Femminismo, liberazione e resistenza in Palestina

28 / 1 / 2020

«Non vi è liberazione nazionale senza la liberazione delle donne!».

È questo uno slogan incisivo che le donne palestinesi gridano orgogliosamente durante le manifestazioni del movimento Tal’at. Uno slogan che appartiene a una genealogia di donne in lotta che, generazione dopo generazione, passano il testimone e tramandano la memoria collettiva di un popolo, la sua storia e le lotte contro il patriarcato e contro il colonialismo israeliano. Una doppia lotta dunque che contraddistingue i loro vissuti, una doppia lotta che accompagna l’intero movimento di liberazione nazionale. Così il femminismo palestinese assume una portata rivoluzionaria essendo capace di mettere in discussione sistemi di dominio diversi, tra cui colonialismo, imperialismo e patriarcato.

In Palestina la lotta femminile e femminista (termine in cui non tutte si riconoscono anche a causa dello storico portato coloniale che il termine assume) affonda le sue radici già alla fine dell’ ‘800. La prima manifestazione documentata di donne palestinesi che interpongono il loro corpo alla costruzione di una colonia ebraica, nel villaggio di Afula, risale al 1893. Da qui inizia a prendere forma una lotta strutturata che si esemplifica in manifestazioni, boicottaggi, interposizioni fisiche contro la violenza dell’esercito, distribuzioni di armi, alimentari e beni di prima necessità tra la popolazione. Ci sono dunque le donne che si addestrano militarmente nei campi profughi palestinesi in Giordania, le donne prigioniere nelle carceri israeliane che portano avanti lunghi ed estenuanti scioperi della fame per ottenere i loro diritti, donne che in risposta alla violenza di un colonialismo opprimente, che devasta la loro quotidianità, rendono l’ordinario straordinario.
All’interno di questo contesto il parallelismo tra lotta di liberazione nazionale e quella femminile diventa un’azione necessaria. Un parallelismo che ha assunto  rilievo fino ai drastici accordi di Oslo del 1993, che rappresentano un punto di non ritorno, un punto che intacca tragicamente la lotta di liberazione escludendo determinati attori, rivendicazioni e proposte di risoluzione.

Infatti, non solo viene violato il diritto alle donne palestinesi di presiedere al tavolo dei negoziati, ma non vengono tenuti in considerazione nemmeno altri diritti fondamentali, come il diritto al ritorno   dei rifugiati palestinesi nelle loro terre riconosciuto invece dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione numero 194.

Ciò che viene richiesto alle donne è di fare un “passo indietro”, anteponendo l’importanza delle rivendicazioni sociali a quelle del progetto di liberazione nazionale. Così le donne palestinesi ancora una volta, riadattano e riformulano la loro lotta negli interstizi di uno spazio altro, subalterno, dove nel tempo stanno imparando a muoversi adottando strategie e forme resistenza volte all’autodeterminazione.

Nel mondo la lotta femminista è varia e complessa eppure è possibile individuare un avversario comune che si insidia e permane: il patriarcato. Da qui nasce l’esigenza di un’intersezionalità delle lotte femministe affinché i movimenti possano, attraverso un confronto e un dialogo di esperienze, costruire una solidarietà internazionalista che si estende dalla Siria alla Palestina, dal Cile al Libano, dall’Iraq all’Algeria. Si tratta di scenari di lotta diversi in cui però il femminismo può e deve rivelarsi un linguaggio comune, ma per far in modo che ciò avvenga è necessario un processo di decolonizzazione che ci porti a riflettere abbandonando la lente orientalista attraverso cui l’Occidente guarda e giudica i corpi e le lotte di donne altre.

Gli accordi di Oslo hanno portato  nuovi  cambiamenti radicali all’interno della società palestinese, determinando l’emergere di ulteriori attori decisivi all’interno del nuovo quadro politico ed economico venutosi a delineare. Si tratta delle ONG che a partire dagli anni post-Olso iniziarono ad insediarsi e ad operare nei territori palestinesi al punto da determinare – così come viene definita da diversi studiosi – una “ONG-izzazione” della società: penetrano la società civile e ridefiniscono la loro agenda in base a imposizioni calate da vertici superiori, mostrando un volto dai tratti neo-coloniali. Il “non governativo” diventa un agente controllato, dominato da strette regole che antepongono alle esigenze della popolazione autoctona il rispetto di accordi politici esterni e decisi dall’alto.

I movimenti dal basso, tra cui anche quelli femminili, vengono depotenziati e la frammentazione geografica – causata dagli  accordi di Oslo –  si rivela sempre più sociale e politica.
La continua ridefinizione di spazi, poteri e attori (a vantaggio dell’occupante) ha portato alla costruzione di confini, checkpoint, muri, separazioni e segregazioni. Elementi che hanno limitato l’impatto, l’incisività e la potenzialità di innumerevoli lotte, movimenti e istanze.
Il “divide et impera” ha permesso ai colonizzatori di frammentare la popolazione autoctona incidendo gravosamente sul progetto di liberazione nazionale e sui suoi risvolti futuri. 
Ad oggi in un territorio smembrato e sottoposto a diverse forme di controllo, dove persino incontrarsi risulta difficile, la nascita del movimento femminista e anticolonialista Tal’at ha rappresentato sicuramente una speranza. Migliaia di donne nella Palestina storica e nella diaspora si sono unite nelle piazze reclamando la loro libertà dalla violenza di una società patriarcale e dal regime di segregazione israeliano: una lotta intersezionale, che ha al suo centro la battaglia di ogni marginalizzato, dai rifugiati alla comunità Lgbqi.