire dalla produzione. Osservando l’oggettiva constatazione per cui in pochi decenni, con un picco dal 2016 in poi, chi aveva la centralità del potere politico ha messo in ginocchio un intero modello, in risposta a questo sostiene, riportando le parole di un sindacalista della CGT, che «l'idea della sovranità dei produttori, solitamente riferita al mondo dei sogni, cade come logica conseguenza. L’ unica conclusione possibile è licenziare questi sciocchi e rilevare l'intera produzione da loro» aggiungendo che «Si potrebbe ritenere che questo sia il vero significato da dare alle parole "sciopero generale": non l'arresto generale del lavoro, ma l'atto di iniziare la riappropriazione generale dei mezzi di produzione».

Gli scenari possibili sembrano essere molti, siamo lungi dall’affermare con sicurezza che da tutto questo se ne esca con un cambio di assetto politico, ma ci sembra di leggere tutti i presupposti perché questo movimento che sta travolgendo le strade di tutta la Francia in modo dirompente riesca ad aprire degli spazi inediti di immaginazione, di proposta e di contagio al di fuori dell’esagono.

Con certezza però sappiamo che questa storia non è vicina a scrivere la parola fine e che proveremo a osservarla da vicino ogni volta che ci sarà possibile per tessere relazioni e metterci a servizio di un quadro più grande che si spera tocchi anche noi, con forme e tempi diversi. Intanto martedì 28 marzo l’intersindacale ha convocato una nuova giornata di sciopero generale e l’NPA sta provando a chiamare un primo momento di discussione complessiva che veda tutte le parti protagoniste di queste mobilitazioni partecipi. C’è poi, sul piano degli strumenti istituzionali a disposizione delle forze di opposizione, il ricorso presentato dalla NUPES al Conseil Constitutionnel che dovrà pronunciarsi nei prossimi giorni con la possibilità di un ritocco e di un rigetto integrale della legge, nonché la proposta di un referendum abrogativo della legge su cui stanno convergendo le forze politiche e sindacali.

Mentre noi terminiamo quest’articolo il fuoco delle rivolte francesi non si spegne, l’immagine della città dell’amore neoliberale, vetrina per il turismo e per la borghesia non esiste più, soccombe sotto cumuli di spazzatura e l’odore acre di fiamme e lacrimogeni.

Il petit roi e i suoi seguaci sono soli, spesso al buio senza corrente, protetti dalla polizia e nascosti nei loro palazzi del potere ma il calore della rabbia e il desiderio che muove milioni di persone stanno bussando alla porta sempre più forte. Mentre gli scioperi liberano il tempo dal ricatto del lavoro nelle strade si festeggia e si combatte e lo spazio si riempie dell’immaginazione collettiva che tiene viva la fiamma della lotta per una vita felice al di fuori dell’ordine capitalista. 



[1] Questo articolo è stato scritto da due corrispondenti di Globalproject che hanno seguito la grande mobilitazione del 23 marzo.

[2] I virgolettati che seguiranno d’ora in avanti sono frutto di una chiacchierata fatta con Francesco Brancaccio, compagno e ricercatore dell'università Paris 8.

[3] Per contribuire: Cassa solidale per i lavoratori dei rifiuti, Cassa intersindacale tra CGT e SUD solidarie